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Kid A dei Radiohead | E niente fu più come prima

Il 2 ottobre 2000 usciva Kid A dei Radiohead: a 20 anni dall’uscita un omaggio che è un track by track per ripercorrere un disco che ha lasciato un marchio su musica e immaginari. Sono passati due decenni, da qui il disco sembra essere emerso da un’altra epoca – eppure siamo ancora vicinissimi a schiacciare play e lasciarlo suonare. Buon compleanno Kid A.

Everything in Its Right Place

a cura di Fabio Mastroserio

Cinque note in progressione, tre accordi tutti in maggiore, la voce di Yorke destrutturata, rimontata, digitalizzata, l’ingresso del basso e della drum machine, l’assenza totale delle chitarre con O’Brien e Greenwood a giocare con ogni possibile diavoleria elettronica: dopo tre anni da Ok Computer e settimane di campagna pubblicitaria – fatta di brevissimi ed ermetici blips su MTV – è così che la band di Oxford decide di introdurre quella che, fin dalle primissime note, apparirà come una svolta epocale non solo per un gruppo che di lì in poi sarebbe entrato nella leggenda, ma per la musica rock tutta che, inconsapevole, non potrà mai più essere la stessa.

Lasciàti con il languore di una classica rock ballad – The Tourist – che chiudeva il disco precedente – i nuovi Radiohead – Anno Domini 2000 – si sono rigenerati alla fonte battesimale dell’alt rock, alla nuova elettronica da club, alle sperimentazioni più libere, a una creatività anarchica e ribelle. Unica soluzione possibile, via di fuga e riparo dal successo e dalla sua altra faccia, quella, come avrebbe detto Pasolini, della persecuzione – Kid A fu definito come il disco rock più atteso da In Utero dei Nirvana – cui i Radiohead provano a sottrarsi dopo una delle crisi più gravi e creative nella storia della musica.

“Kid A, Kid A” mormora Yorke fino al primo verso – “Ogni cosa è al suo posto” – così straniante perché tutto – la musica, l’atmosfera, i continui cambi di tempo (4/4, 6/4, 10/4), i glitch, le distorsioni dei pattern – sembra suggerire altro: il disordine, il caos, il lato oscuro di una musica che, riprendendo e riannodando esperienze antiche a nuovissime, evoca il pulsare malato proveniente da un club sotterraneo completamente buio dove ritmi sincopati accarezzano inciampi della mente e malinconie del futuro.


Kid A

a cura di Salvatore Sannino

Nel 2000 lo streaming non c’era, figuriamoci Spotify. Youtube non era ancora nato e ancora si guardavano i video su MTV, Internet era un fenomeno in espansione e non bisognava per forza essere dei nerd per averne accesso, i primi mp3 si scaricavano da Napster e i dischi in vinile erano ancora quelli impolverati nascosti nelle cantine dai papà, nessun effetto di moda, nessuna riscoperta, era ancora il cd a farla da padrone. I Radiohead avevano pubblicato tre anni prima Ok Computer, erano “i nuovi Pink Floyd” secondo alcuni critici, avevano scritto il loro capolavoro per i fan e avevano realizzato tre videoclip bellissimi per il pubblico dei meno attenti. L’attesa per il nuovo album della band di Oxford era forte, insomma. Presentato con mini clip lanciati online (per chi poteva permettersi di vederli), Kid A venne annunciato praticamente senza singoli, solo piccoli estratti che non si capiva dove andassero a parare e, con la magia della pirateria (anche allora!), fu leakato su Napster tre settimane prima di entrare sugli scaffali dei negozi. Il sottoscritto riuscì ad ascoltare solo Optimistic a qualche giorno dall’uscita, c’erano le chitarre, il suono dei Radiohead era abbastanza presente, c’era pure un ritornello abbastanza catchy, riuscii a dormire sonni tranquilli fino al giorno d’uscita.

Mai dimenticherò l’istante in cui misi il CD appena scartato nello stereo, il dito sul play, il pezzo che parte e dopo un minuto io che mi rimetto a controllare se il negoziante non mi avesse venduto il disco sbagliato, perché quella band lì io non la riconoscevo più e proprio niente sembrava al suo posto allora, anche se poi lo sarebbe stato in futuro. Kid A rappresentò all’epoca una netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo, deluse molti, stregò tanti altri, ma spiazzò certamente tutti, diventando a tutti gli effetti un “game changer”: niente da allora sarebbe più stato come prima e la musica degli anni 2000 avrebbe attinto a piene mani da quel lavoro così ambizioso e disorientante.

