Cinema

L’influenza di Into The Wild sul nostro immaginario

Raramente guardo film in piena estate. Vuoi il caldo, i divani che ti abbracciano e ti si incollano sulla pelle, il desiderio di beccare quella brezza marina che soffia da sud verso nord, la stessa che rinfresca le pareti rimaste bollenti per tutto il pomeriggio, dove all’ombra battono quasi quaranta gradi. Trascorro la maggior parte del tempo in comode verande di periferia, lontano da quella cappa di umidità soporifera che aleggia sopra il centro del paese e che prende il colore dei lampioni che illuminano le strade. Eppure, qualche anno fa, sono venuto meno a questa mia promessa. Difficilmente mi lascio andare davanti allo schermo mentre dalla mia fronte gronda tutto il sudore di tre estati sahariane messe insieme.

Oltre a narrare gli ultimi due anni di vita di Chris McCandless, Into The Wild ha contaminato gran parte dell’immaginario collettivo da cui tutti attingiamo

Quando vidi per la prima volta Into The Wild (Sean Penn, 2007) era una sera qualunque di luglio. Non ricordo bene il motivo che mi fece rimanere seduto per più di due ore sopra un divano in finta pelle bianca. Certo – come accade ogni volta –, ricordo la mia schiena spiccicarsi letteralmente dalla spalliera, ma del momento in cui mi sono detto «Stasera mi sparo Into the wild» non ho nessuna traccia. L’avevo scaricato qualche giorno prima tramite Bittorrent, con la consapevolezza di guardarlo per dei giorni sicuramente migliori di quello in cui l’ho fatto. Un po’ come capita con quei libri che compri perché sei preso da astruse visioni, ma che alla fine leggerai quando meno te l’aspetti – di solito capita dopo mesi, se non anni. Di Into The Wild conoscevo tutta la storia, ma la sua visione la rimandavo da anni. Mi metteva paura la sua durata, e il fatto che non ce l’avrei mai fatta a rimanere concentrato per così tanto tempo. Quasi un’ansia da prestazione, la mia.

Cresciuto con il mito di Christopher McCandless, sapevo che Sean Penn si era dedicato anima e corpo a questo film dopo aver letto Nelle terre estreme di Jon Krakauer, libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1997 che narra il viaggio di quel ragazzo fuori di testa, intrapreso dopo la sua laurea conseguita nel 1990. Chris era visto proprio in questo modo, come un folle che – nonostante il buon punteggio finale – aveva donato tutti suoi risparmi a un’organizzazione no profit impiegata nel contrastare la povertà, quando invece poteva rimanere con la sua famiglia e cercarsi un buon lavoro che lo inserisse dietro a qualche scrivania di uno dei tanti dipartimenti del governo americano. Davanti a tutto questo, la decisione di smascherare ogni mia curiosità ebbe la meglio contro il caldo asfissiante. Indeciso se portare il mio computer nella stanza più fresca della casa, misi il file video in una penna usb, con la speranza di trovare un clima decente lì dov’era lo schermo da quaranta pollici. Niente da fare, rimasi comunque nella mia camera con un ventilatore da terra messo tra le gambe, con la speranza di ostacolare l’immobilità dell’aria.

La trama di Into The Wild è entrata di diritto in ogni riferimento culturale, merito anche della colonna sonora di Eddie Vedder

Al film arrivai con i soliti mezzi attraverso cui, prima o poi, tutti ci arrivano. Magazine, social network e tutta una serie di letture che affrontavo in quel periodo – prima fra tutte un saggio sulla bioetica che mi sono ritrovato in libreria senza nemmeno conoscere il vero motivo. Inutile negarlo: oltre a narrare gli ultimi due anni di vita di Chris McCandless, Into The Wild ha contaminato gran parte dell’immaginario collettivo da cui tutti attingiamo. Ha dato quell’impronta decisiva nel delineare un’immagine della natura che non riuscivamo a intravedere fino a qualche giorno prima della sua uscita. La reputavo – e la reputo tuttora – quella del film, una visione necessaria per comprendere la portata di una storia lontana dalla mia. Leggere il libro di Krakauer sarebbe servito a poco, diciamocelo chiaramente. Al suo racconto servivano delle immagini ben precise, immagini che al contempo avrebbero restituito la realtà oltre ogni grado di falsificazione.

