Letteratura

Una letteratura italiana queer è possibile? Canone ambiguo di Luca Starita

|Prospettive inattuali contro la cultura della normatività|

 

“Mi guardo intorno e vedo strambi più strambi di me, che si sforzano con così tanta dedizione, così tanto impegno, ansimando, a definire qualcosa che non è più possibile definire” (42). Sono le parole con cui si apre il nostro viaggio nella revisione della normatività in letteratura, qualsiasi cosa possa significare questa espressione, tratte da Canone ambiguo: Della letteratura queer italiana di Luca Starita, uscito qualche settimana fa per Effequ, nella ambiziosa collana dei Saggi Pop.

Il volumetto si presenta come parte di una nutrita famigliola di saggi che sembrano tradurre sullo scaffale quel fermento che negli ultimi anni trova sfogo principalmente in blog, webzine e podcast, segnalandosi innanzitutto per la sua partecipazione a queste forme di sapere antiegemoniche, accessibili a tutti e dunque per definizione inclusive, cresciute al di fuori delle logiche dei gruppi editoriali maggiori e dell’elitarismo di consolidate cerchie intellettuali che si palleggiano le direttrici della vita culturale nel nostro paese senza realmente proporre un cambiamento reale. Piccolo nel formato ma intenso, a tratti rivoluzionario, nei contenuti, il libro di Starita conferma innanzitutto l’effervescenza di una saggistica che potremmo definire “minore” non per sminuirne le intenzioni ma per il formato, legato a pamphlet agili, di rapida fruizione e piacevole lettura, e il contesto dell’editoria indipendente in cui hanno origine.

Si tratta di libri giovani, come gli autori che li hanno scritti, che fanno discutere e si estroflettono in una galassia di eventi online – presentazioni, dibattiti interviste – dando vita un dibattito che rimbalza tra canali ufficiali e non ufficiali, una delle poche cose positive che ci ha portato questa pandemia, proiettando il libro oltre le ristrette dimensioni della propria copertina. Sono testi figli del lockdown e ne sono diventati la voce, sostituendo al parlarsi addosso dei salotti e dei circoli un linguaggio chiaro, accurato e diretto, che affronta il suo argomento senza giri di parole e senza cercare di semplificarlo, sottolineando la necessità di problematizzare e superare categorizzazioni divenute obsolete nel contesto globale e che nel nostro paese invece resistono ancorandosi alla tradizione di dietro cui si nasconde l’opportunità di introdurre cambiamenti.

L’editoria indipendente, minoritaria nel fatturato ma sostanziale nella presenza, è un settore su cui in queste pagine teniamo l’occhio sempre molto vigile. In particolare, Effequ si è segnalata come presenza guida in quest’ambito già dal 2019, pubblicando Femminili singolari di Vera Gheno che ne ha ispirato anche le scelte tipografiche che incoraggiano all’uso sistematico della vocale neutra schwa (ə). Queer fin dalla scelta del titolo e dell’uso della schwa, Starita appare coerente con la sua intenzione di destabilizzare il lettore, proponendo una forma di scrittura ibrida che all’argomentazione saggistica sovrappone il registro della scrittura creativa e dell’autobiografia, alternando il riferimento puntuale alla bibliografia degli studi sulla queerness all’esibizione di una riflessione sull’esperienza personale, ricorrendo a tratti al personal essay ma avvolgendosi attorno a forme di argomentazione strutturate e più organiche alla teoria, di cui l’autore si dimostra pertinente conoscitore e applicatore.

Luca Starita; Canone ambiguo

Partendo da questi presupposti, Canone ambiguo si esibisce come una sorta di antologia anarchica e destrutturata e si segnala per la ricerca del dialogo con il concetto di queer fin dalla copertina, prestandosi già per questo a descrivere un approccio alla saggistica che è queer nel modo più intimo e letterale. Secondo la più accreditata dizione di queer, Starita per prima cosa cerca la stranezza, la problematizzazione, la decostruzione, l’esibizione del fenomeno nella complessità che scandalizza e interroga piuttosto che l’accoglienza paternalistica che riduce i fenomeni maneggiabili rendendoli più sicuri e familiari. È un discorso che invita alla defamiliarizzazione piuttosto che all’addomesticamento nel regime della tolleranza, quello di Starita, alla comprensione profonda dei fenomeni nella loro molteplicità e quindi a un’inclusione genuina e una accettazione della differenza da opporre all’imposizione di facciata del politicamente corretto.

