I-Music

I dischi del 2021 | L’indiependente

Per raccontare il 2021 in musica quest’anno scegliamo la formula del jukebox casuale. Una manciata di nuovi album selezionati senza ordine né classifiche. I dischi che ci hanno colpito nel 2021, raccontati dalle voci della redazione de L’indiependente. Per chi vuole recuperare un ascolto prima che il vecchio anno sfumi in un primo di gennaio. Buone feste, buona musica.
Grafica: Francesco Pattacini

ARAB STRAP — As Days Get Dark

Rock Action/ Best & Fairest

Un’esistenza caotica a base di drink economici e droghe tagliate male, gelosie ingiustificate e sesso casuale ben prima di Tinder, ma anche realismo sociale vivido, tristezza a palate costantemente fraintesa, autocommiserazione spicciola, humor nero e la spropositata quantità di innumerevoli parole volgari che servono per raccontare il tutto. Gli Arab Strap sono stati la personificazione sonora — lercia e romanticissima allo stesso tempo — dell’edonismo ubriaco. La cosa più simile a Trainspotting che avesse la forma di una rock band. Qualcuno l’ha chiamato sadcore, equivocando tutto fin dall’inizio appunto, perché se c’è un aspetto che ha sempre caratterizzato la poetica dei due scozzesi è un lucido sguardo ironico sulle disgrazie proprie e altrui. Dopo 16 anni di silenzio, la narrativa di Aidan Moffat e Malcolm Middleton rimane ancora ineguagliata, le note che la accompagnano non meno attuali di allora. «Dejected, deserted, and drunk» — guardatevi intorno e ditemi se non vi suona drammaticamente familiare. (Simone Fiorucci)

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JAMES BLAKE – Friends That Break Your Heart

Republic

Se era la ricerca di sé e la difficoltà di trovare un modo preciso per esprimerlo, la dimensione in cui si è mosso James Blake nei suoi primi passi, Friends That Break Your Heart segna una sorta di confine, in cui l’accettazione dell’alterità si fa positiva, più chiara, nonostante il suo peso dai tratti mortali. Blake si prende il tempo per delineare questo percorso, dalle ultime parole al funerale interiore, dal senso di abbandono al ritrovarsi e accorgersi che la fine, in fondo, è parte stessa dell’inizio, che non è l’oblio la risposta ma è accettarla la fonte stessa dell’ispirazione. Non ci sono risposte in Friends That Break Your Heart, nonostante tutto, e non c’è nemmeno solamente una commiserazione ma un’esplorazione sentimentale della perdita e della sua poetica disarmante. (Francesco Pattacini)

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FLOATING POINTS, PHAROAH SANDERS & LONDON SYMPHONY ORCHESTRA – Promises

Luaka Bop

Scritto e arrangiato da Sam Sheperd, in arte Floating Points, Promises è un viaggio in nove movimenti guidato dal sassofono e la voce della leggenda jazz Pharoah Sanders. A scandire i movimenti è un motivo dal timbro celestiale, che sembra suonato da un clavicembalo, su cui il sassofono di Sanders si appoggia, sostenuto da un’inesplicabile forza superiore. Il tema principale procede seguendo la stessa tinta sonora, mentre il sassofono si leva in aria disegnando traiettorie e costruendo immagini che vanno dal riflessivo al celebrativo. Nel sesto movimento, la variazione è affidata agli archi della London Symphony Orchestra; è un episodio in cui la musica sembra evocare la forza della speranza umana. Sul finale, Floating Points crea un linguaggio psichedelico attraverso il raffinato uso di sintetizzatori. Promises riesce ad essere classico, jazz ed elettronico. Ed è questa sua tripla identità a meravigliare ad ogni ascolto. (Viola Pellegrini)