Lo stesso Sean Penn lavorò a lungo per ottenere il via libera della famiglia McCandless. Fu un vero e proprio corteggiamento quello messo in campo dal regista per la direzione del suo quarto film. Affascinato dalla storia di Chris, Penn è riuscito a realizzare uno dei migliori omaggi che siano mai stati orchestrati. Di pari passo al successo riscontrato, si andava diffondendo una concezione diversa del viaggio on the road a cui eravamo abituati. Un viaggio che diviene una delle modalità attraverso cui poter prendere in esame la propria posizione all’interno della società e sviscerarla in ogni suo meandro. Mi serviva conoscere i fatti in un modo che non fosse quello legato alle parole riversate sulla carta. Di Christopher McCandless si è scritto tanto, ma non abbastanza per considerare la sua vita alla stregua di un motivetto ridondante che puntualmente ci disorienta quando tutto sembra andare per il meglio. Il pregio di Sean Penn sta nel fatto di aver ricostruito l’estetica perfetta di quello che tutti noi non smettevamo di ricercare qua e là.

Nell’universo letterario di Into The Wild ci sono il Walden di Henry David Thoreau e la gran parte della produzione di Jack London

Sono passati dieci anni dall’uscita di Into The Wild. La sua trama è entrata di diritto in ogni riferimento culturale, merito anche di una presenza – all’interno della produzione – di un artista che non ha mai smesso di sorprendere: Eddie Vedder. Tutti i brani contenuti nella colonna sonora del film sono stati scritti e suonati dal frontman dei Pearl Jam. Fino a qualche anno prima dell’uscita del pellicola, conoscevamo un Eddie Vedder simbolo di quel Seattle sound che veniva dritto dai primi anni novanta. I primi del duemila sono anni in cui abbiamo assistito al declino, sempre maggiore, del grunge. A questo fenomeno si aggiunge un uomo sempre più diverso da come tutti erano abituati a conoscerlo. Eddie Vedder prende in mano un ukulele e inizia a strimpellare in giro per gli States melodie nuove, che si avvicinano sempre di più al folk dei dimenticati. Tra lui e Sean Penn c’è un grande amicizia, per questo il regista vorrà a tutti i costi il suo contributo alla sua opera. L’OST di Into The Wild sarà una chicca per tutti gli estimatori di quel mondo fatto di terra polverosa e natura selvaggia.

Eddie Vedder con l’ukulele

Quello che ha concretizzato Sean Penn nel girare questo film, è riuscito a farlo anche Eddie Vedder con i suoi brani. Society, Rise e Hard Sun – per citarne alcuni – hanno riempito i contorni delle emozioni che la storia di Chris riesce a trasmetterti. La sua forza trainante ha portato molti ad avvicinarsi a Into The Wild. Conosco almeno due persone che possono confermarlo. McCandless, prima della colonna sonora realizzata da Eddie Vedder, era poco più che uno sconosciuto. Così, se scegli di intraprendere una tranquilla passeggiata su per i boschi dietro la tua casa in montagna, ti ritroverai a canticchiare alcune delle sue canzoni. Questo perché, quell’immaginario di cui parlavamo prima, ha ricevuto la melodia più consona a quell’idea di fuga dalla quotidianità. Quest’ultima, oltre ad apparire come una corsa lontano dall’ordinario, è diventata anche un aspetto fondamentale di quella che è stata poi la rivoluzione green che abbiamo vissuto sulla nostra pelle qualche anno dopo. Il chilometro zero, il biologico e il vegetarianesimo. Seppure nel film c’è la caccia alla selvaggina per la sopravvivenza, nella maggior parte delle manifestazioni a favore di queste cause campeggiano riferimenti culturali che fanno capo alla storia di Chris McCandless – sopratutto alcune delle citazioni prese dal suo diario di viaggio.

Emile Hirsch veste alla perfezione i panni di un ragazzo che col tempo è diventato la figura più importante di una certa idea del vivere la vita, la natura, arrivando quasi al pari dello stesso Thoreau

Un altro punto cruciale di tutto quello che ha smosso Into The Wild è quello letterario. Nonostante sia stata una della letture sempre citate, il Walden di Henry David Thoreau, e la gran parte della produzione di Jack London, hanno vissuto di un’ondata di interesse che andava oltre il comune lettore che si sofferma su quelle pagine per chissà quale stramba curiosità. Entrambi gli scrittori rientravano nella cerchia che Chris preferiva più di ogni altro autore – insieme a Tolstoj e Pasternak. I due sono gli stessi autori sempre elogiati dall’anticonformismo americano, paladini di una nuova visione delle cose, senza contaminazioni malvagie perpetuate dal capitalismo. È al Walden che si inspirava McCandless. Da lui ha preso quella volontà di fuga pur di guardare il mondo con occhi diversi, un mondo che non è assetato solo ed esclusivamente di denaro, ma che conserva dentro di sé, nelle sue viscere, il valore massimo dell’umanità. Thoreau si era ritirato per due anni in una casa sul lago Walden, Chris invece ambiva all’Alaska. L’isolamento come rivelazione da cui ripartire per una nuova costruzione del mondo.

