I-Music

Anarchy in the U.K.

A metà degli anni Settanta il punk irrompe al centro della scena rock senza chiedere permesso. Il suo portato di suoni, simboli, abbigliamento e atteggiamenti ribelli, segnerà campi differenti: dalla musica al costume passando per la moda. Un fenomeno che nasce praticamente sottoterra, nella New York dei garage e dei locali semibui, per sbucare violentemente nel cuore di Londra, fino a prendersi il Tamigi come passerella privilegiata per sbeffeggiare la Corona. Colpirà senza troppa riverenza la musica rock e le sue icone, uscite a suon di sterline, eppure logore, dagli anni Sessanta. Nel giro di qualche anno, tuttavia, il punk andrà a esaurirsi dal punto di vista creativo, sebbene non da quello iconografico e in parte culturale. Non è facile solitamente restringere in un recinto un periodo storico, perché i prodromi, i semi che fermentano per poi fiorire in superficie, navigano e si trasformano sotto traccia, con percorsi e ritmi vitali e temporali imprevedibili. Non vogliamo qui ricostruire organicamente la storia del punk, ci limiteremo a raccontare, riferimenti, fatti, luoghi e nomi, relativi alle band che ne sono state porta bandiera, e alle principali scene cittadine che ne fecero da primi incubatori e contenitori; ci soffermeremo su alcuni eventi e snodi che ne hanno segnato la nascita, l’apice e, forse, l’ultimo vagito collettivo.

Ci muoveremo tra Stati Uniti e Inghilterra; tra New York e Londra, ovvero due dei fulcri più importanti per la storia della musica rock occidentale del Novecento, ma senza tralasciare Manchester. Assisteremo, infine, al concerto “Rock Against Racism” del 30 Aprile 1978 al Victoria Park, decisivo, gravido e rivelatore di ulteriori scenari e con un nome sempre attuale.

Ramones

New York e Londra

A New York, nel 1975, si aggirano Ramones, New York Dolls e una sconosciuta e scatenata Patti Smith: un po’ tutti figli dello spirito dei Velvet Underground e fratelli minori degli Stooges di Iggy Pop. A Londra, più o meno nello stesso periodo, si prendono la scena gli irriverenti Sex Pistols e i più politicizzati Clash. Sono tre anni decisivi per l’esplosione del punk, che forse non è andato molto più in là di questo breve e intenso triennio. La veloce fagocitazione dell’industria commerciale ne riduce, probabilmente, la presenza reale come “movimento antagonista di rottura” e, in pochissimi anni, si va dalla deflagrazione all’esaurimento della spinta propulsiva. Probabilmente a sopravvivere più di ogni altra componente sarà una sana attitudine anticonformista, simboleggiata da “un perenne dito medio alzato nei confronti del sistema dominante”.

Pochi anni, dicevamo, ma estremamente decisivi.
Nella prima metà degli anni Settanta, nella Grande Mela, i New York Dolls funzionarono da catalizzatore, da faro notturno, per un arcipelago di barchette alla deriva che fluttuavano senza però trovare un vero approdo. Tuttavia, proprio grazie a loro, ogni cosa comincia a comporsi, ci si inizia a riconoscere e a compattare. Intorno ad alcuni locali di riferimento prese forma una vera e propria scena, che andava concentrando l’emergente ambito punk, identificato nei Ramones e in Patti Smith, senza tralasciare l’importanza dei Television (il loro album Marquee Moon del 1977 è andato ben oltre). In Inghilterra, intanto, e a Londra in particolare, si respirava un clima sociale e politico sempre più pesante: ci si preparava alla stagione delle politiche tatcheriane, tra conservazione e liberismo.