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IOSONOUNCANE – Ira

Panico SRLS

Annunciato con una straordinaria operazione – ricca di hype – che prevedeva una presentazione live nella primavera del 2020 prima della furia pandemica, IRA è un’opera monumentale – triplo vinile – frutto di un lavoro estenuante che ha attraversato un arco temporale di circa cinque anni. Scritto e arrangiato in ogni singola parte, nota, accento, IRA è un paesaggio sonoro fitto e sconfinato in cui s’intrecciano elettronica, psichedelia, echi del Maghreb e reminiscenze jazz. L’impatto clamoroso dei suoi diciassette brani per quasi due ore di musica, quel suo plasmare senza tregua una materia sonora, mobile, densa, incandescente sembra davvero – come attraverso un sistema ipnotico – modificare la realtà intorno all’ascoltatore, facendolo precipitare in uno stato dove la realtà che lo circonda smette di esistere per ciò che è e, appunto, si deforma, si curva, si chiude su se stessa non lasciando altro pensiero che quello della musica stessa. Con IRA, dunque, IOSONOUNCANE fa un passo in avanti nella sua evoluzione di compositore e musicista, lasciando avvolgere le sue idee da una musica più libera e più complessa che rinuncia all’idea di una forma finita per consegnarsi a una sorta di – bellissima – smarginatura musicale. Un disco, IRA, che conferma Jacopo Incani non solo come il nome di punta – e per distacco – della scena italiana ma che lo colloca ormai tra i migliori nomi dell’intera scena internazionale. (Fabio Mastroserio)

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THE WAR ON DRUGS – I Don’t Live Here Anymore

Atlantic Records

I Don’t Live Here Anymore è il quinto lavoro in studio dei War On Drugs. Fin dal primo ascolto ritroviamo sonorità tanto amate in Lost In The Dream e in A Deeper Understanding da chiedersi quali sorprese possa ancora riservarci in questo capitolo la formazione statunitense. Ma ancora una volta la voce di Adam Granduciel pizzica con dolcezza corde profonde che avevamo dimenticato potessero essere suonate. Sebbene le protagoniste indiscusse di I Don’t Live Here Anymore siano le chitarre, c’è spazio anche per sintetizzatori che richiamano basi ritmiche anni ‘80 che galoppano veloci. Troviamo due Americhe, quella del passato cantata da “The Boss”, Bruce Springsteen che da sempre influenza la produzione dei The War On Drugs e quella del presente raccontata da Adam Granduciel attraverso la condivisione di paure e speranze per il futuro. Un disco lirico e struggente. (Ilaria Del Boca)

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SONS OF KEMET – Black To The Future

Impulse! Records

Black To The Future, il quarto album targato Sons Of Kemet, votato ad un’improvvisazione entusiasmante e unconventional, diretta in modo eccellente da Shabaka Hutchings e i suoi tra free jazz, afrofuturism, calypso e dub. Un disco espressivo,identitario e meravigliosamente black, che invita alla ribellione riscrivendo gli orizzonti sonori. (Stefano Grimaldi)

 

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JERUSALEM IN MY HEART – Qalaq

Constellation Records

Radwan Ghazi Moumne è ritornato col progetto Jerusalem In My Heart, continuando il suo percorso di avanguardia senza spezzare il legame con le sue radici arabe. Qalaq è il nuovo album che è uscito per Constellation Records e vede la collaborazione di artisti del calibro di Lucrecia Dalt, Tim Hecker, Moor Mother, Greg Fox, Rabih Beaini, Alanis Obomsawin e tanti altri. Qalaq è una parola che sta ad indicare una profonda preoccupazione, declinandolo il racconto dell’album sul clima di incertezza politica ed economica che riguarda il Libano. L’ennesima dimostrazione della grandezza di un artista capace di creare intrecci complessi e solidi per sostenere il peso e la forza della narrazione. (Nico Orlandino)

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AROOJ AFTAB – Vulture Prince