Passata la sbornia magnetica causata dal mantra orecchiabile della prima traccia, un carillon ipnotico sveglia l’ascoltatore dalla sua culla e lo sballotta, facendolo rimbalzare di suono in suono, come una pallina da tennis che compie una parabola non lineare mentre tutto intorno si sgretola, accompagnato da un nervoso beat alla Aphex Twin. Tutto si comprime, la voce si distorce e con essa le parole, che gracchiano più che cantare, diventano un vagito, un lamento, si confondono con i suoni, accartocciate dagli effetti. Cosa sta dicendo Thom? Ho sempre visto questo brano come la descrizione di una nascita, la visione di una prima luce meravigliosa e terrificante. Che sia la nascita del primo bambino clonato come all’epoca sembrava sostenere qualcuno (il Kid A appunto)?

Le parole biascicano ronzanti:

Standing in the shadows at the end of my bed
Standing in the shadows at the end of my bed
Lying in the shadows at the end of my bed
Standing in the shadows at the end of my bed

Forse un ricordo d’infanzia, oppure il risveglio dopo un sogno di cui, appena aperti gli occhi, ti ricordi. La confusione, l’intorpidimento degli arti negli accordi melodici che fanno capolino tra uno scrosciante strascico di percussioni e l’altro. Le palpebre si muovono, sale lo stupore, poi il cielo si apre, le nuvole si scostano e resta soltanto una luce accecante, l’alba annunciata dall’apertura orchestrale prima dello scoppio finale.

The rats and children follow me out of town
Rats and children follow me out of town
Come on, kids

Il basso entra e quasi prepara il terreno per la traccia successiva. Incastonata tra due giganti come Everything in Its Right Place e The National Anthem, la title-track è probabilmente la pietra preziosa dell’album, e le sue dissonanze, la sua cantilena dolce e disturbante, il suo beat martellante costituiranno in futuro la spina dorsale della musica dei Radiohead – e non solo.


The National Anthem

a cura di Pier Iaquinta

“Everyone / Everyone is so near / Everyone has got the fear / It’s holding on / It’s holding on”

Un caos ordinato che esala sia dalla forma che dal contenuto del brano. L’inno nazionale di una società disgregata ma allo stesso tempo omogeneizzata, dove l’ansia sociale e la costretta vicinanza fisica rendono lo “Stato” invivibile. Una società in cui l’unico collante è la paura stessa, individuale ma collettiva e condivisa. Un tipico scenario dipinto da Yorke e i Radiohead con i suoni e le parole.

Il basso martella costante e si ripete come la grigia quotidianità di chi ogni giorno si alza e non vede uno spiraglio di luce. Il brusio costante, che pervade il disco, definito da qualcuno “fridge buzz” rende ostile l’ascolto ma coglie alla perfezione quello che è il comune senso di appiattimento della società industrializzata e serializzata. Il senso di disorientamento dato dalle onde Martenot, tutto rimanda a un futuro distopico in cui la macchina ha prevalso, che vent’anni dopo suona come il presente. Si tratta di un punto altissimo, in cui è palpabile la voglia di distaccarsi dalle precedenti produzioni per inseguire un nuovo sound, l’idea è quella di creare un caos ordinato durante una jam. Viene sublimato, durante la produzione, un suono in cui convivono il free jazz, l’art rock e la fortissima componente elettronica, offerta dalla presenza delle onde Martenot suonate da Greenwood e dalla voce di Yorke computerizzata con un ring modulator.

Questo brano, situato tra Kid A e How To Disappear Completely è l’esempio perfetto di come nella produzione dei primi Radiohead fosse presente questa costante accumulazione tra influenze musicali ed esperienze pregresse. Risulta infatti che la bassline, iconica, di questo pezzo fosse stata scritta da Thom Yorke all’età di 16 anni e poi registrata. Accanto al basso nel ’97 vennero registrati la chitarra e la batteria, per poter inserire il brano all’interno di OK Computer. Purtroppo, l’idea naufragò e rimase solo la demo, recuperata durante la produzione di Kid A. Un vero e proprio classico.