Sex Pistols

Margaret Tatcher, infatti, diventa leader del partito conservatore nel 1975 e Primo Ministro nel 1979. La destra estema del National Front avvelena l’aria con la guerra agli immigrati. Il rock superstite dei Sessanta non aveva più la sua carica di ribellione. Anzi, alcune sue icone giocarono additrittura un ruolo regressivo, così tanto da stimolare la reazione dell’area più politicizzata del punk. Il nichilismo dei Sex Pistols, band di riferimento della prima ora della scena londinese, lasciava, col tempo, spazio a una frangia più cosciente e consapevole che aveva come riferimento i Clash. Erano sempre più i giovani che alzavano le creste colorate, si appuntavano spille da balia nella carne, e mostravano un dito medio al sistema. Prevaleva un rifiuto dell’esistenza, una critica alla realtà, che spesso però era deficitaria di aspetti costruttivi. La filosofia del “fai da te” era uno dei pochi elementi condivisi: nella musica, ad esempio, avrebbe spinto molte band a prendere il via senza perdersi in improbabili ricerche di grosse etichette a cui proporsi, avviando, per sempre, la propensione all’autoproduzione. In quella manciata di anni però ci fu un momento, in cui un valore importante come l’antirazzismo riuscì ad andare oltre ogni individualismo, ad aggregare tanti ribelli, in un momento di forte consapevolezza, delineando un percorso collettivo che sarebbe poi sfociato in un grandioso raduno musicale. Rock Against Racism fu un concerto e un progetto che ebbe il sostegno, con più o meno entusiasmo, di tutti i gruppi della variegata comunità punk. Per capire la genesi, principalmente musicale, di questa nuova ondata è necessario fare qualche passo indietro, prima di affollare il Victoria Park all’insegna del “no al razzismo”.

I Concerti del ‘76

In una manciata di settimane, nell’estate del 1976, tra Londra e Manchester si gioca la partita decisiva per la nascita del punk in Inghilterra, e non solo lì in realtà, perché quello che succederà andrà ben oltre i confini del regno, interessando qualcuno in più dei soli sudditi della Regina Elisabetta. La radice del Sogno Americano, del diritto alla felicità, si palesa nella dichiarazione d’indipendenza delle 13 colonie britanniche che si separano dalla madrepatria per intraprendere un percorso autonomo. La firma è apposta il 4 luglio del 1776. A partire da quel giorno, quella data per gli americani diventerà la più importante dell’anno, da festeggiare e onorare a tutti i costi.

Ai Ramones, pur essendo americani, di questa ricorrenza, a quanto pare, non doveva fregare nulla; anzi è proprio un 4 luglio il giorno in cui nel regno ci tornano per segnare un pezzetto di storia a modo loro, oltre che per consegnare un momento di felicità ai molti giovani inglesi accalcati sotto un palco. In realtà i Ramones non sono ancora l’icona riconosciuta a livello planetario, ma nel mondo del punk che sta squarciando letteralmente i palchi del rock sixties e del prog, che appaiono improvvisamente obsoleti rispetto a queste nuove vibrazioni, sono senza dubbio un’attrazione, la maggiore. E non importa se quella sera, all’ex edificio industriale di Camden Town, trasformato in sala concerti col nome di Roundhouse (e quella dopo al Dingwalls) sono solo di spalla ai Flamin’ Groovies. Ci sono concerti in cui ciò che avviene sotto al palco è più importante di ciò che accade sopra. Questo non perché sia scarso il livello delle band in alto, ma perché proprio grazie a loro diventa storico quello che sta avvenendo sul pavimento. Sì perché sotto quel palco c’era un’intera generazione di musicisti che i Ramones li aveva immediatamente eletti a modello. A pogare su quelle mattonelle, come ragazzini qualsiasi, c’erano i futuri portabandiera della rivoluzione punk britannica: Sex Pistols, Clash, i Generation X di Billy Idol, i Damned e i Pretenders.

I Ramones stavano tracciando la strada con colpi secchi, e brani di pochi minuti che arrivavano dritti al cuore e alla testa di quella generazione presa a calci dalla realtà. Da quel palco arrivava un mesaggio chiaro: prendete uno strumento e urlate al mondo intero che ci siete, fatelo come volete, con irriverenza, violenza, nichilismo, rabbia, ma fatelo. E un’altra cosa, fregatevene anche della tecnica. In ambito musicale quindi due messaggi erano chiari: un attacco al prog-rock con la sua deriva tecnicista e un altro alle rockstar miliardarie che non avevano più alcun legame con quella generazione. Era tempo di ridurre di nuovo lo spazio tra palco e pubblico. Per questo e non solo i Ramones divennero in poco tempo il gruppo più popolare in Gran Bretagna e la ristampa del loro album, qualche mese dopo, il disco di importazione più venduto.

“I dischi degli Yes stavano diventando sempre più lunghi delle intere discografie di molti gruppi”- Pete Shelley (Buzzcocks)

Questo concerto ha un prima e un dopo, a stretto giro l’uno dall’altro, ma per comprenderlo meglio dobbiamo spostarci a Manchester. Se Londra è stata la sede indiscussa del punk britannico, subito dopo viene la grossa città industriale del nord che tanto ha dato negli anni alla musica rock.

