Letteratura

Un Pavese ci vuole

Il 27 agosto del 1950 moriva Cesare Pavese ingerendo bustine di sonnifero, e chiamando a sé la morte, chiudendo così la faccenda e il mestiere di vivere a cui si era trascinato per poco più di quarant’anni. “Ma perché prendersela tanto coi poveri suicidi?”, scriveva il giovane Pavese tra i suoi appunti come presentendo un destino. Sono passati 70 anni da quel giorno, e ancora spizzichiamo volentieri tra le pagine di Cesare, leggiamo i suoi romanzi, ripetiamo le parole che ci ha lasciato, cantiamo i suoi versi parlando con lui a distanza di tempo. Per omaggiare lo scrittore italiano abbiamo raccolto una buona parte delle sue opere qui sotto, un piccolo viaggio per chi ha voglia di recuperare la lettura di Pavese o semplicemente fare un ripasso. Un Pavese ci vuole, non fosse che per il gusto di ricordarlo o lasciarlo andare via.

La luna e i falò

La luna e i falò, il romanzo conclusivo di Pavese, pubblicato ad aprile 1950 e che ha quindi appena celebrato i suoi settant’anni di vita, poco prima dell’anniversario che celebra i settant’anni dal suicidio dell’autore. Un romanzo perfetto e una perfetta chiusura narrata dalla voce di un personaggio unico come Anguilla, capace di contenere l’inizio e la fine dell’esperienza narrativa di Pavese, ma anche le numerose esperienze intermedie. Si parte dal ritorno a casa del “gigante vestito di bianco” che avevamo incontrato nella prima produzione poetica, nei Mari del sud, in cui ritroviamo i momenti di insoddisfazione che concludono in ogni romanzo l’esplorazione del mondo naturale dei suoi personaggi, passando attraverso la contemplazione dolorosa del momento in cui i falò delle feste tra le colline sono sostituiti dai roghi della guerra civile. Rintracciamo i temi esplorati dall’autore: la fuga dal paese e la necessità di tornarvi, la città e l’America, il fascismo, l’amore disperato e l’amicizia vera, quella sottile patina di incomprensibilità che riscontriamo nei nostri tentativi di avvicinarci alle persone che ci sono care. Nelle sue pagine Pavese confeziona il più grande atto d’amore per le Langhe riscontrabile in secoli di letteratura italiana, della sua natura meravigliosa e spietata e dei personaggi tipici del microcosmo minuziosamente allestito in pagine e pagine della sua letteratura. E poi c’è quella malinconia così riconoscibile, che abbiamo imparato a identificare come piemontese in tante belle pagine dedicate all’autore dagli amici Natalia Ginzburg e Italo Calvino.