New Amsterdam Records

C’è un principio di magia nella voce di Arooj Aftab, così speciale che ascoltando Vulture Prince veniamo come rapiti da un melting-indie-pop sui generis, un album che riesce a mescolare la tradizione araba del ghazal con quella del folk più puro: poesia e musica. C’è un bellissimo punto di contatto, un ponte immaginario tra la voce di Aftab, le sue origini pakistane e gli scantinati newyorkesi. Vulture Prince è una delizia, uno dei dischi più raffinati e affascinanti dell’anno. Contemporaneo, senza tempo. (Gio Taverni)

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FOR THOSE I LOVE  – For Those I Love

September Recordings

For Those I love è un disco che nasce da un dolore, che si regge sulla rabbia e i ricordi, e che alla fine racconta sentimenti sinceri, erigendo una lapide di frasi disperate, apparentemente sputate nel vento ma che si tengono unite fino a diventare un pugno allo stomaco, rafforzate da atmosfere elettroniche underground che salgono dalle viscere di Dublino così come le parole salgono da quelle di David Balfe. Il musicista irlandese perde il suo miglior amico, Paul Curran, che decide di suicidarsi. Entrambi facevano parte del collettivo punk Burn Out. Paul Curran scriveva versi e si portava dentro quelli dei più grandi, come le tracce raccontano. Questo potente debutto musicale si attacca all’animo di chi ascolta, raccontando l’abisso con musica dance e uno spoken word vicino a quello originario di Gil Scott-Heron. Questo disco è figlio di un dolore ma anche di una scena musicale cittadina tra le più interessanti, che dopo Fountaines D.C.e Murder Capital, ci regala anche David Balfe. (Ernesto Razzano)

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VIAGRA BOYS – Welfare Jazz

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Il 2021 nella narrazione pop-mainstream avrebbe dovuto essere l’anno della ripartenza, dei buoni propositi e del sentimento di rivalsa rispetto al nefasto 2020. Aspettative pressanti sin dall’inizio che ben presto ci hanno lasciato in balia dell’incertezza. Forse ci saremmo dovuti impegnare il doppio per cancellare e rimediare alla tragedia. Sappiamo come è andata a finire. Ho scelto inserire in questa raccolta Welfare Jazz dei Viagra Boys, disco uscito a gennaio che aiuta ad accettare le imperfezioni e aiuta a non curarsi della polvere che ogni giorno scegliamo di nascondere sotto il tappeto. Nella sua seconda fatica la band di Stoccolma ha scelto di ampliare la sua mitologia, già ricca di cani di diversa taglia, aziendalismo e cattivo gusto, inserendo nuovi personaggi interpretati dall’ anti-frontman Seb. Insieme all’outfit composto da canottiera, tuta e occhiali da sole veste i panni del fidanzato pentito e fa i conti con sé stesso per la sua condotta non sempre ineccepibile. Un uomo bianco con le sue “difficoltà” che cade, si rialza ed è grato di sentirsi vivo, mantenendo quella patina ironica e kitsch, mai esagerata, che dagli esordi lo caratterizza. Un disco post-punk che scimmiotta il blues, il country e il jazz, col basso martellante di Henrik “Benke” Höckert e il sax che si insinua in ogni brano a titillare le orecchie dell’ascoltatore. Un album sovversivo nella semplicità con cui celebra la vita nei suoi aspetti più sporchi e rivoltanti. (Pier Iaquinta)