È il 4 Giugno alla Free Trade Hall di Manchester, l’ingresso costa 50 pence. L’incasso non passerà alla storia, ma sarà l’unica cosa a non farlo. Headliner della serata i Sex Pistols di Johnny Rotten, semisconisciuti al mondo, con Glen Matlock al basso, (Syd Vicious arriverà l’anno successivo) ma attesi come l’acqua nel deserto da una manciata di giovani della cittadina inglese. I paganti saranno tra i 50 e i 100, o forse ancora meno 42, come sostiene Winterbottom nel suo film (24 Hour Party People). Quella serata fu come il colpo di pistola sparato per dare il via a una corsa campestre. A fine serata quando gli amplificatori furono spenti, tutti quelli che lasciarono la sala corsero a mettere su band o etichette discografiche che avrebbero lasciato il segno nel tempo. Howard Devoto e Pete Shelley dei Buzzcocks organizzarono l’evento.

In quella “folla” c’erano Peter Hook e Bernard Sumner dei Joy Division (poi New Order), Morrissey degli Smiths, Mark Perry dei Fall, Steve Diggle, anche lui nei Buzzcocks e Tony Wilson fondatore della Factory Records, oltre tanti altri protagonisti a vario titolo della futura scena di Manchester.

“L’unico cosa che ricordo è che quei ragazzi erano convinti di essere al cospetto dell’inizio di qualcosa. E che credevano di avere finalmente qualcosa di autentico a portata di mano”. Malcolm McLaren (manager Sex Pistols)

La band di Rotten incarnava il risultato di uno spaccato sociale piombato addosso a una generazione che provava dimenarsi con ogni mezzo per non esserne schiacciata. Una generazione avvolta e soffocata dalla depressione, con un tasso di disoccupazione alle stelle, un’inflazione in salita e una lontananza siderale dalla classe politica, privata anche di quella speranza di cambiamento che aveva permeato i Sessanta, (anche attraverso la musica) che era di colpo svanita, inghiottita dalla nuova crisi economica. I Sex Pistols furono i primi a dare una qualche forma a questo disagio galoppante, e per questo vennero riconosciuti all’istante come gli alfieri del punk, della ribellione, la vera novità in U.K., e anche quella sera a Manchester tutto ciò fu immediatamente chiaro.

In scaletta per i Pistols c’erano 13 brani, tra cui No Feelings, Seventeen, Pretty Vacant fino al bis con Problems. Le reazioni di alcuni dei testimoni oculari rendono il senso e l’atmosfera di quella vera e propria scoperta.

“Per il punk, quel giorno equivale alla scissione dell’atomo. I Pistols erano irresistibili e non gliene fregava niente di niente, è da lì che è esploso tutto, quello show ha cambiato Manchester e ha cambiato il mondo”. Steve Diggle (Buzzcocks)
“Era la cosa più scioccante che avessi visto in vita mia, era tutto così…alieno a qualsiasi altra cosa. Ti veniva solamente da pensare ‘possiamo farlo anche noi'”.
Peter Hook (Joy Division – New Order)

David Nolan sintetizza con queste parole, nel suo libro, una verità incontrovertibile, affidando a quella serata (e a un’altra a stretto giro), un valore storico enorme :”non ci sarebbero stati i Buzzcocks, i Magazine, i Joy Division, i New Order, la Factory Records, tutto il sistema delle etichette indipendenti britanniche, niente Fall, niente Hacienda, Madchester, Happy Mondays ed Oasis. E questo significa anche niente Green Day, niente Killers, niente Arctic Monkeys, Editors e Interpol, niente Pavement, niente Codplay, niente Prodigy, niente Kasabian…niente di niente“.

Ricordate quei biglietti da 50 pence che non sarebbero dovuti passare alla storia? Beh in qualche modo ci passarono comunque, invece che 1976 la data riportata per errore fu 1076, e per errore indicavano sul palco anche i Buzzcocks che invece non ci salirono. Resta da chiarire ancora un mistero, anzi due. Peter Hook, che fino a quella sera non aveva mai imbracciato uno strumento, non è del tutto certo che a quella serata fosse presente anche Ian Curtis, quello che è certo però, è che dopo quella serata i Joy Division diventarono una prospettiva più concreta. L’altro riguarda la presenza del rosso Mick Hucknall: d’altra parte non era così semplice ricordarsi di qualcuno che ancora non aveva messo su i Simply Red. Morissey elaborò quell’esperienza a modo suo trasformandola in una sarcastica lettera inviata al settimanale New Musical Express: “Mi piacerebbe che i Sex Pistols avessero successo. Forse così riuscirebbero a permettersi dei vestiti che non diano l’impressione che qualcuno ci abbia dormito dentro “.

