I-Music

La rivoluzione di Gil Scott-Heron

Spoken word e suoni della strada.

Nei vecchi film western c’erano delle scene ricorrenti. Chi sapeva leggere le tracce lasciate dai resti di un falò, dall’erba calpestata, o dai rami spezzati, aveva un vantaggio, possedeva una fondamentale arma in più nei confronti del nemico. Anche nella storia della musica è cosi. Ci sono personaggi, che magari non risplendono della luce dei riflettori, ma che lasciano delle tracce importanti. Ce ne sono stati più di quanti riusciamo a immaginarne. La musica, incluso la sua storia, è un flusso, in cui è molto difficile mettere dei paletti, recintare dei meriti in modo netto. Solitamente si va sul sicuro, su riferimenti solidi e universalmente riconosciuti come punti di svolta. Robert Johnson, Elvis Presley, Chuck Berry, Bob Dylan, i Beatles. Momenti storici e stili musicali che cambiano. Ma quei cambiamenti spesso arrivano alla musica dai grandi fatti storici, sociali, culturali, e l’arte tende a percepirli un pò in anticipo, cominciando a svelarli, in alcuni casi avviando correnti, generi, insomma innovando.

Poche volte, in questa ristretta élite, troviamo Gil Scott-Heron. Uno che di tracce ne ha lasciate eccome, definendo dei codici che col tempo sono stati contraddetti, fin troppo sviliti, probabilmente appropriandosi più della forma che del contenuto del suo linguaggio artistico. Siamo alle origini moderne della spoken poetry, e in parte anche del rap, dell’hip hop, almeno di quello da strada. Gil Scott-Heron nasce a Chigago, figlio di una libraia americana e di un calciatore giamaicano in forza agli scozzesi del Glasgow. Il matrimonio non funziona e Gil si ritrova in Tennessee, dalla nonna, dove comincia a misurare la portata del razzismo su chi ha la pelle nera. Giunge il momento di spostarsi a New York, in una città in pieno fermento culturale. Vive nel Bronx e impara a parlare chiaro. Pubblica un romanzo e soprattutto comincia a mettere in fila le parole su basi musicali, ottimamente preparate dal manipolo di musicisti jazz che lo assecondano nella pubblicazione del suo primo disco.

La sua voce scivola su quella musica colpendo frontalmente il sistema, in particolar modo l’informazione e il suo tentativo di indottrinamento, soprattutto verso la classe media. A fine anni Sessanta erano tanti a scagliarsi contro, anche tra i musicisti. Lo faceva una generazione intera. Ma Gil lo fece in un modo preciso: spoken word. Questa poesia recitata su basi musicali, (per molti anche l’inizio del solco che porterà all’hip hop), unita al suo attivismo afroamericano, crearono la tempesta perfetta, The Revolution Will Not Be Televised, fu la sua scintilla.

 

Prima di andare avanti capiamo questo momento, perché come detto New York è una città in grosso fermento, e la scintilla che Gil crea nel Bronx viene raccolta a Manhattan, dove c’è un’associazione, che nel tempo cambierà varie sedi sempre più grandi visto il seguito crescente, che si chiama Nuyorican Poets Café, animata soprattutto dal poeta Miguel Algarìn. Dallo sviluppo di questo nuovo nucleo umano prenderanno forma progetti come la poesia itinerante e il poetry slam. Il jazz incontra, e si mette al servizio, dei testi radicali, che raccontano la miseria, la rabbia, la voglia di rivolta. Le parole della strada trovano una casa, trovano una musica, e trovano chi le ascolta. E sono sempre di più. Intanto, grazie a un pianista jazz come Brian Jackson, quelle parole si mettono anche su dischi sempre più contaminati dal funk, dal soul, dai ritmi della black music. Sarà una continua ascesa fino alla metà degli anni Settanta, in cui Gil si misurerà anche con strutture di canzone più convenzionale, ma sempre con quei contenuti e quella forza espressiva. Nel tempo vive alti e bassi dovuti alla droga e, spesso, alla conseguente galera.

A lui si deve la parte del rap più politicizzato degli anni a venire, i Public Enemy per capirci. Così come quei flussi di parole che, confrontandosi anche con la poesia della beat generation, ne escono più coscienti e schierati, spiegando che i contenuti e i suoni propri della strada, più che dei salotti o delle salette, sono quelli che animano i cambiamenti. Gli afroamericani per le strade capirono subito il suo messaggio, quasi come se stesse perpetuando una tradizione orale da custodire per intere etnie, nelle generazioni a venire. Quelle tracce sono ancora lì, il tempo le avrà anche ricoperte di cenere e di polvere, ma chi è in grado di accovacciarsi per ripulirle e decifrarle, le troverà ancora nitide e splendenti, nascoste tra le crepe di cemento dei marciapiedi del Bronx.

 

Previous Article
Quando una vita non basta