Una striscia infuocata cancella l’orizzonte quando la notte cala lentamente sulla pianura. Sono le otto di sera e le giornate si sono allungate così come sono aumentate le temperature prima che potessimo rendercene conto. L’inverno ha finalmente lasciato spazio alla primavera, al polline e alle graminacee, ma soprattutto a nuovi ascolti. Uno dei dischi che ci accompagnerà in questa stagione e per molto altro tempo ancora è The Far Field, il quinto album dei Future Islands, ritornati dopo quasi tre anni dall’acclamatissimo Singles. Più di dieci anni di carriera alle spalle, ma la grande svolta arriva con l’entrata nella scuderia 4AD e con la partecipazione al Letterman Show nel 2014 a cui è intuibile attribuire la massiccia diffusione del trio di Baltimora verso il grande pubblico.
E se intanto vi state chiedendo quali possano essere le novità contenute in The Far Field vi stupirà scoprire quanto sia confortante non coglierne poi così tante. Pensiamo agli istinti che l’uomo non è in grado di controllare in questo periodo dell’anno, come quello di abbassare un finestrino quando la macchina inizia a surriscaldarsi o a quello di levarsi strati di vestiti un po’ come fanno i rettili quando cambiano la muta. I dettagli del proprio aspetto fisico variano, ma essenzialmente non ci sono trasformazioni rilevanti. Questo medesimo tipo di urgenza muove anche i Future Islands, perfettamente inseriti all’interno dei confini del proprio spazio sonoro, ma allo stesso tempo diversi in superficie.
Prodotto da John Congleton e registrato al Sunset Sound di Los Angeles, il neonato disco ha una cifra stilistica talmente marcata da sembrare quasi il lato B di Singles. La direzione intrapresa è chiara fin dalle tracce d’apertura, Aladdin e Time On Her Side che rievocano le sonorità new wave. I volumi crescono gradualmente seguendo i ritmi sincopati del synthpop a cui ci siamo abituati soprattutto negli ultimi anni e l’attenzione continua a rimanere molto alta fino alle ultime tracce del disco. La dimensione interiore di Samuel Herring emerge non solo dal timbro della sua voce graffiante e potente, ma anche dalla naturale predisposizione che lo identifica come storyteller. Le canzoni nascono come tasselli presi in prestito dalla vita vera, basta ascoltare Beauty of the Road, dove Herring racconta la fine di una relazione dovuta alla distanza durante i tour o Through the Roses, l’autonalisi di un uomo di spettacolo che si interroga su cosa voglia dire salire e scendere senza sosta dal palco e ancora North Star, la reale necessità di trovare un punto di riferimento, una persona da amare nonostante le difficoltà a relazionarsi con l’altro.
Un aspetto molto interessante del disco è la combinazione di batteria e linea di basso impiegata senza variazioni sostanziali in tutte le dodici tracce. Il risultato porta a raccordare tra di loro le canzoni, ottenendo ritmiche che si appiccicano alla testa come nel caso di Ran, Cave o di Ancient Water. Eppure le influenze del disco non sono limitate a un unico genere: se in Shadows il duetto con Debbie Harry dei Blondie ci riporta immediatamente agli anni Ottanta, in Candles pare di cogliere venature rhythm and blues. Che cosa cercare in The Far Field? Forse un album da batticuore o meglio da farfalle nello stomaco, che si possa insinuare con astuzia tra le pieghe emotive dei ricordi. Allontanatevi dai vostri device mobili e fissi e andate alla scoperta del mondo, dei cieli blu, dei profili dei palazzi, dei volti delle persone. E se lo dicono Gerrit Welmers, William Cashion e Samuel Herring possiamo fidarci.