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Bob Dylan: una sola moltitudine

In occasione dell’uscita del nuovo album di Bob Dylan Rough and Rowdy Ways il 19 giugno 2020, andiamo indietro nel tempo per raccontare quattro periodi del cantautore americano e l’affollata moltitudine e solitudine delle sue anime, senza ordine cronologico. Dalla gioventù folk di inizio dei Sessanta al periodo elettrico, fino al dolore e al desiderio dei Settanta e ai Basement Tapes. E in omaggio trovate anche una playlist per ripassare quella grande moltitudine che è la musica di Bob Dylan.

Dylan e il periodo elettrico

di Viola Pellegrini

“Because the soul is progressive, it never quite repeats itself, but in every act attemps the production of a new and fairer whole.” — Ralph Waldo Emerson

La scena: Jude Quinn (Cate Blachett) sale sul palco con la sua band; al posto della chitarra, impugna un fucile che punta sui presenti. L’immagine iperbolica creata dalla visionarietà del regista Todd Haynes in I’m Not There non si allontana dall’effetto che l’esibizione di Bob Dylan provocò sul pubblico del Newport Folk Festival nel 1965. Il cantautore si presentò a Newport accompagnato da alcuni membri della Batterfield Blues Band, imbracciando una chitarra elettrica. Bastarono tre brani per consegnare quella performance alla storia: Maggie’s Farm, Like A Rolling Stone e It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry si susseguirono come proiettili fuoriusciti da una pistola, scatenando reazioni contrastanti tra i presenti. In molti criticarono Dylan per aver introdotto quella che allora veniva identificata come musica commerciale nel santuario del folk; altri contestarono la bassa qualità del suono proveniente dagli amplificatori. Se poi vogliamo credere a certe leggende tramandate nel tempo, c’è chi dice di aver visto Pete Seeger mentre tentava di tagliare i cavi dell’amplificazione con un’ascia. Ad essere certo è che, dopo Newport, Dylan non fu più lo stesso. It’s All Over Now Baby Blue, uscita qualche mese prima del festival, suonava già come una dichiarazione d’intenti: se non andiamo avanti, diventiamo estranei a noi stessi. Dylan stava cambiando, la fase folk era finita: era giunto il momento del rock & roll.

Fu la British Invasion del 1964 a spingere Dylan verso le fiamme primordiali del rock; in poco più di un anno, tra il 1965 e il 1966, l’ex menestrello incise una serie di album – conosciuta come la trilogia elettrica – che resta unica nella storia della musica popolare. A inaugurare il periodo fu Bringing It All Back Home, LP di transizione tra folk e rock, aperto da Subterranean Homesick Blues. Indebitato con la prosa al Be-Bop di Kerouac, Subterranean Homesick Blues prende le sembianze di un fuoco dall’origine sconosciuta che divampa improvvisamente. Alimentato da una frenesia proto-garage, il brano provocò negli ascoltatori dell’epoca sensazioni simili a quelle provate da chi, nel 1907, si trovò di fronte a “Les Demoiselles d’Avignon”: un misto tra stupore e disgusto. D.A. Pennebaker contribuì allo status di culto del pezzo immortalandolo nell’indimenticabile incipit di Don’t Look Back: il regista ritrae Dylan intento a mostrare dei cartelli con su scritte le parole del testo; sullo sfondo compaiono Allen Ginsberg e Bobby Neuwirth. Subterranean Homesick Blues fu soltanto l’inizio della discesa agli inferi del rock: nel luglio del 1965, pochi giorni prima dell’apparizione a Newport, la Columbia pubblicò il singolo Like A Rolling Stone. Niente fu più come prima.