Ma, come accennato, Manchester e il Free Trade Hall, vivranno un’altra serata memorabile, qualche mese dopo, il 20 di Luglio. Nel mezzo c’è stato il concerto dei Ramones a Londra che ha compattato e rinvigorito ancor di più i seguaci del punk. Stavolta sul palco i Buzzcocks ci sono davvero, come spalla, insieme ai Slaughter and the Dogs, ad aprire ancora una volta la strada ai Sex Pistols.

 

Siouxsie and The Banshees

Ma ritorniamo a Londra, dove continuano a succedere cose interessanti, con le sue oltre sessanta formazioni borchiate. Il 100 Club è uno dei locali di riferimento della montante onda anarchica, ed è dunque la sede ideale per il “Punk Festival” che si svolge il 20 e 21 Settembre, a suggellare un’estate magica per quella nuova musica. Più che un cartellone si tratta di un vero e proprio manifesto del genere, in cui si trovano i nomi di Sex Pistols, Clash, Damned, Subway Sect, oltre gli esordienti Siouxsie & The Banshees (con Syd Vicious alla batteria) e i camaleontici Vibrators che in qualche modo aprirono la querelle sull’opportunismo di tante band che cercarono di salire sull’ormai sfrenato carro del punk, avviando la discussione tra quelle vere e quelle finte in relazione a quel genere. Le sole band non londinesi erano i Buzzcocks da Manchester e i francesi Stinky Toys. Questa vera e propria esplosione in ambito musicale ebbe delle conseguenze anche dal punto di vista sociale: alzando il piano del conflitto, facendo serpeggiare uno spirito anarcoide tra i più giovani e non perdonando nulla, neanche ad icone ormai già consacrate come David Bowie ed Eric Clapton.

Rock Against Racism

Ma cosa successe di tanto eclatante da scuotere e mettere insieme un ambiente che tendenzialmente rifiutava le forme organizzate? Del clima politico e sociale abbiamo già accennato, ma nel mondo musicale? Successe che icone assolute, come Clapton e Bowie, si espressero in modo profondamente razzista e reazionario, e questo non passò certo inosservato. Non erano due qualsiasi a Londra. Già nel 1966, alla stazione di Islington, un graffito omaggiava il chitarrista inglese con un chiaro messaggio: “Clapton is God”, slogan ripreso e comparso di lì a poco su altri muri di altre stazioni della città, a dimostrare la diffusa popolarità del cosiddetto “Slowhand”. Non meno popolare era il Duca Bianco, nato e cresciuto nella capitale: una delle rockstar capaci di affrontare meglio i cambiamenti musicali dei Settanta, senza troppe nostalgie, cosa che ne faceva uno dei meno compromessi da quel punto di vista. Eppure i fatti furono gravi ed ebbero conseguenze importanti.

Il primo, sicuramente ubriaco, durante il suo “comizio”, l’altro, sempre sul filo dell’ambiguità e della provocazione. Bowie, proprio nella seconda metà degli anni Settanta, vive quel periodo che i suoi studiosi hanno definito di “ossessione nazista”. Un periodo che si può sintetizzare in tre episodi di dominio pubblico occorsi a stretto giro: 1) Alla frontiera sovietica, viene trovato con libri di Goebbels e Speer; 2) Alla rivista Playboy racconta che “Hitler è stato la prima grande rockstar e il nazionalsocialismo una splendida iniezione di morale”; 3) Un saluto nazista a chiusura di un concerto del 1976, che fa esplodere altrettante polemiche, sebbene tratto da una foto forse mal interpretata. Poi c’è la testimonianza della sua fidanzata dell’epoca, Winona Williams, che racconta di un Bowie a Berlino, che “compone alcuni dei suoi capolavori alla scrivania che fu di Goebbels”, ministro della propaganda del Terzo Reich. La donna precisa che secondo lei si tratta di un “Bowie interessato alla storia e all’estetica nazista ma non antisemita o politicamente vicino al nazismo”. Ma tant’è: per il clima sociale e politico, è benzina sul fuoco. Molti liquidano gli episodi riguardanti il Duca Bianco come “uno dei tanti periodi di una rock star fuori dagli schemi”. E Clapton? Il 5 Agosto del 1976, dal palco, fa un endorsement per il candidato della destra razzista Enoch Powell, con parole che non lasciano dubbi, sebbene escano dalla bocca di un artista che sulla musica “contaminata” e sulla cultura dei neri, ha impiantato la sua carriera e la sua formazione. Ecco alcuni passaggi testuali, tratti dall’ottimo libro di Barry Miles London Calling:

