Interviste

Bruno Arpaia racconta Luis Sepúlveda il ribelle, il sognatore

Ci sono narratori che riescono con una storia ad agganciare le aporie dell’esistenza, le contraddizioni sociali, le speculazioni economiche, le bugie della politica, i vuoti della memoria collettiva, le questioni ambientali. Ci sono narratori che imbastiscono con il linguaggio una battaglia perenne, come lo scultore con l’argilla o il pittore con la tela. Da un lato ci sono la complessità del reale e la seduzione del sogno ad occhi aperti, dall’altro la lingua, la scrittura, la possibilità di usare la propria esperienza per comunicare agli altri ciò che si vede, che si apprende, che si immagina. Luis Sepúlveda lo abbiamo amato perché è stato un capitano senza volerlo: ha usato la scrittura per denunciare, spronare, sollecitare, far innamorare. Per acciuffare la coda della vita che lui ha vissuto da nomade, da uomo politico e ambientalista, da eterno ragazzino affascinato dalla narrazione e dal calore delle relazioni umane. Cileno, oppositore di Pinochet, esule, diviso tra l’Europa e il suo paese d’origine ci ha donato saggi, racconti, romanzi.

Nella primavera del 2020 il Covid-19 lo ha stroncato, gettando nell’angoscia sua moglie, la poetessa Carmen Yáñez, tantissimi amici e innumerevoli lettori. Bruno Arpaia, scrittore, traduttore, consulente editoriale, amico fraterno di Sepúlveda, ha scritto e pubblicato con Guanda Luis Sepúlveda il ribelle, il sognatore, un omaggio che è anche un dettato del cuore, senza la pretesa di una esaustività biografica. Il libro si apre con la festa del settantesimo compleanno di Luis Sepúlveda, organizzata proprio da Guanda a Milano: è il 25 ottobre 2019 ed è anche l’ultima volta che Arpaia vede il narratore cileno. Scherzano, chiacchierano, cantano. Da questo ricordo si dipana il resto del libro, che riavvolge il nastro delle esperienze di Sepúlveda, quelle che lo hanno condotto a essere uno degli scrittori più amati e letti nel mondo. Abbiamo fatto qualche domanda a Bruno Arpaia.

 

Bruno Arpaia e Luis Sepúlveda

Bruno, il suo libro è anzitutto un omaggio a un amico fraterno e poi una raccolta di aneddoti, momenti che ripercorrono l’esperienza autoriale e, non solo, di Luis Sepúlveda. La casa editrice Guanda l’ha appoggiata da subito nel progetto di dedicare un libello allo scrittore cileno? Quanto ci ha messo per scriverlo?

Quando abbiamo avuto la notizia della morte di Luis, sono rimasto annichilito. Non ho scritto articoli, non ho risposto a interviste. In quel momento, mi sembrava quasi osceno farlo. Poi, a poco a poco, anche con l’incoraggiamento della casa editrice, ho pensato che invece avrei dovuto rendere un omaggio a lui, alla sua scrittura, ai nostri trent’anni di amicizia. Ho riletto tutti i suoi libri, ho cercato di fare ordine nella mia disastrata memoria e l’ho scritto in meno di tre mesi, con la sensazione di stare ancora lì a chiacchierare con lui, a scambiarci idee, come avevamo fatto per trent’anni. Il brutto è stato quando ho finito di scrivere, quando, volente o nolente, ho dovuto dirgli addio…

Che cosa c’è alla base di un libro così intimo? Un grande senso di perdita e che altro?

Come ho detto, c’è il desiderio di trattenerlo ancora per un po’, di non lasciarlo andare, intrattenendomi ancora con lui. E poi, soprattutto, quello di far conoscere ai suoi tantissimi lettori anche la persona, e non soltanto lo scrittore. Perché ne valeva la pena. Il libro va in questa direzione, perché se una cosa mi era chiara era che non volevo scrivere una sua biografia né un saggio critico sulle sue opere: volevo che anche i lettori si potessero sentire un po’ suoi amici.

Nel testo condivide molti momenti intimi, di profonda sintonia con lo scrittore cileno: è come se aprisse ai lettori uno cofanetto dei ricordi, che restano nitidi, nonostante il tempo. Perché Bruno Arpaia voleva bene a Luis Sepúlveda?