Bruce Springsteen: “Like A Rolling Stone suonava come se qualcuno avesse spalancato le porte della tua mente”. Un brano epico, di oltre 6 minuti, che sfidava la compressione temporale degli spazi radiofonici: “La canzone da 3 minuti non offre niente da ricordare, niente con cui identificarsi” scriverà Dylan nell’autobiografia Chronicles, Volume 1.  E così le convenzioni furono abbattute per mezzo di un flusso fiammeggiante in cui aleggia lo spettro della benzedrina, costruito sullo scheletro del rock & roll e talmente denso nella sua stratificazione verbale da risultare, ancora oggi, aperto a molteplici interpretazioni. Like A Rolling Stone può essere letta come critica a un individuo privo di responsabilità che procede senza direzione, diventando – suggerisce il titolo – una pietra rotolante. “È la prova che l’arte di alto livello può avere origine in un juke-box” commenterà Ginsberg a proposito del brano.

Negli album della fase elettrica il linguaggio generalmente semplice dei testi rock si apre a un insieme di parole, riferimenti ed esperienze che fino ad allora non erano associate con questo genere musicale. David Crosby: “Bob stupì il mondo. Fino a quel momento avevamo Oh Baby e I love you baby. Bob cambiò direzione, dandoci veramente belle parole”. Se i Beatles avevano mostrato la direzione che la musica doveva intraprendere, Dylan l’aveva arricchita di una profonda investigazione poetica, legata in modo particolare al simbolismo di Arthur Rimbaud. L’influenza del poeta francese è riscontrabile nella visionaria Mr. Tambourine Man, composta in seguito a una visita al carnevale di New Orleans e ispirata anche dai personaggi de La Strada. La crescita come paroliere di Dylan diventa ancora più evidente nei brani di Highway 61 Revisited, in cui oltre a Like A Rolling Stone, compaiono il canto contro i falsi intellettualismi di Ballad of a Thin Man e la parata surreale di Desolation Row, dove alla cultura elevata si affianca quella popolare:

“And Ezra Pound and T.S. Eliot fighting in the captain’s tower
While calypso singers laugh at them and fishermen hold flowers”

Dalla figura tradizionale, quasi chapliniana, del periodo folk, Dylan si era trasformato in autore dai riflessi Beat, andando incontro a un significativo cambio d’immagine. Spogliatosi degli abiti semplici dell’America rurale, vestiva ora l’uniforme del musicista rock: stivali a punta, giacche di pelle e wayfarer scuri a celare il suo sguardo enigmatico, ennesima maschera che troverà l’apoteosi con la pubblicazione di Blonde on Blonde. Primo doppio album nella storia della musica, Blonde on Blonde è l’apice del Dylan anni ’60, con una sequenza di brani che resta ineguagliata: basterà citare la satirica Rainy Day Women #12 & 35 e il suo provocatorio Everybody must get stoned, l’ennesima allusione a Joan Baez di Visions of Johanna, le raffinate ballate d’amore I Want You e Just Like A Woman, e la maestosa conclusione con l’immensa Sad-Eyed Lady of the Lowlands per ricordare l’importanza del disco nella storia del rock.

Quando Blonde on Blonde arrivò sul mercato musicale, Dylan si trovava in tour nel Regno Unito, sovrastato dalle polemiche per l’imperdonabile tradimento delle radici folk. A Manchester, quando qualcuno tra i presenti gli gridò “Giuda” rispose: “Non ti credo, sei un bugiardo”, sostenendo quelle parole con una versione infuriata di Like A Rolling Stone. Il periodo rock stava però volgendo al termine: nel luglio del 1966, Dylan fu coinvolto in un incidente motociclistico che in molti videro come trovata per allontanarsi dall’attenzione pubblica. Nessuno poteva immaginare che, al suo ritorno sulle scene, Dylan avrebbe fatto un passo indietro, attingendo nuovamente dalla tradizione musicale americana: questa volta, quella del country.


Dal dolore al desiderio: gli anni Settanta

di Fabio Mastroserio

«Un sacco di persone mi dicono che amano quell’album. È difficile per me capirne il perché. Voglio dire, alle persone piace quel tipo di dolore?»