“Votate per Enoch Powell! Enoch è il nostro uomo. Credo che Enoch abbia ragione, dovremmo rispedirli tutti indietro. Impediamo all’Inghilterra di diventare una colonia nera! Sbattiamo fuori gli stranieri. Sbattiamo fuori i negri! Sbattiamo fuori i musi neri! Manteniamo l’Inghilterra bianca. Prima mi interessava la droga, adesso il razzismo. È molto più pesante, amici. Fanculo gli arabi che si stanno prendendo Londra. ….”

Va detto, che, neanche una volta passata la sbornia, ha mai pubblicamente ritrattato. Se non molto tardi, nel Gennaio del 2018! Queste parole furono una spinta decisiva all’attivismo per moltissimi antirazzisti che diedero vita da lì a poche settimane a una rivista/fanzine “Temporary Hoarding” e, soprattutto, a un’associazione “Rock Against Racism”, che si fece promotrice dell’organizzazione di un grande concerto rock, provando a connettere tutte le anime di quel nuovo movimento punk, che ormai pullulava in ogni angolo di Londra, e, soprattutto, per rispondere al razzismo crescente che si respirava nei confronti degli stranieri in tutta l’Inghilterra. A dare vita a tutto ciò furono soprattutto Red Sounders e Roger Huddle che, all’indomani delle parole di Clapton, si rivolsero, tramite una lettera, alle principali testate musicali, come Melody Maker, Sounds e New Musical Express. L’associazione lavorava in un clima sociale sempre più difficile, nel tentativo di compattare quel mondo antirazzista, legato anche alla musica punk, ma non ancora del tutto cosciente e pronto a manifestarsi. Il lavoro però paga.

Rock Against Racism

La prima fase del movimento punk, frazionata in tante scene cittadine cresciute intorno a locali e garage, troverà un primo grande punto di incontro proprio in occasione del concerto antirazzista del 1978. Il percorso dell’associazione Rock Against Racism è affiancato anche dalla Anti Nazi League. È così che il 30 Aprile del 1978, un variopinto corteo, partito da Trafalgar Square, porterà decine di migliaia di persone al Victoria Park, nell’Est End, quartiere a forte concentrazione di immigrati. Il pubblico unisce tante anime: la generazione ribelle e un po’ nichilista che cerca nel punk una possibilità di alzare la voce contro il sistema dominante; gli attivisti che si compattano per contrastare la politica razzista del National Front, e gli hippie che ancora inseguono sogni e utopie degli anni Sessanta. Sul palco, sotto lo striscione “Carnival Against Nazis”, sfila il nuovo rock inglese. Sham 69, Buzzcocks, X-Ray Spex, The Ruts, Patrick Fitzgerald, Generation X, Tom Robinson Band, e le due band più attese, i reggaeggianti Steel Pulse con i loro ritmi giamaicani, e i Clash, in definitiva consacrazione con il loro “Combact rock”. Mancano i Sex Pistols, la cui parabola si era interrotta poco tempo prima. Sotto al palco si comincia a “pogare”, uno dei segni, questo, che tra tante contraddizioni e difficoltà il rock può cambiare ancora pelle.

Questo concerto in particolare apre una nuova fase musicale a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta: al centro dei riflettori del mondo rock, il punk, la new wave e le sonorità reggae. In qualche modo l’intenso triennio 76’-’78, segna l’inizio, (a poco più di una decina di anni di distanza dalla prima) della seconda British Invasion, perché quelle note ruvide, urlate, massacrate e inseguite, faranno breccia nelle tante anime orfane di un posto in cui sentirsi a proprio agio. E il punk, nonostante i suoi mille spigoli, è stato e resta il caldo e accogliente rifugio di tanti.