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BACHI DA PIETRA — Reset

Garrincha Dischi

Giovanni Succi e Bruno Dorella assecondano la loro natura primitiva di insetti corazzati come fosse un marchio atavico che oggi sarebbe fico chiamare comfort zone – non fosse che di confortevole ha, ineluttabilmente, poco o niente. Non era scontato: per gente che negli anni ha saputo scavarsi i propri tunnel con le unghie e con i denti, ritrovarsi oggi sulle spalle il compito ingrato di dimostrare che il rock in italiano è tutto meno che morto, avrebbe potuto essere quantomeno frustrante. L’impressione di sentirsi carne da macello, ultimi mohicani di una stirpe di stronzi, dietro l’angolo. La tentazione di mollare l’osso e crogiolarsi a bestemmiare un universo in cui continuano a vincere i più fedeli ai loro stessi cliché, più che giustificata. E invece nulla è tolto alla carica e all’ispirazione primordiale. Ironica, spietata, consapevolmente stoica, riesce a sottolineare come proprio nel peggiore degli spasmi si possa trovare la forza per affrontare un nuovo inizio che non rimetta in discussione il vecchio. L’ottimismo è un’altra cosa, su questo non c’è dubbio. Ma la strada è già piastrellata di splendide, cattive intenzioni. (Simone Fiorucci)

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slowthai – TYRON

Method Records

C’è slowthai e c’è Tyron, due dischi e due personalità che vivono all’interno di TK Frampton e cercano di trovare una soluzione di continuità. Parte 1 e 2 di TYRON corrispondono a questa ricerca, con toni arrabbiati, politici, gangsta attitude su basi sempre più acide e hard grime della parte 1, e una realtà più intima, inaspettata, in cui Tyron si fa narratore della solitudine e della propria fragilità, alternando momenti buoni e cattivi, calandosi su basi più lente, con spazi di lirismo e concentrazione emotiva inaspettata. Feel Away, con Mount Kimbie e James Blake, dice tutto quello di cui avevamo bisogno nel 2021. (Francesco Pattacini)

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SAULT – Nine

Forever Living Originals

Al quinto disco in appena due anni, i Sault riprendono il discorso lasciato nel 2019, del quale Nine è la naturale progressione (dopo Five e Seven). Se la parentesi del 2020 aveva segnato un’inclinazione maggiormente propensa a una certa idea – in ogni caso estremamente personale – di ballabilità con Untitled (Black is) e Untitled (Rise), Nine s’inserisce all’interno di un percorso di altissimo livello capace di mescolare l’R’n’B e il Soul degli anni settanta – con ben in mente una certa Motown – con un’attitudine assolutamente moderna e contemporanea che, non solo si appoggia su sonorità e dinamiche attualissime, ma si àncora a un discorso politico – Black Lives Matter su tutti – che rende il progetto assolutamente unico nel panorama internazionale. Figli delle London Council Estates, di una periferia black e fiera, con Nine i Sault aggiungono l’ennesimo tassello a una discografia che merita una totale attenzione nel suo complesso. Se in qualche modo la loro assenza – i Sault non si esibiscono dal vivo, non producono video, non rilasciano interviste, non comunicano con la stampa, né rivelano la loro identità (dietro cui comunque si celano almeno i nomi di Inflo, Cleo Sol e Kid Sister) – ne ha fatto già una band di culto, con Nine alzano il titolo realizzando un lavoro che dalla sua uscita – a fine giugno – è stato reso disponibile per soli novantanove giorni sottraendosi al consumo distratto e compulsivo delle piattaforme online. (Fabio Mastroserio)

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CURTIS HARDING – If Words Were Flowers

ANTI- Records

If Words Were Flowers, il nuovo album di Curtis Harding, rende omaggio agli anni d’oro della Motown e della Stax. Il soulman sprigiona tutto il bisogno d’amore del mondo a suon di funk, soul, r&b, gospel e psych rock. Un disco imperdibile che impreziosisce ancor più la nuova scena black soul. (Stefano Grimaldi)

 

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BLACK COUNTRY, NEW ROAD – For The First Time

Ninja Tune

La gioventù si diverte, e fa divertire. Il disco di esordio dei Black Country, New Road è pura energia, un viaggio lungo epopee di post-rock dove risorgono echi dei migliori Slint, slowcore che si alterna a un canto sciamanico alla Nick Cave dei primi Bad Seeds, e un mescolamento di jazz e incursioni klezmer con improbabili esplosioni gioiose e gitane. Se dobbiamo reimmaginare il futuro tante vale partire da gruppi come i BCNR, questa nuova generazione di spericolati inglesi, questo carrozzone di musicisti anomali e creativi che tanto fa bene alla musica. (Gio Taverni)