How to Disappear Completely

a cura di Simona Ciniglio

Puoi scegliere un superpotere, quale scegli? How to Disappear Completely, sin dal titolo, mi è sempre sembrata la declinazione elegante per una risposta, che dall’infanzia resta invariata e nella scrittura ha trovato un comodo sbocco, giustificabile: io scelgo l’invisibilità. Le origini della quarta traccia di Kid A sono circondate da una discreta aura di assurdità esegetiche, ma la storia è semplice: Thom Yorke sogna di librarsi su Dublino, fluttuando libero dai vincoli fisici sopra il fiume Liffey. Che il frontman dei Radiohead scriva una canzone triste triste triste non è certo una novità, piuttosto la cupa ballata risulta un’interruzione nella trama musicale di un album ricco di distorsioni e sovrapposizioni: quasi un ritorno al disagio ipnotico di Creep, con in più l’arrangiamento orchestrale di John Greenwood, vero fiume musicale in cui ci trasporta il pezzo.

I walk through walls / I float down the Liffey / I’m not here / This isn’t happening / I’m not here

L’esperienza pare da apprendista stregone à la Castaneda, ma l’angoscia è quella di un Amleto che ripete: To die, to sleep, perchance to dream. Eppure, nel fondo delle angosce si intravede la liberazione, un panismo musicale che rompe gli argini dei “thousand natural shocks That flesh is heir to”. Del resto, perché ascolteremmo musica, se non per questa speciale catarsi? Magari è l’abisso che chiama, la voce del fiume per Ofelia, però certo: ha un suono ammaliante.


Treefingers

a cura di Simone Fiorucci

Una canzone fatta solo con le chitarre. Cosa quantomeno buffa se si pensa che Kid A è passato alla storia come “il disco dei Radiohead senza chitarre”. La morale è che se è vero che a generalizzare si fa peccato ma spesso ci si azzecca, non è questo il caso. Nonostante — in effetti, ad ascoltarle — sembrino tutto meno che chitarre.

Durante le session al Courtyard Studio si registra ogni cosa. Anche Ed O’Brien che cazzeggia con la Stratocaster e i pedali dei looper. I nastri capitano nelle mani di Tom Yorke, che li disseziona e li rimonta fino a tirare fuori — quasi dal nulla — una canzone fatta e finita. Non proprio il classico pezzo pop a base di strofa/ritornello, ok, ma una canzone molto più canzone di quello che sembra.

Eppure Treefingers è stata considerata per anni la traccia più strana del disco più strano dei cinque di Oxford: un inutile riempitivo trascurabile agli orecchi dei più. Suonata live un paio di volte in croce, è finita ben presto nel dimenticatoio. Il che rende ancora più ironico il fatto che Christopher Nolan l’avesse scelta per la colonna sonora di Memento.

E invece la sua importanza strategica va ben oltre le apparenze: divide l’album in due parti distinte, anticipando di non poco il ritorno hipsterico della voglia di vinile e del conseguente dualismo “lato A vs. lato B”. Ci accompagna senza traumi dalla tundra artica di How to Disappear Completely all’isola perduta ma sorridente di Optimistic, suggerendo così una cosa non scontata: ovvero che un’operazione di reverse engineering dal post-rock post-umano di KidAmnesiac al post-grunge di OK Computer è tutt’altro che un’utopia (come dimostreranno poi In Rainbows e Hail to the Thief).

Improponibile come singolo, siamo d’accordo — giusto la finezza necessaria per rendere un disco da 9.1 un disco da 10.

 


Optimistic

a cura di Alessandro Spagnolo

Ascoltando le parole di Optimistic, poggiate sul letto graffiante fatto di chitarre scarne ed essenziali e sul tappeto di percussioni, pensi a un vecchio uomo con la barba grigia che gioca coi burattini e descrive lo scenario di una strada in cui un senzatetto chiede l’elemosina a un uomo indaffarato, che lo ignora rispondendo ai messaggi del cellulare. Come fosse tutto un eterno rimando, un loop infinito.

