I-Music

Aldo Nove ci racconta il suo Franco Battiato

Un poeta tra i cannibali, profeta dell’allucinazione globale. Aldo Nove è stato una delle voci più vivaci della letteratura degli anni ’90. Scoperto da Nanni Balestrini e Milo De Angelis, esordisce, giovanissimo, con le poesie di Tornando nel tuo sangue nel 1989, ma raggiunge il successo con Woobinda (Castelvecchi).

Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure e Vegetal” è il celebre incipit della raccolta. Racconti brevi, oggi introvabili in formato cartaceo, esposti con la velocità dello zapping in prima persona da personaggi squilibrati, influenzati dal fascino della televisione, dai mass-media, in un’alternanza di toni comici e tragici.

Aldo Nove è annoverato nella schiera dei “cannibali”, il tumultuoso movimento degli anni ’90, che si fonda sulla celebre e discussa raccolta “Gioventù cannibale” (Einaudi). Pulp di ispirazione tarantiniana, violenza e sesso, il movimento dei “cannibali” ha portato un vento di novità alla letteratura italiana, rinnovando linguaggio e forme narrative. Negli stessi anni l’autore di Viggiù pubblica Puerto plata market e Amore mio infinito (Einaudi). A queste pubblicazioni si affianca una vasta produzione poetica, tra cui Addio mio Novecento, Maria e A schemi di costellazioni (Einaudi) che hanno portato Nove a essere uno dei volti più apprezzati della poesia contemporanea.

Quest’anno è tornato al successo con Poemetti della sera (Einaudi), per cui ha ricevuto il Premio “Elio Pagliarani”, e con Franco Battiato (Sperling & Kupfer), un omaggio al grande cantautore siciliano. Più di una biografia, questo libro appare come un vero e proprio atto d’amore, un viaggio nell’universo polifonico del Maestro Battiato.


Da dove nasce l’idea di scrivere un libro su Battiato?

Da una felice combinazione di fattori. È stata la casa editrice “Sperling & Kupfer” a propormi, conoscendo la mia passione per Battiato, un progetto che non fosse l’ennesima biografia. Premesso che alla figura di Battiato sono state dedicate biografie eccellenti e di ottima fattura, quale per esempio quella di Fabio Zuffanti. Io ho accolto con entusiasmo la proposta, mettendo tutto me stesso in quest’avventura, che supera i campi della letteratura e della musica. È stata un’esperienza culturale complessa e avvincente.

Leggendo il libro, ho notato un certo parallelismo tra Lei e la figura del Maestro Battiato. La vita in una piccola realtà provinciale, la scoperta di Milano, e, come da Lei scritto, la facoltà dello stupore nelle rispettive produzioni. Battiato è capace di “citare il più infimo programma televisivo insieme alle più alte opere filosofiche… di mescolare pop, rock, cantautore…”. Questa capacità vi accomuna? Ha percepito a un certo punto della stesura un’identificazione con il Maestro?

Da fan di Battiato sono un po’ imbarazzato nell’accostamento. La provenienza da una piccola realtà provinciale, la scoperta di una Milano vivace, fertile culturalmente, che purtroppo non c’è più, infatti Battiato a un certo punto se n’è andato e anche io. Il parallelismo è rinforzato dall’assoluta insofferenza per le etichette da parte di entrambi. È una forma di ostilità che ho ereditato dagli incontri con il Gruppo 63, soprattutto dai contatti con Balestrini, Eco, Sanguineti. Ecco, ad esempio, Umberto Eco era capace di approfondire le dinamiche della metrica medievale così come fare un’analisi dell’uomo ragno o dell’ultimo fenomeno merceologico. La stessa cosa vale per la musica. Ho scoperto Battiato, mentre ero fan di Orietta Berti e Caterina Caselli, fa tutto parte di un percorso interiore che può integrare elementi da esperienze diverse.

Cosa ha aggiunto Battiato alla tradizione del cantautorato italiano?

Il fatto di porsi fuori dal cantautorato italiano pur essendone una delle massime espressioni, insieme a Lucio Dalla, De Andrè e De Gregori. Battiato non scriveva per il successo e questo è un elemento di forza per lui e per il suo modo di fare musica.

Qual è il suo testo preferito del maestro siciliano?

Battiato si è mosso su registri molto diversi, in continuo cambiamento. La risposta potrebbe sembrare banale, ma credo che “La cura” sia un testo eccezionale.

 

Il ruolo di poesia e musica nel mondo contemporaneo è quanto mai ambiguo e conflittuale. C’è chi pensa che la poesia non racconti più il tempo in cui viviamo e che da qualche anno ormai la parola dei grandi cantautori, la loro musica abbia sostituito il ruolo che la poesia ha rivestito per secoli. Mi riferisco ai testi di Battiato, De Gregori, Bersani, Guccini e altri. Pensa che le parole dei cantautori abbiano sostituito il ruolo sociale che la poesia ha rivestito per secoli?

Non credo ci sia conflitto. Le due esperienze, fino a due secoli fa, non erano separate. Penso a Metastasio o a Lorenzo Da Ponte che conosciamo come librettista di Mozart. Non c’è differenza tra queste due forme poetiche, ma certamente il veicolo musicale facilita la diffusione. Il problema principale sono i canali di condivisione, un libro di poesia, anche se pubblicato dalle più importanti case editrici, raramente fa exploit di copie vendute e ha il successo di un brano musicale.