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FINE BEFORE YOU CAME – Forme Complesse

Legno

Se i confini e gli spazi attorno cui hanno girato per una vita sono sempre stati stretti e chirurgici, le Forme Complesse di Marco, Filippo, Mauro, Jacopo & Marco, quelli che sono e saranno sempre i FBYC, restringono ancora di più il respiro, concentrando tutto fra quattro costole e poco più. Lo fanno con suoni in costante tensione, che rappresentano la corsa a una rottura che non avviene quasi più e, quando lo fa, come in Acquaghiaccia, è una fredda consolazione. Quando quello spazio non c’è allora si fonde con il suono della pioggia, con quello del vento o di una stanza vuota. Di un quartiere come Cogoleto, nel trovare le forze per dormire mentre, fuori dalla finestra, la realtà si disgrega. (Francesco Pattacini)

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CASSANDRA JENKINS – An Overview on Phenomenal Nature

Ba Da Bing Records

“Life is what happens to you/While you’re busy making other plans”. Le parole di John Lennon a conclusione della canzone Beautiful boy dedicate al figlio Sean, fotografano esattamente anche la genesi del secondo disco della newyorkese Cassandra Jenkins. La musicista ha imbracciato da pochi giorni la sua chitarra per iniziare le prove con i Purple Mountains in vista del tour, quando David Berman, cantante della band, si suicida, impiccandosi in un appartamento di Brooklyn. Cassandra Jenkins decide di lasciare gli States per rigugiarsi in Norvegia, per lasciarsi alle spalle quella brutta storia e per immeggersi nel silenzio della natura. E’ qui che comincia a battere il cuore di An Overview on Phenomenal Nature, un delicato disco di pacificazione col mondo. Prevale un silenzio che esalta la voce di Cassandra, ma poi pian piano il disco si popola di voci in lontananza, come un lento e naturale ritorno alla vita. Sette tracce che sussurrano un folk cantautorale essenziale, diretto, talmente intimo da poter immediatamente appartenere a chiunque. (Ernesto Razzano)

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ALFA MIST – Bring Backs

ANTI- Records

 

Bring Backs, il quarto album del genio outsider Alfa Mist, introspettivo e contemplativo, che segna il ritorno al beat making tra hip hop, spoken word e smoky jazz. L’ennesimo successo di un artista che fa dischi jazz capaci di salire in cima alle playlist hip hop. (Stefano Grimaldi)

 

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ANNA B SAVAGE – A Common Turn

City Slang

Il nome di Anna B Savage è uno di quelli che negli ultimi 5 anni è riuscito a catalizzare un notevole interesse. La cantautrice e musicista britannica, fin dal suo EP del 2015, ha messo subito in mostra le sue doti vocali e di scrittura. Finalmente è arrivato l’annuncio dell’album di esordio intitolato A Common Turn che è uscito a inzio anno per la rinomata City Slang e vede la produzione di William Doyle (East India Youth). E’ sicuramente fra i debutti più importanti di questa annata per l’atmosfera solenne, la dirompente fragilità delle parole e l’intensa interpretazione che supporta lo stato emotivo di incertezza che l’artista ha voluto raccontare nel corso dei dieci brani che compongono il lavoro. (Nico Orlandino)