Blood on the Tracks viene dato alle stampe il 20 gennaio del 1975. In quell’inverno Bob Dylan si è già lasciato alle spalle – da quasi dieci anni – quel sottile suono mercuriale che, nell’abiura della parabola folk, aveva segnato un punto di non ritorno non solo nella sua libera traiettoria personale ma in quella della musica tutta. John Wesley Harding e Nashville Skyline erano stati certamente degli ottimi album anche se lontani dalla gloria della trilogia elettrica. Con i dischi successivi – ben cinque tra il ’70 e il ’73 – Dylan mostra i primi, reali segni di debolezza. Si tratta di dischi che solo il tempo avrebbe permesso di rivalutare – anche grazie alla meritoria opera delle Bootleg Series, capaci di rispolverare autentiche perle lasciate fuori dalle tracklist finali per quegli strani percorsi della sua mente dylaniata. Quasi che Dylan volesse de-costruire il suo stesso mito, nascondendo, nel frattempo, il vero tesoro post (fantomatico) incidente motociclistico: le registrazioni di The Basement Tapes di qualche anno prima ma ancora di là dall’essere pubblicate (lo saranno proprio nel giugno del 1975 e, integralmente, solo nel 2014).
Quando uscì, forse nessuno avrebbe immaginato che Blood on the Tracks sarebbe diventato uno degli album più importanti nella carriera di Dylan, un lavoro così complesso eppure talmente bello e semplice da essere inserito tra i dischi più rispettati da un certo Lou Reed. La storia dietro Blood on the Tracks resta, tuttora, avvolta nel mistero – nonostante la Bootleg Serie del 2018 che, almeno musicalmente, ha provato a fare luce sulla sua travagliata dinamica editoriale.

Senza troppi giri di parole Blood on the Tracks è la trasfigurazione in liriche e musiche di un momento cruciale nella vita dell’uomo Robert Zimmermann: la separazione dalla moglie Sara, la Sad Eyed Lady of the Lowlands di Blonde on Blonde. Registrato dapprima a New York – in due giorni, nel settembre del ‘74, Blood on the Tracks fu, per metà, inciso nuovamente a Minneapolis subito dopo le feste di Natale alla fine dello stesso anno, per la paura di Dylan che il disco suonasse troppo omogeneo e monotono, fino a raggiungere la sua versione finale. Ancora oggi è difficile scegliere tra il disco ufficiale e quelle che sono passate alla storia come le New York Tapes, dove il racconto del dolore, della mancanza, dell’assunzione di colpa, la tenerezza e il risentimento più sfrenato – pur privi della ricchezza sonora della versione definitiva – portavano i segni di uno smarrimento a tratti più autentico e malinconico, di un Dylan, forse per la prima volta, senza maschere. Non in senso letterario, naturalmente: Blood on the Tracks raccoglie, anzi, i testi di Dylan che più si avvicinano alla grandezza di veri racconti, nei quali gioca a nascondere il filo rosso di una storia così bene da consentirgli di negare – in Chronicles – ogni rapporto col privato, adducendo improbabili – e per questo così dylaniane – ispirazioni čecoviane: l’assenza di maschere sopracitata è legata, in quegli acetati, al senso di una messa in scena – mai come in quelle registrazioni – così ridotta al minimo, così profondamente intima e sincera da lasciarci rispettosi sull’uscio di un dolore altrui.

La versione definitiva di Blood on the Tracks avrebbe segnato un nuovo passo, dando a Dylan una svolta imprevista e ricchissima di inedite tonalità e approcci. Un pezzo durissimo come Idiot Wind – summa inarrivabile di tutte le sfumature che il sentimento porta con sé – sarebbe stato il primo tassello che, lasciando a lato il dolore, lo avrebbe portato a esplorare una nuova strada. La stessa che, nel giro di poche settimane, lo avrebbe condotto alla scrittura di Desire e, da questo, all’esperienza incredibile della Rolling Thunder Revue – raccontata in maniera convincente da Martin Scorsese nell’omonimo documentario per Netflix.