Il Magic Bus, diventato meta per curiosi e turisti dopo il film

Nel caldo di quel luglio ho scoperto cosa intendevano gli altri – miei coetanei e non – quando si riferivano al film di Sean Penn che raccontava la storia del ragazzo trovato morto nel Magic Bus, quello in cui si era scattato quella foto famosa. Eppure nessuno ha mai fatto il nome dell’attore che interpretava quel ragazzo. Emile Hirsch, attore statunitense classe 1985, prima di girare Milk (Gus Van Sant, 2008) era il protagonista di Into The Wild. È per via di quest’ultimo che nel 2007 ricevette un National Board of Review Awards. Un attore di talento che rimane confinato nei piccoli circuiti, escluso da Hollywood ed elogiato da festival come quello di Sundance. Il suo volto si scaglia contro quello di Chris fino a dare vita ad una sola entità, una creatura che alimenta il mito fino a glorificarlo in ogni sua espressione. Ancora oggi, diversi meme e citazioni varie portano il suo volto. È lui che precede di un anno Robert Pattinson nell’affiancare Kristen Stewart sul set cinematografico, ed è sempre lui che compare nei video dei brani di Eddie Vedder che si possono trovare su YouTube. Entrare perfettamente nel personaggio scritturato in una sceneggiatura è un compito assai arduo, ma quando lo stesso personaggio scritturato è realmente esistito, a quel punto si tratta di arte dell’interpretazione. Questo è quello che ha fatto Emile Hirsch: vestire i panni di un ragazzo che col tempo è diventato la figura più importante di una certa idea del vivere la vita, la natura, arrivando quasi al pari dello stesso Thoreau.

Emile Hirsch e Kristen Stewart in una scena di Into The Wild

È una ricerca continua che ha come obiettivo quello di riprendere in mano la propria esistenza e comprenderla in ogni sua forma. Un atto che va oltre la sfera della consuetudine, che si mette al centro di tutto per arrivare a toccare con mano il proprio limite. Se mi avessero detto che Into The Wild sarebbe riuscito a creare un mondo fatto di natura selvaggia, musica folk e fuga dalla società per ritrovare se stessi, un mondo da cui tutti noi attingiamo informazioni, non ci avrei mai creduto. Forse l’avrei presa sottogamba, definendo lo sforzo di Sean Penn come un semplicissimo prurito al braccio avvertito da un uomo abbastanza ricco da permettersi tutto quello che vuole, tipo un film come questo. Prevedere tutta questa enorme portata, insomma, non ci avrei scommesso nemmeno un soldo bucato. Allora cosa è riuscito a combinare Into The Wild alle nostre vite? Perché, dopo dieci lunghi anni, siamo ancora qui a parlarne? Sean Penn, attraverso il suo film, ha preso una storia e l’ha messa alla portata di tutti, narrando le gesta di un ragazzo prima che diventasse l’idolo di una cerchia di fissati con l’esplorazione della natura estrema. L’ha reso un comune mortale come ognuno di noi, a nostra volta fissati con l’escursione della domenica mattina. Ce l’ha presentato così come l’ha fatto Jon Krakauer nel suo libro.

Into The Wild riesce a creare un mondo fatto di natura selvaggia, musica folk e fuga dalla società per ritrovare se stessi

Parlarne ora, dopo dieci anni, significa che siamo alle prese con un film che ha saputo oltrepassare la barriera dell’avventura, mandandoci in estasi per tutta una combinazione di fattori che, alla fine, abbiamo riconosciuto con i nostri stessi occhi. Siamo rimasti a bocca aperta, abbiamo vestito i panni di Chris e abbiamo fantasticato sopra ad un viaggio tutto nostro, sopra ad un’Alaska tutta nostra. Abbiamo rivalutato le nostre scelte, le nostre cene fuori e le nostre letture. Poi finalmente abbiamo capito che quello che cercavano Christopher McCandless, Sean Penn, Eddie Vedder e Emile Hirsch era la stessa cosa che cerchiamo noi ogni giorno che apriamo gli occhi con le prime luci del mattino che avvolgono il letto su cui dormiamo. Quella sera di qualche anno fa, stracolmo di sudore, rimasi seduto su quel divano in finta pelle bianca perché stavo osservando da vicino la storia che avevo sempre cercato e che – finalmente, dopo molto tempo – si stava svolgendo davanti ai miei occhi. Into The Wild ci ha restituito un immaginario che avevamo quasi dimenticato, un immaginario fedele alla realtà da cui proveniamo.

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