Infatti, la parola queer ha cominciato a essere associata alle tipologie di sessualità non conformi allo standard eterosessuale più recentemente, prima in chiave negativa e dispregiativa, in seguito rivendicato con orgoglio dagli attivisti che hanno lottato per la legittimazione del proprio diritto ad esercitare la libertà di scelta nella propria sessualità. Ancora oggi, lo statuto di questa parola è percepito come scivoloso per la sua qualità di costituire, foucaultianamente, problema: la queerness è per natura un fattore di destabilizzazione più che di legittimazione, e anche nei contesti in cui l’omosessualità è vissuta in modo più rilassato che dalle nostre parti, continua ad indicare uno stato di irrequietezza piuttosto che di equilibrio.

Questo discorso appare ancora più ambizioso, più sfacciato e più queer se dal sottotitolo si passa al titolo, che mette insieme due espressioni che appaiono antitetiche, quali “canone” e “ambiguo”, peraltro annunciando la possibilità che possa esistere una letteratura italiana queer, dicitura che nei dipartimenti di letteratura delle nostre università risulta ancora non pervenuta. Infatti, a Starita è capitato piuttosto di essere ospite del bel progetto “Let’s Queer It-aly”, promosso dal dipartimento di italiano della University of Birmingham, in UK, che si propone il rilevante compito di accogliere ciò che altri decidono di ignorare. Chi si è occupato di Pasolini da una vita, come chi scrive, non può che osservare questa coincidenza di termini col sorriso di soddisfazione di chi mai avrebbe immaginato di vederla esibita con tanta disinvoltura nella sezione dei saggi letterari.

Soffermarsi sul titolo ci porta ad accorgerci che in realtà, anche senza il sottotitolo, l’accostamento delle parole “canone” e “ambiguo” contiene un potere altamente sovversivo e decostruttivo, minando le basi della stessa istituzione letteraria. Il canone infatti è tradizionalmente l’insieme dei libri che i “sapienti” dell’istituzione letteraria individuano come rappresentativi della nostra cultura, voce più profonda della società di cui siamo parte: è l’indice dei libri “consentiti”, che si tramanda e si riscrive in concomitanza con l’evoluzione del contesto culturale e suggerisce al ministero quali libri è fondamentale leggere a scuola e all’università, ma anche che decide quali libri è fondamentale saper riconoscere in una conversazione tra persone che si considerano “colte”, quelli che bisogna saper citare per farci fare una buona figura in contesti in cui siamo chiamati a dimostrale il nostro “capitale culturale”, per dirla citando Pierre Bourdieu.

Il canone contiene l’insieme di scelte portate avanti di generazione in generazione per suggerirci che è più importante leggere Dante e Shakespeare che Fabio Volo o Topolino, per dirla nel modo più brutale. Chiamare un libro “canone ambiguo” è dunque una affermazione intrinsecamente queer, perché il canone non può essere ambiguo, le scelte che lo determinano sono dichiarate come precise e consapevoli poiché intese a determinare i confini di cosa è letteratura e cosa non è. Eppure, così concepito oggi è lo stesso canone nella sua natura di canone ad apparire ambiguo, le scelte che lo costruiscono arbitrarie, certamente inattuali, limitate da un punto di vista specifico che si spaccia come universale, o se non altro, nazionale.

Tondelli; Altri libertini

Infatti, non è tanto la scelta dei testi da includere a rendere il canone ambiguo, quanto quella dei testi da escludere. Non ci sono motivi letterari che possano giustificare l’esclusione di Pier Vittorio Tondelli dalle antologie scolastiche in cui figurano Italo Calvino o Umberto Eco, autori che hanno scritto alcuni loro classici nel periodo in cui usciva Altri libertini, che è indiscutibilmente il libro più sperimentale e stilisticamente significativo degli anni Ottanta italiani. L’unico motivo che può tenerlo fuori è la sua queerness, in questo caso riferita al contenuto scabroso, alla libera esibizione della sessualità nelle sue pagine, allo specifico riferimento all’omosessualità dell’autore che l’ha scritto. L’esclusione di Tondelli dal canone rende il canone queer quanto la sua inclusione, perché asportare Tondelli implica la rimozione di una pagina importante di storia e di cultura italiana, che privandosi di Tondelli ci restituisce l’idea di un momento poverissimo della letteratura italiana degli anni Ottanta, che è quella che è stata consacrata dalla nostra contemporaneità.