Desire – rinascita ancora dentro il lutto della separazione – sarebbe diventato un trionfo musicale grazie alla rinnovata ricchezza timbrica, alla collaborazione (caso unico della sua carriera) ai testi con Jacques Levy, all’incontro fondamentale con il violino di Scarlet Rivera. Hurricane, ancora oggi uno dei suoi pezzi più amati, in difesa del pugile Rubin Carter, ma anche e soprattutto quel gioiello – impreziosito dalla voce di Emmylou Harris – che è One More Cup of Coffee, o ancora l’ultimo tentativo di riconciliazione – che sa già di addio – con la moglie in Sara, fino al folk in salsa quasi mariachi di Romance in Durango, che tanto avrebbe avuto peso sul De André di Rimini e L’Indiano. Pubblicato nel gennaio del 1976 – Desire è una sorta di disco costruito in itinere, collocato al centro delle due tournée che Dylan portò in scena negli Stati Uniti tra l’autunno del ’75 e la primavera del ’76, passate, appunto, alla storia con il nome suggestivo di Rolling Thunder Revue.

Prima ancora dell’arrivo dalle Live Recordings integrali, pubblicate nel 2019, sarebbe bastato mettere sul piatto il primo disco della Bootleg Series vol. 5 con l’incipit di una travolgente – e stravolta – Tonight I’ll Be Staying Here with You da Nashville Skyline, qui innervata su un suono muscolare e trascinante reso alla perfezione dalla chitarra di Mick Ronson degli Spiders from Mars – al piano nella A Perfect Day di Lou Reed – per capire che, ancora una volta, “something is happening here but you don’t know what it is”.

Quello che stava accadendo con la fine del matrimonio con la moglie – che sarà presente spesso nei backstage come anche in quella folle trasposizione cinematografica della loro storia e di quella stessa tournée che sarà Renaldo and Clara – era il superamento di quel dolore, attraverso una primavera musicale.

È in questi soli due anni che Dylan, infatti, riesce a fare tabula rasa di quell’immagine – allora come ancora oggi – incredibilmente piatta e stereotipata di “voce di una generazione” o del “menestrello di protesta”. Non che non sia stato anche quello, tutt’altro; ma nel continuo smarcamento della sua personalità, è proprio in quegli anni che Dylan apre nuove porte senza alcune paura e con conseguenze che andranno avanti per tutto il seguito della sua lunghissima carriera, attraverso un rapporto con la musica – fatto di scoperta e condivisione – che lo condurrà fino alla partecipazione al The Last Waltz della Band e al limite dell’ossessione gospel che avrebbe contraddistinto la fase da cristiano rinato.

Ramblin’ Jack Elliott, T-Bone Burnett, Roger McGuinn, Mick Ronson, e l’insostituibile Scarlet Rivera; ancora Joan Baez di nuovo sul palco insieme all’unwashed phenomenon, Joni Mitchell, Allen Ginsberg e Sam Shepard: una serie di personalità dal carisma infinito che si uniranno a quell’avventura capace di rendere contemporanea ai seventies l’idea di una carovana artistica in giro per gli States. L’anticipo di una vita on the road e di quel Neverending Tour, arrivato fino ai giorni nostri, che trasformerà Dylan sempre più in un musicista totalmente immerso nella dimensione live, dentro una musica come rito collettivo.


L’eterna gioventù del folk

di Giovanna Taverni

Facevo tutto in fretta. Pensavo in fretta, mangiavo in fretta, parlavo in fretta e camminavo in fretta. Persino le canzoni le cantavo in fretta. Avevo bisogno di rallentare un po’ i miei pensieri se volevo diventare un compositore con qualcosa da dire. (Chronicles)