I’d really like to help you man / I’d really like to help you man / Nervous messed up marionettes / Float around on a prison ship

Se c’è una cosa che sicuramente rende enigmatici i Radiohead è fare riferimenti velati e lasciarci discutere in una bolla di mistero senza dare una conferma o una smentita. Subito dopo un pezzo strumentale e ambient à la Brian Eno come Treefingers, Optimistic spacca a metà la scaletta. È sicuramente il brano più normale dell’album, e in linea con lo sviluppo dei Radiohead del 2000, dopo Pablo Honey. La linea evolutiva adotta comunque lo stile criptico che abbiamo imparato a conoscere: Thom Yorke non ha mai dato la vera e propria chiave di lettura al brano. Sul web fioccano quindi le speculazioni e le interpretazioni personali, più o meno articolate, più o meno plausibili. Probabilmente la canzone stilizza il Sistema, come in un quadro di Mark Rothko (da cui trae ispirazione la copertina del successivo Amnesiac), evidenziandone i contrasti e i chiaroscuri, lo stato dell’arte. Anche qui esiste un contrasto tra il titolo (“Ottimista”) e il contenuto della canzone. Mettendone, velatamente, in luce questi aspetti, in Optimistic appare una frase che più delle altre sembra denunciarne la corruzione.

The big fish eat the little ones/ Big fish eat the little ones / Not my problem, give me some
Il Sistema (capitalistico) in cui il pesce grande mangia il piccolo, ma non è un problema di chi è un altro pesce piccolo.

You can try the best you can / The best you can is good enough
Il ritornello, che sembra derivare da un incoraggiamento fatto da Rachel Owen, la compagna di Thom Yorke, per rassicurarlo che ciò che avevano prodotto in studio i Radiohead fosse abbastanza, nel contesto potrebbe anche essere un monito all’ascoltatore. Come se ogni piccolo contributo fosse abbastanza per migliorare la Società.


In Limbo

a cura di Mattia Fumarola

“Lundy, Fastnet, Irish Sea / I got a message I can’t read / Another message I can’t read”

Il testo di In Limbo è sicuramente uno dei più criptici e indecifrabili dell’intera discografia dei Radiohead, a cui ognuno di noi può dare un’interpretazione diversa e personale. Il Limbo può essere inteso come uno stato di totale isolamento dalla realtà circostante e senza possibilità di uscita verso altri luoghi, migliori o peggiori che siano. Si rimane intrappolati in questa comfort zone – essenzialmente per autodifesa e istinto di sopravvivenza – che limita il progresso e la crescita individuale, ma nel caso degli artisti “sentirsi nel limbo” può significare anche una metafora che indica un blocco dello scrittore o una sensazione di perdita del proprio ego.

“I’m lost at sea / Don’t bother me / I’ve lost my way / I’ve lost my way”.

Nel periodo successivo al tour mondiale di Ok Computer, Thom Yorke ebbe una profonda crisi personale e creativa che lo portò a isolarsi dal mondo esterno. La rapida ascesa alla popolarità e l’enorme peso dell’hype attorno alla sua band (forse anche aver scritto il testo di Climbing Up The Walls) gli provocarono una forte depressione ansiosa, ma proprio in questo testo ci comunica che sta cercando di trovare una soluzione: è perso in mare, confuso e depresso, ma la possibilità di restare da solo lo fa sentire meglio. Nel ritornello ripete quasi ossessivamente “You’re living in a fantasy world”, come per suggerire che il mondo al di fuori del limbo non sia reale o che addirittura potrebbe non esistere: è una concezione tipica di chi sente uno stress estremo tale da non poter più reggere i ritmi frenetici della Modern Age, quindi si chiude nel suo limbo separandosi da tutte le altre persone che, a suo parere, vivono in un mondo finto e illusorio.


Idioteque

a cura di Gianmarco Giannelli

Avete presente l’effetto Vertigo? Quello stratagemma usato da Hitchcock per simulare con la macchina da presa le vertigini? Uno zoom in avanti mentre la cinepresa fa una carrellata indietro. Senza punti di riferimento, inizi a sentire quello strano vuoto alla pancia che ti prende quando sei tranquillo nel sedile posteriore e il guidatore frena di botto. Ecco per me Idioteque è un po’ questo: una sensazione di caduta nel vuoto sull’orlo dello svenimento. Beat elettronico sanguigno che ricorda il mal di testa e la progressione degli accordi che sembra far muovere il suono verso un punto lontano da noi, magari più alto perché noi stiamo precipitando.