L’idea di suggerire un anticanone con la pretenziosità con cui si allestisce un canone, tuttavia, sarebbe a dir poco paradossale, in tutta sincerità disonesta, se non imbarazzante, e infatti non è l’obiettivo di Starita, che non cade nella trappola. Ecco perché il suo formato a metà tra il saggio, l’autobiografia e la teoria si rivela vincente e dimostra che solo “queerizzare” il saggio si offre come soluzione realistica per parlare di una letteratura italiana queer. Nella prima parte del libro, l’autore segue le sue proprie esperienze per dare avvio al suo invito alla decostruzione della maschilità tradizionale – con il termine che utilizza, virilista – in chiave intersezionale, individuando nel residuo della maschilità patriarcale un nemico da combattere da tutti i possibili fronti.

La decostruzione della maschilità è per Starita propedeutica e parallela a quella del canone italiano, che su questa impronta maschilista è stata sostanzialmente allestita, e ha determinato la scelta ancora preponderante nelle antologie di obliterare il contributo delle scrittrici. Alla riscoperta di autori e autrici che abbiano portato avanti una lettura queer della cultura italiana, Starita individua in Tondelli la sua figura di riferimento dopo aver puntato il dito contro i nomi che si incontrano tradizionalmente nei corsi di laurea come a scuola, per carità, importanti, ma non necessariamente da imporre come esclusivi. Nelle prime pagine del libro, Starita ci descrive il suo percorso che ha cercato i proprio punti di riferimento al di fuori della tradizione letteraria con la ricerca personale. Col suo atteggiamento prudente, rivela l’intento di dimostrare che la letteratura italiana non può ridursi a questa lettura del Novecento, indicando la necessità di riscoprire un’idea di letteratura che si discosta da ciò che definisce il “pensiero unico” custodito e imposto dalle accademie.

Starita porta avanti questo discorso con completezza e precisione ma anche con la chiarezza della più efficace argomentazione divulgativa, prestandosi a mettere insieme una sintesi che si presti a un pubblico vasto senza né spaventare, né annoiare, nella prima parte del suo libro, che percorre tutte le sfumature teoriche della decostruzione del genere e dell’identità sessuale passando da Foucault a Mario Mieli al pensiero femminista di Teresa de Lauretis e Judith Butler, fino a sganciare queerness e omosessualità nel momento in cui quest’ultima tende a seguire un processo di normalizzazione, soffermandosi su studiosi meno presenti nel dibattito internazionali, quali Bazzocchi, Giartosio e Gnerre, che si sono rivelati cruciali perché per primi hanno esplorato le potenzialità di una lettura queer della nostra letteratura e cultura.

Nella seconda e più corposa sezione, “Catabasi”, l’autore prende in visione i testi creativi più in dettaglio. Con la guida di Tondelli, in cui Starita identifica l’essenza della queerness ma anche la sua teorizzazione, l’autore dialoga con passi scelti dai testi ha selezionato per il suo peculiare non-canone, individuando i suoi “padri” in Alberto Moravia e Aldo Palazzeschi, gli “zii” in Carlo Emilio Gadda, Giovanni Comisso e Marino Moretti, e un “cugino” in Alberto Arbasino, affiancati alle scrittrici Sibilla Aleramo, Anna Banti, Alba de Cèspedes, Natalia Ginsburg, Amalia Guglielminetti, Anna Maria Ortese e, su tutte, Elsa Morante. L’argomentazione principale di Starita esplora la possibilità di individuare nell’intero flusso del Novecento esempi che si oppongano al binarismo dei generi e alle sue codificazioni sociali, al contempo segnalando tracce di omoerotismo celate o latenti tra le pagine e nei personaggi.

La sezione si articola in quattro episodi, ognuno suddiviso in due parti, un “dentro”, in cui l’alter-ego dell’autore incontra personaggi e autori riportando passi dai testi selezionati, che introduce spunti poi ripresi in modo più articolato e analitico nel “fuori”. Nel primo episodio, Prima le donne, si parte con la “queerizzazione” delle figure femminili, analizzando alcune donne descritte da autori che si rivelano queer nella capacità di mettere in discussione le norme sociali di genere, offrendo precocissimi esempi di discrepanza tra sesso e genere e di sovrapposizione tra femminilità e maschilità che velano la possibilità di travestitismo e transgenderismo, giungendo all’estremizzazione del corpo carnevalesco e del queer esplicito di Mimi e istrioni di Tondelli, che riesce a “confutare l’esistenza stessa di un binarismo nella confusione caleidoscopica della realtà” (79).