Il poema 11 Outlined Epitaphs che compare in versione breve anche nelle note di copertina di The Times They Are a-Changin’, è un canto che possiede il ritmo scarnificato, ossessivo, liberatorio della poesia beat – mentre sullo sfondo si agita la New York di fine anni trenta di Woody Guthrie, Bob Dylan canta come i tempi stessero cambiando per quelle stesse strade, avvertiamo l’urlo del viandante che si domanda: ah where are those forces of yesteryear? Le canzoni di Woody Guhtrie erano state ispiratrici del movimento del giovane Robert Zimmerman verso l’est della grande metropoli, risucchiato a New York alla ricerca di visioni, parole e sommosse da trasformare in canzoni. “La prima canzone di una certa importanza che finii per scrivere, la scrissi per Woody Guthrie”, ha raccontato Dylan a proposito di quella Song to Woody registrata nel disco di esordio del 1962. “Io non stavo protestando contro un bel niente, non più di quanto Woody Guthrie avesse protestato contro un bel niente” – quando Bob Dylan ricorda la felice stagione della musica folk dei primi anni Sessanta ci tiene a mettere in chiaro che l’espressione “canzone di protesta” significasse poco; era la gioventù della musica folk a contare davvero, quel movimento creativo da cui erano emersi dischi epici e di sovversione dell’immaginario come The Freewheelin’ e The Times They Are a-Changin’. Una bella ventata di aria fresca per le orecchie.

Le canzoni folk erano la colonna sonora perfetta per il movimento dell’epoca, davano voce a una parte sommersa d’America, dove le facce dei nuovi eroi erano quelle delle anime vagabonde, esuli e reietti, l’hobo girovago delle praterie sconfinate e dei sobborghi urbani, quell’hobo che avevano già cantato Jack London e Pete Seeger per ricordare una parte degli States esclusa dal racconto. Anche se Bob Dylan si caricò sulle spalle insieme alla sua chitarra l’urgenza di sollevare la protesta, soffiando sul vento del cambiamento dello spirito americano, alla parola protesta avrebbe preferito quella più libera di dissenso: quello che Bob Dylan voleva davvero all’inizio dei Sessanta era scrivere belle canzoni, che non cedessero ai gusti dell’epoca o ai compromessi delle radio commerciali – per arrivare a questo aveva bisogno di rievocare le origini della musica folk e trovare un suo mondo espressivo. Un mondo che riuscisse a scrollarsi di dosso il grigio consenso sociale e del potere, e che doveva scavalcare persino i racconti epici della letteratura beat dei Cinquanta: “già dai primi mesi a New York avevo perso ogni interesse per quel modo di vedere le cose da hipster a caccia di emozioni forti che Kerouac descrive così bene in Sulla strada”.

Bob Dylan è sempre stato un figlio incantato e impenetrabile d’America, ha rappresentato un po’ tutte le contraddizioni di quella terra sconfinata – e di quei Sessanta teatro di un improvviso spazio di creatività, dove i suoni di chitarra e voce non arrivavano innocui alle orecchie, alla fine di un’alba di grande migrazione delle parole verso il cantautorato nella ricerca di nuove forme di espressione. Poeti come Allen Ginsberg si rendevano conto di quel nuovo potenziale per le parole: la musica non subiva censure, entrava diretta nelle case degli americani e senza filtri. Bob Dylan stava lì nell’empireo dei grandi cantautori del folk che arrivavano a penetrare la cortina di ferro dei muri delle case: le sue canzoni potevano sconfinare liberamente come era già successo al jazz e ai ritmi rockabilly. Come un giovane illuminato Dylan soffiava tenere le parole di Blowin’ in the Wind nella sua lingua stralunata per raccontare la storia di emarginati allo sbando, ancora prima che gli riuscisse di vedere – preconizzando quasi – le pietre rotolanti e sbandate che avevano perduto la direzione di casa. Mentre nelle strade si animavano le grandi proteste, il movimento dei diritti civili, la marcia su Washington e i discorsi di Martin Luther King, la musica portava il tempo con i suoi concerti e i suoi versi, e la sua opera di sovversione e magia che esplodeva dentro i jukebox. Fin dalla sua prima apparizione era già controverso da subito questo spirito ribelle coi capelli spettinati emerso dal Minnesota, lo stesso che duettava con Joan Baez (“una Cleopatra in un palazzo italiano”) parole d’amore e rabbia dai palchi, per poi abbandonarla da sola alla canzone di protesta, e non risponderle più quando era stato richiamato.