Francesco Chianese


La spiaggia

La prima volta che ho letto La spiaggia di Cesare Pavese non avevo trent’anni e del grande scrittore italiano avevo fatto il pieno di poesie. La sua prosa era ancora un confine da attraversare e ciò che mi colpì dritto al cuore di questa novella fu la prepotenza del non detto. Tra i personaggi corre una tensione implicita, qualcosa che viaggia parallelamente a quel che Pavese disvela. La narrazione ha una matrice hemingwayana e procede senza spiegazioni, tra le amarezze e le nostalgie che si insinuano nell’animo di chi è ormai definitivamente prossimo all’età adulta. La voce narrante è di un uomo tra i trenta ed i quarant’anni che passa le vacanze presso la villa del suo amico storico, Doro, e sua moglie, Clelia. Lei ha l’anima di una ragazzina: svolazzante, pungente, amante della natura e del mare, capace di sprofondare nel silenzio e nella lettura senza aver bisogno di molto altro. Lui è un musone con la passione della pittura e, nonostante le apparenze, conosce nel profondo Clelia. Le increspature del loro matrimonio si dissolvono nel tempo che lei trascorre con l’amico del marito, il nostro narratore per capirci, ben attento a non essere invadente o ad intromettersi in processi relazionali che non lo riguardano. Che sia incuriosito da Clelia, però, è innegabile. Nonostante la discrezione, la sua presenza interroga il legame tra i due sposi, avvolti dall’atmosfera senza peso dell’estate, del mare, delle cene con gli amici, delle chiacchiere a vuoto. Il personaggio narrante è un amplificatore: la bella stagione ci viene comunicata come uno spartiacque, un tempo di felicità e di immediatezza che sfuma capitolo dopo capitolo in un altro di rinunce, di minore leggerezza. Non è solo un’impressione del narratore: questa constatazione è interna ad ogni personaggio e riveste la storia di una forma di nostalgia, di malinconia esistenziale. Come se i protagonisti di Pavese tendessero le mani per afferrare un barbaglio, senza riuscirci. Ogni pagina allude ad un’esplosione emozionale che non avviene. La vegetazione lussureggiante della costa ligure fa da mitigatrice e chi la intende in questo modo più degli altri è Clelia. Ciò che di impalpabile si agita in lei è un segreto e viene ricacciato via dagli eventi che sul finale catapultano tutta la comitiva di amici in una dimensione nuova e meno spensierata. La spiaggia è la storia di un’amicizia e di qualche amore, ma soprattutto è la metafora di un’illusione: che si possa restare a lungo a fissare le onde senza correre il rischio di esserne travolti.

Marina Bisogno


La casa in collina

Scritto tra il 1947 e il 1948, La casa in collina è il romanzo che inaugura la definitiva maturità stilistica del grande scrittore piemontese. Una lingua precisissima – qui capace di trovare la sintesi perfetta tra italiano e dialetto, tra linguaggio scritto e parlato – incornicia la storia di un’attesa e di una fuga sul limitare della Seconda Guerra Mondiale tra i bombardamenti su Torino e l’incubo che si spalancherà con l’armistizio dell’8 settembre 1943. Corrado, giovane professore, si rifugia sulle colline torinesi tra la casa dov’è ospite di due donne – Elvira e la madre – e la vecchia osteria Le Fontane, dove trascorrerà serate tra ribelli, contadini, futuri partigiani e dove ritroverà Cate, suo vecchio amore lasciato per codardia, e il figlio di lei Dino che sospetterà essere suo. La guerra, l’isolamento, l’incontro con il suo passato acuiranno il sentimento sottile e disperato di solitudine e d’inadeguatezza di uomo verso il proprio privato – fatto di rimpianti e aspettative tradite – e di cittadino nei confronti della Storia della quale progressivamente non riuscirà più a percepirne il senso. Così la parabola di Corrado si trasforma in una questione privata, una discesa agli inferi fatta di dubbi e tormenti, di inazione e rimorsi, specchio di una sconfitta dell’umanità tutta davanti all’orrore.

Fabio Mastroserio


« Devo dire – cominciando questa storia di una lunga illusione – che la colpa di quel che mi accadde non va data alla guerra. Anzi la guerra, ne sono certo, potrebbe ancora salvarmi. »

« Nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici. »


Il diavolo sulle colline

La collina, per Torino e i torinesi, è un luogo liminare, carico di simbolismo e di un certo sapore sacrale. Prima che divenisse zona di ville faraoniche e quartieri chic era infatti il richiamo del selvaggio, il bosco alle porte della città. E subito alle spalle si apriva la campagna vera, quella delle Langhe, delle vigne e delle strade polverose da cui Pavese proveniva. È in questo scenario che i tre studenti protagonisti de Il diavolo sulle colline incontrano il loro personale demone, incarnato nella figura di Poli, un loro quasi coetaneo ma più ricco, più affascinante, più oscuro ma anche più seducente. Nel romanzo – parte del volume La bella estate premio Strega nel 1950 – Pavese rilegge e reinterpreta le sue vicende giovanili avvolgendole di un aura misterica che ne fa l’ideale collegamento tra i Dialoghi con Leucò a La luna e i falò. Le peregrinazioni per le colline, prima quella torinese poi quella del Greppo nelle Langhe, mostrano ai protagonisti, così come al lettore, i diversi modi di vivere possibili all’uomo e i segreti di sangue e vita di cui la natura è portatrice. Il diavolo sulle colline sancisce l’ennesima dimostrazione della straordinaria contemporaneità di Pavese, in grado di scrivere nel secondo dopoguerra un romanzo di formazione carico di dubbi e impossibilitato ad offrire certezze, esattamente come il mondo dalla seconda metà del XX secolo a oggi. E di questa modernità, quasi scusandosi di aver compreso l’ovvio, è consapevole lo stesso Pavese: “Queste notti moderne – disse Pieretto – Sono vecchie come il mondo.”