Dalle eccentriche figure che scompaginano le categorie di maschile e femminile e l’”aspettativa sociale” imposta dalla normatività, si passa in “Solo e indefinito” al personaggio omosessuale, dalle prime manifestazioni esplicite alla sua visione più inserita e nell’apparenza “normalizzata”, se mi si permette il termine, com’è descritta dall’ultimo Tondelli di Camere separate, in cui si racconta una storia che interroga l’amore al di là delle distinzioni di sesso e genere, nella sua natura che ci coinvolge universalmente. L’episodio terzo descrive la maschilità sganciandola dagli stereotipi di virilità che oggi definiremmo tossici, sottolineando la necessità di raccogliere sotto l’unica appartenenza al genere degli uomini una multiformità di esistenze che hanno in comune il solo apparato riproduttivo” (154), ponendoci di fronte alla necessità di affrontare il corpo maschile come un corpo che non ha più nulla a che vedere con il “canone dell’egemonia virile” (168).

L’ultimo capitolo, “Un tè”, conclude simmetricamente il percorso tornando ai personaggi femminili che vogliono riappropriarsi della propria identità, ma stavolta descritti attraverso esempi di sole scrittrici. Il percorso dalla problematizzazione della femminilità e maschilità normative alla possibilità di una visione alternativa di entrambe, che accompagna la riflessione sul queer, si conclude con un “Epilogo” di straordinaria coerenza. La domanda di rito – “ma allora siamo tutti queer?” – si rivela per Starita al tempo stesso un’utopia e una generalizzazione: è improbabile che si riesca a disinnescare ogni archetipo normativo, ciò nonostante possiamo ambire a costruire non un canone, ma piuttosto una definizione della letteratura che sia inclusiva. Poiché, come scrive Starita:

Letteratura è vita. E a qualsiasi individuə stravagante, inusuale, strambə, squilibratə, è permesso di lasciare in questo scritto la propria testimonianza e di legittimare e di liberare il proprio inalienabile impulso di vivere. (203)
Tondelli

Per ultima, ho conservato una mia piccola perplessità di pasoliniano, che l’autore durante un incontro online ha gentilmente chiarito, devo dire in modo esauriente ed efficace. Questa perplessità riguarda la sua scelta, coraggiosa e sorprendente, e perciò intrinsecamente queer, di escludere Pasolini, giustificata principalmente dal fatto che la queerness di Pasolini sia più che evidente nella nostra visione della letteratura, rispetto agli autori presentati. A questa argomentazione ne aggiungo una mia: della complessità della sua queerness, Pasolini ha in effetti costruito un canone suo unico e personale, che difficilmente si presterebbe a lasciar spazio ad altri autori. Obliterarlo completamente, tuttavia, senza neppure nominarlo rapidamente, continua a lasciarmi un po’ insoddisfatto. Continuo a ritenere che Pasolini sia l’autore più queer della letteratura italiana (e Walter Siti se ne farà una ragione), oltre al fatto di aver costruito proprio sulla categoria dell’ambiguità la sua intera poetica. Ma questo è il punto di vista di un pasoliniano, e ha ragione Starita, perché la verità complementare e opposta è che il suo libro presenta una sua coerente autosufficienza proprio nell’esclusione di Pasolini.

Alla luce di tutto ciò, Canone ambiguo si rivela un libro più che importante, un libro necessario, additando il canone come istituzione che dovrebbe essere considerata queer per la sua natura esclusiva che spinge a definire queer tutto quello che non vi rientra. Esce per un editore che pubblica libri importanti a partire dalla sua dimensione minuscola e che si candida a costruire un discorso dell’inclusività che accolga tutte le subalternità discriminate nel nostro paese per genere, per sesso, per razza. C’è tanto da lavorare in prospettiva, ma Starita esce in un momento buono, da non lasciarsi sfuggire. La ridefinizione della maschilità in un paese chiuso nella sua dittatura familiare tradizionale ha bisogno del sostegno della teoria, della divulgazione attenta, del “siparietto” (prendo a prestito questa espressione dall’autore), di Achille Lauro che appariva a Sanremo nei giorni in cui è uscito il libro, della serie Netflix per gli adolescenti che un giorno magari lo leggeranno, del pubblico d’élite e di quello mainstream, di tutti quelli che possono dimostrare che l’inclusività è la prospettiva da percorrere e che una comunità esclusiva ormai non ha più senso di essere.