Quello che veramente importava per il giovane Dylan era trovare la voce, sintonizzarla allo spirito del tempo e alla sua idea di America egualitaria, cantare l’eterna eroica gioventù del folk, gettare come dardi infiammati nelle profondità delle anime inni immortali come A Hard Rain’s a-Gonna Fall, o il grido pacifista di Master of War, toccare alle costole le persone carezzandole con ballate d’amore e commiato come Girl from the North Country e Don’t Think Twice, It’s All Right. E sembra di sentirlo ancora cantare e urlare quel giovane Dylan, anche da qui, come in alcuni tra i pezzi più rievocativi del nuovo album: sembra che lo spirito di quel furetto del folk sia ancora lì ad agitarsi dentro Bob Dylan, a cercare il modo di sintonizzare la voce al suo tempo; ancora a sollevare controversie e dissidi come quando poco dopo l’uscita di The Freewhelin’ alla fine del 1963, si mise a dichiarare solidarietà all’omicida di JFK. A sessant’anni di distanza tante cose sono successe nel frattempo, un suo fan è addirittura diventato il primo Presidente nero d’America, ma quella idea di States che il giovane Dylan aveva nella testa è ancora un grande sogno non realizzato che ci piace ascoltare – e le risposte se le porta via il vento.


I fantasmi nello scantinato

di Fernando Giacinti

“[…] chiunque tu sia che t’avvicini al nostro amato fiume, fermati e dimmi di là perché vieni. Qui è il luogo delle ombre, del sonno, della notte che addormenta. Non si può trasportare dei corpi viventi sulla carena Stigia […]”
(Virgilio, Eneide, Libro VI, vv. 483-488, trad. D. Bisagno)

Superata la metà dei ’60, pure Pete Seeger fa uscire un disco elettrico; inizia il revisionismo critico che porta all’etichetta di folk-rock (Byrds e Joni Mitchell, fra gli altri); un vento onirico e minaccioso spira persino sui testi di gente tranquilla come Simon & Garfunkel; i poeti beat e gli hipster diventano idoli di una nuova generazione, quella hippie, che Dylan non vorrà mai rappresentare. Il rock persino si spoglia della sua veste di puro istinto ed energia adolescenziale (o di trovata commerciale, secondo i puristi del folk) e comincia a diventare forma d’arte autonoma, linguaggio formale da sperimentare nelle sue infinite possibilità (Beatles, Who, Velvet Underground). Bob Dylan è ormai un’icona vivente: chiunque, dal 1966 (seguendo un’evoluzione estetica iniziata dalla copertina di Bringing it all Back Home) lo identificherà poi in quel look da spiritello da favola tedesca: pronto a diventare una serigrafia di Andy Warhol, un’immagine di consumo, come un divo del cinema (“the coat he borrowed from James Dean” è sì quello della copertina di The Freewhelin’, ma vestire i panni di James Dean significa altro, significa essere un’icona hipster del maledettismo, e il cappotto a quel punto potrebbe essere pure quello di Verlaine o di qualsiasi eroe autodistruttivo).

Forse sente che il bel mondo pop cantato in Blonde on Blonde lo sta risucchiando, che invece di esserne un distante fustigatore ne sta diventando carta da parati, una parte vistosa e decorativa. Da più parti i testi fluviali e allucinati del suo ultimo doppio disco vengono bollati come poesia, nelle parole di Jack Newfield “se Whitman vivesse oggi suonerebbe pure lui la chitarra elettrica“. Dylan si sente chiamare con nomi che non riconosce, che rifugge, che non sente suoi.