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LUMP — Animal

Partisan Records

Laura Marling e Mike Lindsay riescono a impastare le singole esperienza passate senza indulgenza, plasmandole in qualcosa di nuovo, con un lavoro di mani nude e cesello per nulla autoreferenziale, ma pronto a scandagliare gli angoli inesplorati di quello che il cantautorato generico avrebbe la possibilità di diventare, se per caso qualcuno avesse il coraggio di dargli una spinta. O almeno una pacca sulla spalla, indicandogli la direzione da prendere, anche solo fosse per finire a realizzare che di direzioni da prendere ce ne sono ben più di una. E allora che sia benvenuta questa robusta sintesi di tutto ciò che è a grandi linee inteso come musica digitale e analogica, elettrica e acustica. Che sia benedetto questo tentativo riuscito a meraviglia di intrecciare gustoso baroque pop, soffici spunti danzerecci, indie folk studiato e proto-funk in fasce, con l’attitudine artigianale del marinaio più avvezzo ai nodi che alle promesse. Imparare a navigarci dentro ha come unica condizione quella di prendersi il tempo necessario a riconoscere la voglia di tornare a riva non solo sani e salvi, ma soprattutto un pochino più felici. (Simone Fiorucci)

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STILL CORNERS – The Last Exit

Wrecking Light Records

Il percorso degli Still Corners partiva da lontano, cercando di costruire veri e propri panorami musicali che, col tempo, hanno trasformato la luminosità degli esordi in situazioni sempre più intime. The Last Exit, che valga come testamento postumo o meno, riprende le tracce di Slow Air e ne compone il riscatto, tracciando una linea folk matura, pur sempre tinta di influenze dream pop, che apre (o chiude) il loro percorso artistico. (Francesco Pattacini)

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NICK CAVE & WARREN ELLIS – Carnage

Goliath Enterprises Limited

Abbiamo la fortuna di condividere la contemporaneità con alcuni fuoriclasse. Gente che quando senti che sta per tirare fuori un disco, sai già che sarà superiore alla media. Warren Ellis quest’anno è parso addirittura irrefrenabile: un disco con Nick Cave e uno con Marianne Faithfull. Due signori album, ma c’è qualcosa in Carnage che resta sottopelle. Abbacinato, minimale, assassino, sperimentale, agitato e elettrico, Carnage è il disco dove Nick Cave ritrova il lato selvaggio dopo essere stato preso d’assalto dai mostri della morte e lacerato dal dolore dell’assenza. Un tetro splendore che ci dice che la musica è qualcosa di più delle sue gravitanti particelle di suono. Due musicisti catalizzanti. (Gio Taverni)

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LONDON GRAMMAR – CALIFORNIAN SOIL

Metal & Dust Recordings Ltd.

In occasione dell’uscita di Californian Soil, Hannah Reid ha raccontato ai giornalisti le difficoltà riscontrate da una donna all’interno dell’industria musicale. Non basta essere la cantante di una delle band più acclamate degli ultimi anni per apparire come una professionista agli occhi dei colleghi maschi. In quest’ambiente, così come in tanti altri, i casi di misoginia sono ancora all’ordine del giorno. E per la prima volta sulla copertina del terzo album dei London Grammar Hannah Reid è sola, seduta su una piccola isola, circondata da nuvole minacciose. Una metafora di questo tempo che impone a tutti distanze sociali, ma anche rappresentazione visiva di una lotta, portata avanti da Reid e sostenuta dai suoi compagni di squadra Dominic Major e Dan Rothman, contro la discriminazione di genere. Il desiderio di raccontarsi senza filtri, a cuore aperto, ha portato alla realizzazione di un disco contemporaneo in ogni sua sfaccettatura. Californian Soil è una cartolina sbiadita che racconta il passaggio verso una vita più consapevole, dove passato e futuro si incontrano in un presente austero. In questo crocevia qualcosa si muove, ci vuole solo pazienza. (Ilaria Del Boca)

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TORRES – Thirstier

Merge Records

Che Mackenzie Scott fosse una donna poco propensa al compromesso era già stato reso evidente da Silver Tongue, nato come risposta alla separazione con 4AD ed esploso come canto liberatorio. In Thirstier, Torres continua nel suo percorso di esplorazione rock e contaminazioni elettroniche, bilanciando la chitarra e calcando su distorsioni, refrain e un songwriting che non ha paura di fare prigionieri. Ennesimo disco da regina. (Francesco Pattacini)