Perché si vuol bene a un amico con cui si sono condivisi trent’anni di vita, di allegrie, di esperienze, di politica, di letteratura, di intelligenza delle cose? E poi Lucho era una persona estremamente generosa, anche se non te lo faceva mai pesare. Certo, a volte aveva un suo angolo buio, probabilmente derivato dalle brutte esperienze che aveva subito in passato, ma noi amici avevamo imparato a rispettarlo e ad accoglierlo quando vi si rinchiudeva. Ma non capitava spesso, per fortuna. Per il resto, era un amico ideale. E gli volevamo tutti molto bene.

Che cos’era l’amore per Luis Sepúlveda? E l’amicizia, la politica?

La sua storia con Carmen, la moglie sposata e poi risposata a trent’anni di distanza, la dice lunga su ciò che per lui significava l’amore. E attorno all’amicizia, al suo valore quasi sacro, ruotavano tutta la sua vita e molti dei suoi libri. Gli piaceva riunire gli amici, aiutarli, fare da ponte tra le persone che secondo lui potevano piacersi. Come scrivo nel libro, aveva anche una specie di sesto senso per le persone che potevano rivelarsi affini a lui. Quanto alla politica, la interpretava in senso alto, come un modo per rendere il mondo un po’ più giusto. Era capace di cambiare idea, di adattarsi intelligentemente alle circostanze, ma da questo senso estremo di giustizia sociale, di fratellanza tra le persone, di lotta contro i soprusi, non si è mai distaccato.

La copertina del libro e Bruno Arpaia

Se dovesse consigliare a qualcuno un testo di Luis Sepúlveda quale sceglierebbe?

Probabilmente, comincerei proprio dal Vecchio che leggeva romanzi d’amore, dove ci sono in nuce anche molti dei libri successivi. Però il suo libro a cui sono, per vicende personali, più legato è la sua prima incursione nel noir: Un nome da torero.

Secondo lei perché la fama di Sepúlveda in Italia è esplosa con Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare?

Immagino sia stato perché con quel libro che racchiudeva in poche pagine tutti i suoi valori era stato capace di parlare in modo apparentemente semplice a lettori dai cinque ai novantacinque anni. (Si badi: in letteratura la “semplicità” è una meta, un punto di arrivo a cui si giunge dopo molti sforzi, dopo molto impegno. E non tutti ci riescono.) E forse perché di quei valori la gente ha, oggi più che mai, estremo bisogno.

Lei e Luis parlavate mai dei libri degli altri? Che autori amava? Che musica ascoltava?

Certo, ne parlavamo spessissimo. Amava i libri in cui succedevano cose, in cui la Storia e le storie personali si intrecciavano. Diceva che, se alla ventesima pagina di un romanzo, non era ancora successo nulla, lo accantonava senza rimorsi. Ed era un grandissimo lettore di poesia. Non si capisce la sua scrittura se non si tiene conto di questo aspetto, della sua passione per la poesia. Quanto alla musica, ascoltava di tutto, e con orecchio raffinato, ma aveva una passione nostalgica per i boleri e i tanghi. Spesso li cantavamo insieme a squarciagola…

Perché il mondo malmesso per gli effetti del Covid-19 sentirà forte la mancanza di un pensatore come Sepúlveda?

Perché era una persona curiosa, capace di intuire la realtà dietro le apparenze, di modificare il suo pensiero se le circostanze lo rendevano necessario, di studiare e documentarsi prima di emettere sentenze (e già questo, ai nostri tempi, ne faceva una mosca rara). E perché era spesso capace di comprendere in anticipo l’importanza di certi temi. Un solo esempio: la questione ambientale. Lucho aveva capito moltissimi anni prima di tanti altri quanto fosse fondamentale e per anni si era scontrato con la “sinistra produttivista e industrialista”. Anche sul Covid, mentre noi lo prendevamo sottogamba, mentre girava l’hashtag #Milanononsiferma e qualcuno diceva che era poco più di un’influenza, lui seguiva con estrema attenzione e preoccupazione le notizie dalla Cina. E oggi sarebbe stata sicuramente una voce importante per capire cosa ci sta succedendo e cosa probabilmente ci succederà. È stato un beffardo scherzo del destino che proprio lui sia stato una delle prime vittime di questo maledetto virus.