Idioteque è l’ottava traccia di Kid A e segna il punto di spannung prima del rilascio tensivo di Morning Bell. Segna uno dei punti più alti di quel prestigioso gioco che è Kid A in cui emerge tutta la capacità dei Radiohead di fare, fondamentalmente, ciò che vogliono su qualsiasi terreno di gioco. E sarà il cut-up del testo che, anche se affidato al caso, fa pensare che nella riffa ci fosse più di una frase catastrofica e apocalittica, sarà la musica, saranno le grida d’allarme, i bunker, i “prima le donne e i bambini”, sarà l’angoscia della serie d’accordi originariamente di Paul Lansky. Sarà soprattutto l’inserimento di questa traccia in un progetto come Kid A. Dalla descrizione potrebbe non venire troppa voglia di vivere un’esperienza come questa ma ci vuole un pezzo epico per trascinarti con tanta ferocia in un dolore che non è tuo.


Morning Bell

a cura di Martina Neglia

Essere nata i primi anni ’90, essere quindi una late millennial, vuol dire essere arrivata a conoscere i Radiohead e nello specifico questo album che spegne le venti candeline quando questo si era già impresso in una cultura generazionale di un certo tipo, venendo poi assorbito dai e dalle più giovani un po’ per fisiologica emulazione e un po’ perché ci sono pochi ascolti in grado di essere catartici come un Kid A scoperto durante un’adolescenza in cui la gestazione di Thom Yorke la senti tutta, vuoi assorbirla e farla tua quasi sottopelle. Quanti titoli delle canzoni contenute qui sono poi diventati nomi di blog, nick su social e forum ormai in disuso? Manifesti generazionali di persone venute dopo ma che sotto quelle parole arrivavano a identificarsi. Con un transizione perfetta, Morning Bell arriva proprio dopo una delle canzoni poi diventate simbolo dell’album e probabilmente di tutta la produzione dei Radiohead, Idioteque. Eppure resiste, si scopre una perla inattesa, l’ultimo slancio verso la chiusura.

Il penultimo brano dell’album sembra infatti quasi voler sfiatare, lasciarsi andare prima della fine, appellandosi a una sveglia che liberi da un incubo ripetitivo ( “Morning bell / light another candle / release me / release me”). Ma la pace dura poco, Morning Bell esplode accompagnata dalla chitarra e da una corsa senza punti di riferimento (“run around around around around”), confondendosi e riaddormentandosi poi nella solitudine (“the lights are on but nobody’s at home”) ma nella consapevolezza che nessuno vuole essere schiavo (“nobody wants to be a slave”). Forse è il giusto compromesso alla sparizione.


Motion Picture Soundtrack

a cura di Fernando Giacinti

E così, alla fine di Kid A, i Radiohead levano gli ormeggi da loro stessi, da quell’immagine, sublimata in Creep, di band sì stramba, anche freak ma fortemente empatica, e comunque ancorata al classicismo rock, al brit, al grunge e a tutte le sue all’epoca recenti maschere. Lo fanno, curiosamente, con una canzone composta nello stesso periodo di Creep, e già proposta durante il tour di Ok Computer, come una ballata acustica, un numero -ancora- intimista, schietto, relatable (modus operandi peraltro comune al gruppo, quello di riproporre su disco canzoni già performate in pubblico). Un senso di artigianato e schiettezza che torna anche nelle parole del bassista Colin Greenwod il quale, rispondendo a chi gli chiedeva se Motion Picture Soundtrack fosse ispirata a un qualche film in particolare, citava Il Mago di Oz, dicendo in sostanza che il pezzo sarebbe stato una sorta di sipario: alla fine di tutta quella sperimentazione elettronica (l’argomento principe delle stroncature di 20 anni fa), l’ultimo brano era come tirare le tende e scoprire che tutto quel rumore alla fine era umano.

E se il testo è in parte umano – scene di depressione, dissipazione, forse di suicidio, anche se Thom Yorke ha sempre negato – in parte ultraterreno − la parte finale, con i suoi riferimenti a un’altra vita, non è dato sapere quale – la musica è soundscape puro: non più chitarra acustica ma un vecchio harmonium a pedale, che sa di funerali, incenso e riti dimenticati (pare ci fosse lo zampino di Tom Waits), e un’arpa riprodotta al sintetizzatore, ufficialmente per ricreare atmosfere da film Disney, per spingere ancora di più verso la metafisica aggiungiamo noi. Motion Picture Soundtrack chiude l’album “della svolta” dei Radiohead e li traghetta in una nuova fase, più impressionista, più legata alla sperimentazione e alla creazione di paesaggi sonori, come se tutto quel disagio non potesse più essere contenuto nello schema tradizionale chitarra-basso-batteria ma avesse bisogno di spazi più ampi per essere comunicato.