Stefano Peradotto


Feria d’agosto

La fine dell’estate ha sempre un retrogusto amaro: le giornate si accorciano e le vacanze arrivano inevitabilmente al capolinea. C’è, però, da imparare tanto da agosto, la vera fine dell’anno, il mese dei bilanci, dei buoni propositi e delle ripartenze. Scritta tra il 1941 e il 1944 e pubblicata nel 1946, Feria d’agosto è una raccolta di racconti che esprime il senso della fine, ma anche dell’inizio attraverso tre diversi ambienti: il mare, la città e la vigna. Luoghi dell’anima che simboleggiano rispettivamente l’infanzia, la giovinezza e l’età adulta, epoca in cui i ricordi dei tempi passati ritornano come pensiero ricorrente. La contrapposizione non è solo quella tra passato e presente, ma anche tra generazioni, soprattutto nella prima sezione in cui i protagonisti sono i più giovani. Desiderosi di scoprire, di vivere e di salpare verso nuove avventure, i ragazzi di Pavese sognano di diventare adulti per godere di un’autentica forma di libertà, nonostante il cammino non sia mai lineare né uguale a come era stato idealizzato. Tra tutte le opere dello scrittore di Santo Stefano Belbo, Feria d’agosto è quello che meglio insegna a comprendere la sua poetica, fatta di vissuti dove rintanarsi e allo stesso tempo da cui scappare. Tra queste pagine ci sono già tutti i temi cari a Pavese e che inevitabilmente compongono un mondo denso di luoghi, nomi, pensieri e sentimenti che non hanno mai abbandonato il suo repertorio. Un inventario narrativo per chi crede che l’estate, ma soprattutto il mese di agosto sia il momento ideale per riflettere sul prima e il dopo.

Ilaria Del Boca


Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950

Cesare Pavese lo ha definito giornale o note di diario, quel manoscritto conservato in una cartelletta verde a cui aggiunge un foglio a fare da frontespizio e su cui campeggia, in matita rossa e blu, come titolo Il mestiere di vivere, insieme all’indicazione temporale 1935-1950 e seguito dal suo nome, che decise di chiudere solo pochi giorni prima della notte tra il 26 e il 27 agosto 1950. Pubblicato nel 1952 da Einaudi, Il mestiere di vivere è un diario, un’autobiografia, uno Zibaldone in cui la vita si intreccia alla letteratura, alle opere, all’essere scrittore. Non solo: seppur frammentata, è un’opera composita in cui Pavese riversa le sue riflessioni tra disperazione, infelicità e solitudine. Un mestiere, quello suo di scrittore, raccontato con perizia e sempre accompagnato da un’amarezza difficile da scacciare, tra momenti alti (sempre troppo pochi, nonostante le pubblicazioni e i successi – come il Premio Strega vinto per La bella estate) e bassi (tanti, aggravati anche dai commenti misogini alle donne, soprattutto a quelle protagoniste dei suoi amori infelici). Il pensiero del suicidio, poi tramutato in azione, è sempre presente nelle sue annotazioni e si esprime poi in maniera diretta nelle ultime due righe del diario, nella pagina che porta la data del 18 agosto: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.». Qui finisce la vita di Pavese-scrittore, solo nove giorni più tardi segue la fine di Pavese-uomo. Quel gesto ormai è compiuto, di altre parole non ce ne saranno.