Lui, un ragazzo normale di Hibbing, che da piccolo guardava i binari e sognava dove portassero, in quel meraviglioso quanto semplice stupore poetico dell’infanzia, passa nottate sugli aerei impasticcato a battere a macchina, tenendo a mente, o forse no, quella famosa frase (quanto vera?) pronunciata da Truman Capote, uno che il ritratto del cuore assurdo, selvaggio e tremendo dell’America lo aveva tirato fuori proprio nello stesso anno (e ci rimetterà tutto), a proposito di Kerouac (“quello non è scrivere, è battere a macchina”, o una cosa simile). E poi, le scaramucce con la stampa, il continuo sviare domande mal poste da una critica ansiosa di legittimare, di trovare miti fondativi per quello che sembrava uno smottamento decisivo, per quella controcultura da cui Dylan ha sempre cercato di smarcarsi, spesso arrivando alla provocazione vera e propria.

Si può sfuggire alle etichette, sì, anche in modi eclatanti, iconoclasti, ma è ben più difficile sfuggire a sé stessi, alla propria storia. E se la propria storia coincide con la storia dell’America, vuoi per smisurata ambizione vuoi perché, nelle sue parole, “Bob Dylan has always been here, always was”, allora non si può sfuggire ai suoi miti delle origini e a quella immensa commedia umana che li popola: quella repubblica invisibile abitata da fantasmi di, per dirla con Pavese, “villani, operai, sabbiatori, prostitute, carcerati, operaie, ragazzotti”.

Dylan non voleva diventare un personaggio di questo poema epico, voleva esserne a un tempo cantore e filologo, ma un filologo di quelli un po’ ambigui, un po’ falsari. Un incidente in moto dopo non aver dormito per tre giorni è una storia più adatta a un Keith Richards, e infatti questa è la grande nebulosa della sua vita i cui dettagli si sperdono e nessuna versione è ufficiale. Quello che succede dopo, però, è roba da filologi veri. Il poeta laureato (da altri) si spoglia dal battere a macchina e, come vagheggiato da Lou Reed, si mette nei panni dei “poets they studied the rules of verse“. Esce John Wesley Harding, a un anno e mezzo da Blonde on Blonde. Un’infinità per un profeta dei tempi che stanno cambiando. Ma prima si da vita a una delle più suggestive e durature congiure della storia della musica pop, ovvero i Basement Tapes.

A metà tra rito occulto di evocazione e filologia del canzoniere americano, a metà tra scazzo totale e operazione puramente economica (vendere i pezzi alle etichette musicali), nel 1966 nasce una nuova pietra della cattedrale pop, una rivisitazione di un simbolo vecchio quanto l’arte, ovvero il cantiere, lo studium, il rifugio dove l’artista può allargare l’occhio sul mondo intero, terreno e ultraterreno. Una cantina di una casa come biblioteca di Babele dei miti americani, smozzicati, suggeriti, cantati a volte bene a volte male, mai uguali a loro stessi, Bob Dylan come Pierre Menard che riscrive il Don Chisciotte, noi come Borges che fa la filologia dell’opera di Pierre Menard. La leggenda di Dylan si arricchisce di nuovo mistero, di una nuova luce obliqua che è quella degli scantinati, locus amoenus della musica rock.

Dylan non è più un folletto, un menestrello, figure già presenti nel mito, è colui che il mito lo racconta, mischiando le carte e le voci, persone vere e allegorie. John Wesley Harding è traduzione di una tradizione che cede all’oralità, a ripetizioni, formule, improvvisazioni, vuoti di memoria e sbalzi di umore. In un anno cruciale per la legittimazione del rock come forza artistica monolitica, Dylan si rifrange in una marea di personaggi (S. Agostino, giullari, ladri, Giuda e giocatori d’azzardo, tra gli altri), come a dire inutile che mi mettete in questo museo che sta nascendo, io sono e sarò sempre altro. Un altro che cambierà addirittura voce (dice dopo avere smesso di fumare), forma suprema di mascheramento, nel successivo ritorno a Nashville (patria del country, proprio nell’anno di Woodstock). Una voce al servizio dei fantasmi, che vanno e vengono da quella repubblica invisibile, ma che ogni volta che tornano ripetono la stessa cosa e cioè I’m not there.


La playlist dei 4 periodi con una track finale in omaggio