 

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MOGWAI – As The Love Continues

Temporary Residence Limited

 

As The Love Continues, l’album che festeggia i venticinque anni dei Mogwai, con un tripudio di shoegaze, dream-pop, grunge e post rock a sorreggere l’amore nonostante tutto, sintesi perfetta di un quarto di secolo suonato in continuo stato di grazia. (Stefano Grimaldi)

 

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IDLES – Crawler

PTKF

Tornano anche gli Idles in questo 2021. La band di Bristol ritrova la sua intimità nel quarto disco in studio Crawler, regalandoci un lavoro più maturo, cupo e sinceramente riflessivo. Se Ultra Mono, il loro terzo album, era stato tacciato di essere “poser” nei confronti della working class e di inserirsi ad arte nei discorsi sulle issues politiche antecedenti il 2020 (come Trump e Brexit) questo disco è un rigetto dei problemi e dei sentimenti più viscerali di Talbot e compagni. Abbandonato il rock’n’roll ricco di slogan e di sentimento di unità, questi Idles suonano più autentici e meno agitatori di piazza. Ultra Mono è un album che inneggia all’agitazione e al ribellismo a tutti i costi, Crawler mostra in maniera cruda gli effetti di tutto ciò che hanno sempre criticato, a partire da ciò che si è vissuto come conseguenza sulla propria pelle. Non suonano per fomentare ma per far ragionare e ne esce un lavoro dalle sonorità più complesse (menzione particolare per le chitarre di Meds e per l’opening MMT 420 RR) e decisamente meno sbraitato. Un lavoro in cui suonano meno Sham 69 e più Protomartyr; in cui ritrovano quei giri hardcore che erano stati dismessi in favore del pop piglia tutti. Un disco critico che nasce dalla necessità personale di raccontarsi, in cui traspare la rabbia che scaturisce ripensando ad episodi spiacevoli della propria vita, come un incidente stradale o l’infanzia con un genitore tossicodipendente. Un album sicuramente meno accessibile rispetto al precedente sia a livello musicale che a livello di tematiche, ma che lascia il segno in chi sa apprezzarlo. (Pier Iaquinta)

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PARCELS – Day/Night

Because Music

Attesissimo sophomore che fa seguito al debutto del 2018, Day/Night degli australiani Parcels conferma il talento dei ragazzi di Byron Bay, ma da diversi anni d’istanza a Berlino, ampliandone – anche nelle dimensioni con questo disco doppio (più un disco bonus) – le possibilità espressive. Costruito sulla dualità tra il giorno e la notte come da titolo, Day/Night è un disco che esplora, a distanza di tre anni dall’esordio, sonorità anche più oscure e crepuscolari ma che offre il meglio di sé ancora nella sua parte solare – tra nu disco ed electropop – dove suona leggerissimo e allegro con melodie perfette, arrangiamenti precisissimi e una freschezza sonora che rapisce per immediatezza e resa. Free che sembra essere uscita da un disco dei Bee Gees, Comingback – e il suo video scanzonato – che finisce quasi con l’essere un inno che interrompe l’angoscia pandemica con all’interno melodie contemporanee e un respiro da trip anni settanta versante West Coast e la successiva Theworstthing, cucita dentro a un ammaliante giro di basso in perfetto stile disco (come in Tieduprightnow dall’esordio, prodotta dai Daft Punk) sono un trio di canzoni che marcano un suono che è ormai un convincente marchio di fabbrica. (Fabio Mastroserio)