Federica Guglietta


 

« Nessuno si uccide. La morte è destino. Non si può che augurarsela, Ippòloco. »

« Ogni notte, tornando dalla vita, / dinanzi a questo tavolo / prendo una sigaretta / e fumo solitario la mia anima. »


La letteratura americana e altri saggi

«Questi americani hanno inventato un nuovo modo di bere», inizia così il primo saggio dedicato a Sinclair Lewis che apre la raccolta di scritti La letteratura americana e altri saggi (Einaudi, 1950) pubblicati tra il 1930 e il 1950 su riviste come Omnibus e La Cultura. Un incipit coinvolgente e mimetico di quello stile americano che Pavese e altri autori e autrici del periodo contribuiscono a diffondere in un’Italia saldamente ancorata alla tradizione e provata dal ventennio fascista appena trascorso. Gli uomini nuovi della letteratura americana sono infatti ben diversi dai superuomini che popolano i salotti europei moderati dal MinCulPop e fomentati dalla propaganda. Attraverso un’analisi lucida e puntuale, il maxi schermo del Nuovo Mondo viene sfruttato per gettare uno sguardo critico sul proprio paese e sui temi più discussi dell’attualità; la mitologia statunitense, il provincialismo del Midwest che richiama quello delle sue Langhe e la splendida monotonia dei suoi autori, sono solo alcune delle tematiche intorno alle quali vengono sviluppati i saggi qui contenuti. La consapevolezza di Pavese circa l’importanza storica degli autori presi in analisi, non soltanto quelli americani ma anche quelli inglesi e italiani di cui si parla nella seconda parte del libro (molti dei quali presentati al pubblico quasi in diretta), ci mette di fronte alla grandezza di un autore che nella veste di saggista rivela le profondità del suo universo di poeta, narratore e soprattutto lettore.

Veronica Ganassi


Poesie

Cesare Pavese coi suoi versi ha un effetto doppio. A volte nelle sue poesie si sente la comunione con il personaggio, che ogni poesia è un personaggio, e viceversa – in particolare capita con la raccolta Lavorare stanca. È facile penetrare tra pensieri e sentimenti di questi eroi minori leggendo i suoi versi – che si tratti della donna nuda che fa il bagno delle poesie censurate, o dell’uomo dei Piaceri notturni che s’attarda nel letto della compagna. Ma dentro quei versi c’è pure l’uomo Pavese e la sua agitazione, l’uomo che sente il proprio dolore, se lo carica addosso e porta appresso per colli e strade. Non bastasse quel verso premonitore – verrà la morte e avrà i tuoi occhi – dove si lascia sentire pure tutta la musica quando lo butti fuori a memoria, e tutto il bisogno affamato di futuro della sua poesia – scenderemo nel gorgo muti, o ancora cadrà la pioggia – le parole di Pavese sono come una dolce coltellata, sensuali, eleganti, districate, talvolta amare, altre innamorate pazze. Con una capacità di pennellare le immagini dei grandi pittori di parole: sull’asfalto c’è due mozziconi – dove i due mozziconi si fondono in un essere soltanto. Ritmo, cuore e anima: nel mondo di Pavese ci si ammazza dentro, ci si accende per un paio di occhi, e tutto l’universo – la pioggia, la terra, l’asfalto – è complice.