Ha scritto racconti, romanzi, poesie, progetti per il teatro, ora questo libro su Battiato. Ha una forma di scrittura prediletta o ognuna è spontaneamente associata a un determinato momento della sua vita?

La mia forma prediletta è la poesia. Allo stesso tempo, come per Battiato, sul piano della ricezione dei testi sono onnivoro. Mi piace leggere testi scientifici, saggi teologici, raccolte poetiche e romanzi, ma anche analizzare i volantini del supermercato e scoprire i meccanismi insiti a quello strumento pubblicitario. A me piacere leggere, in generale. Preferisco la poesia perché credo che con i testi poetici si tocchi il massimo livello di concentrazione del linguaggio.

La tendenza in Italia è non giudicare ugualmente le forme brevi di scrittura, come il racconto, altrove invece stimato e apprezzato, anche al Nobel. Solo dieci raccolte di racconti dal 1947, anno di istituzione del concorso, a oggi si sono aggiudicate il premio Strega. Il premio Pulitzer ogni anno viene assegnato ugualmente per poesia, narrativa, drammaturgia, musica e non solo, come categorie separate, tutte con la stessa importanza. In Italia oggi manca un premio, non dico della statura del Nobel, ma che dia risalto ed equipari la poesia alla forma romanzo. Questo può essere un limite per la nostra letteratura?

Sicuramente lo è. Non ho mai capito il motivo per cui a un certo punto la forma letteraria per eccellenza è diventata il romanzo, che poi è un racconto pieno di digressioni. È come se ci fosse una strana e demenziale classifica della letteratura che vede in ordine di importanza: romanzo, racconti e infine poesia. Questa scala di valori nasce fin dalla scuola, in parte è un’eredità crociana, ma soprattutto frutto dell’ignoranza. Credo che anche Battiato, proprio per il rifiuto delle etichette, non possa sopportare una gerarchia così discriminatoria.

Louise Gluck ha vinto il premio Nobel per la letteratura quest’anno, una poetessa. Da ventitrè anni (non c’era mai stato un periodo di digiuno dalla vittoria del Nobel così lungo per gli autori italiani), da quel fortunato 1997 di Dario Fo (uomo di teatro), in realtà siamo fuori dai giochi. Non crede che queste forme letterarie, come poesia e teatro, oggi in Italia siano sottovalutate e giudicate con poca attenzione rispetto alla stima che si nutre all’estero?

L’Accademia di Svezia fa da anni un gran lavoro, soprattutto per quanto riguarda il premio Nobel per la Letteratura. Quello per la Pace è stato assegnato troppe volte in maniera poco coerente, penso ai casi dell’assegnazione a Obama e all’Unione Europea, ma per la Letteratura hanno dato segno di grande apertura, considerando tutte le forme letterarie. Per questo motivo credo che il riconoscimento a Dylan sia più che meritato e che sia un segnale forte, come lo è stato per quello assegnato a Fo. Dario Fo e Bob Dylan erano due outsider ed entrambi hanno generato polemiche, perché rappresentanti di una letteratura considerata inferiore. Il problema continuano a essere le etichette, i pregiudizi che appesantiscono il mondo della cultura.

In un’intervista ha dichiarato: “La poesia sta alla prosa come il whisky alla birra”. A me pare una definizione illuminante. Tra la ricerca mistica in poesia e gli eccessi di “Woobinda”, si è mai chiesto quale fosse il punto di contatto tra la sua produzione poetica e quella del racconto?

Balestrini una volta mi disse: “invece di andare a capo scrivi tutto di seguito”, come aveva fatto anche lui. Il punto di contatto tra la mia produzione narrativa e quella poetica c’è ed è indissolubile, a volte può sembrare nascosto. In “Woobinda” e in “Tutta la luce del mondo”, le frasi sono in prevalenza endecasillabi, c’è molto spesso una struttura ritmica e metrica.

Che reazione ha avuto come scrittore al lockdown? Ha reagito e ha cominciato a scrivere o a quel vuoto si è adeguato con una pausa?

Non ho reagito bene, ho sfiorato più volte la depressione. Non ho letto niente, trascorrevo le giornate guardando Masterchef. Avevo contrattualizzato il libro su Battiato prima del lockdown, ma non ho fatto praticamente niente in quel periodo di chiusure.

Nel 2021 uscirà una riedizione di “Fuoco su Babilonia” per Feltrinelli, raccolta che contiene le sue poesie adolescenziali. Quali altri progetti ha per il futuro?

Il suicidio, ma, citando Battiato e Sgalambro, ho colto il “breve invito a rinviare il suicidio”. Quest’anno per le Edizioni dell’Asino uscirà un volume con tutti i miei interventi pubblicati sulla prima pagina de “L’Avvenire” per tre mesi, si chiamerà “Non toglieteci il cielo”. È uno strano oggetto, indefinibile sul piano letterario, una raccolta di riflessioni e aforismi. Parallelamente sto lavorando a un nuovo libro di poesie, ma con la narrativa sono fermo. Ho tante idee in testa, ma nessuna sta prendendo forma.