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ST. VINCENT – Daddy’s Home

Loma Vista Recordings

Con Daddy’s Home, St. Vincent pubblica quello che è forse il suo album più personale. Ispirata dalla collezione di dischi del padre, in cui a dominare è la musica degli anni ’70, Annie realizza un disco dal sound retro, in sintonia con il suo ennesimo alter ego, un’eroina bionda dal trucco sbaffato che sembra uscita da un film di John Cassavetes. Nei brani, St. Vincent affronta con ironia l’uscita dal carcere del padre, la notorietà (Daddy’s Home), ma anche temi più comuni come la possibilità di una famiglia (My Baby Wants a Baby). Candy Darling è invece un omaggio alla star della Factory di Andy Warhol, mentre in The Melting Of The Sun, Annie ricorda alcune artiste che hanno aperto la strada alle future generazioni: Tori Amos, Joni Mitchell, Marilyn Monroe e Joan Didion. Tra sitar e sintetizzatori vintage, la musicista e il produttore Jack Antonoff evocano un’atmosfera intossicante, influenzata dalla musica di Stevie Wonder, Steely Dan, Pink Floyd e Rolling Stones. Un disco sorprendente, che va ad aggiungersi alla mutevole ed imprevedibile discografia di St. Vincent. (Viola Pellegrini)

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THE WEATHER STATION – Ignorance

Fat Possum Records

Se c’è un disco che è stato capace di crescere d’intensità ascolto dopo ascolto nel 2021 forse è Ignorance dei canadesi The Weather Station. Arriva un momento in cui dietro la sua schiva sofisticatezza, si apre uno squarcio in Ignorance, e si scopre un album frastagliato di atmosfere, dove la musica si fa malinconia e la voce poderosa di Tamara Lindeman prende in possesso. Da quel momento sembra quasi naturale lasciarlo andare all’ascolto. (Gio Taverni)

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TYLER, THE CREATOR – Call Me If You Get Lost

Columbia Records

Call Me If You Get Lost, sesto album di Tyler The Creator, è un ritorno al cinismo degli esordi, divertito e spietato, un lungo flusso di coscienza del suo nuovo alter-ego Tyler Baudelaire che, con ironia e narcisismo, spara a zero sulle contraddizioni della società. Rap, nu jazz, r&b e neo soul al servizio di un disco formidabile, nello stile e nel sound. (Stefano Grimaldi)

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DIVIDE AND DISSOLVE – Gas Lit

INVADA Records

Divide and Dissolve è un duo di Melbourne composto da Takaiya Reed (sassofono, chitarra) e Sylvie Nehill. Il loro nuovo album Gas Lit è uscito per Invada Records, etichetta di Geoff Barrow dei Portishead e BEAK>. L’album è un inno alla libertà e al cambiamento,la manifestazione del grido contro l’oppressione sistematica delle minoranze. È un disco fortemente politico e che ha una potenza unica nel veicolare il messaggio di lotta. Tutti questi concetti vengono espressi attraverso sonorità ruvide, dai contorni mistici, con la presenza di impetuose radici doom e noise. Una pietra miliare moderna, una di quelle che ci fa viaggiare nell’altra parte del mondo per farci riflettere su qualcosa che riguarda tutti, nessuno escluso. (Nico Orlandino)

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LOW – HEY WHAT

Sub Pop

I Low hanno ormai all’attivo quasi trent’anni di carriera, eppure non hanno ancora perduto la la gioventù per cercare strade e sondare suoni. Se Double Negative ci aveva sorpreso dirottandoci verso atmosfere industrial e dure, con HEY WHAT forse i Low azzardano meno ma trovano un’unità tra il loro passato e il loro presente, l’equilibrio sonoro che andavano cercando. Rumore e melodie si mischiano a voci e distorsioni, e il risultato è un cocktail distopico e frammentato di contrasti e armonie. C’è rumore, elettronica, palpitazione, c’è il richiamo al gospel e il ritorno alle origini, perché HEY WHAT è anche un doloroso viaggio sulle vie del suono che rievoca la genesi slowcore della band. Sempre sulla cresta dell’onda del suono, i Low sembrano aver scoperto il segreto per ringiovanire a ogni nuovo album. (Gio Taverni)

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