Giovanna Taverni


Il Carcere / Paesi tuoi

Il Carcere e Paesi tuoi sono due romanzi brevi o racconti lunghi abbastanza speculari e che si richiamano nella struttura, legata visibilmente all’esperienza biografica di Pavese. Entrambi si aprono con un protagonista che esce dal carcere e si trova a esplorare un mondo sconosciuto e legato alle leggi misteriose del mondo naturale. Il carcere è il primo esempio di narrativa a essere concepito e scritto dall’autore, durante il confino in un paesino della costiera ionica, Brancaleone Calabro, a cui è condannato dal regime fascista nel 1935. Sorprendentemente, è anche uno dei suoi ultimi lavori a essere pubblicato: nel 1949, insieme a La casa in collina nel volume doppio Prima che il gallo canti. Si tratta di uno dei lavori più intimi, in cui Pavese racconta la sua esperienza di italiano del nord che si confronta con il mondo alieno del sud nel modo più traumatico e inevitabile, consacrato da una delle sue frasi celebri e che è risuonata spesso negli ultimi mesi: “Nessuno si fa casa di una cella”. Paesi tuoi invece è il primo romanzo pubblicato da Pavese e già uno dei capolavori del suo simbolismo, attraverso l’esplorazione dei miti nascosti nella natura delle Langhe e una riflessione sull’impossibilità del protagonista cittadino di comprenderne le leggi specifiche e le dinamiche. La scrittura impastata di terra e di fango dell’autore risuona dell’odore delle frasche inumidite dalla bruma e pennella due dei suoi straordinari personaggi femminili.

Francesco Chianese


« Una sera le nuvole si addensarono, e piovve tutta la notte. Io attendevo a una finestra che non era la nostra, e gli spruzzi e le gocciole mi giungevano in faccia. Sapevo che l’indomani la luce sarebbe stata più viva e più fresca l’ombra, e non ebbi fretta di rientrare dov’ero aspettato. Era l’ultima pioggia dell’estate, e cambiò il colore della città. »


Dialoghi con Leucò

Tiresia: Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiando si accecano?
Edipo: Prego gli dèi che non mi accada

Sul bordo dell’appassionante tragedia del mondo, dura come pietra ed eterea come nuvola, i Dialoghi con Leucò accadono con la stessa grazia e crudeltà dei fatti che vanno a narrare. Dal Caos primigenio alle divinità olimpiche e al loro rapporto conflittuale con gli uomini, sangue terra ed eroi, venti e mari e destini plasmano un unico mondo in cui la Bellezza atroce del mito conferisce l’unica dignità possibile alle esistenze dei mortali. Gli uomini non sanno e per questo non sanno ridere nell’infuriare della tempesta, come Odisseo che piange al cospetto di Circe nel conoscere il proprio destino, e sa ridere solo del passato; o Bellerofonte che vaga mesto e inquieto perché mai più gli toccherà in sorte la gloria di uccidere la Chimera. Nei giorni che finiscono sempre uguali -nel vino- per dimenticare la morte, giudicare ciò che è bene o male è prerogativa degli dèi. Ciò che è sarà: il destino si compie in ogni gesto e in ogni momento e “le parole sono di sangue”. Iacinto viene tramutato in fiore da Apollo e “non aveva sulla fronte che fiducia e stupore”. Potrebbero essere come gli dèi e vivere nell’estasi assoluta di un presente eterno, ma i mortali conoscono solo la speranza e il destino, coniugano il futuro come fosse il passato e vivono di sola azione o rimpianto. Cosa cercava Orfeo nell’Ade se non la sua idea di felicità passata con Euridice? Era il suo amore per altro che non la sua stessa Vita? La forma dialogica, la densità e la lingua quasi esoterica, viva – e l’argomento, che lo stesso Cesare Pavese definì come “un capriccio” e “un quarto di luna” – fanno dei Dialoghi con Leucò un’opera unica, splendida e straziante. Fu da questo libro che Pavese si fece accompagnare nella sua ultima sera del 1950, in un hotel di Torino, e sul quale scrisse le sue ultime parole. Forse perché, come leggiamo nell’ultimo dialogo, l’unico in un mondo senza dèi, come il nostro:

– Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane, né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.
– Dilla dunque la cosa.
– Già lo sai. Quei loro incontri.

Simona Ciniglio