Letteratura

Italiani senza razza: raccontare l’oggi con Nadeesha Uyangoda

|Prospettive inattuali contro la cultura della normatività|

Quello che mi ha sempre colpito della discussione sulla questione razziale nel mondo anglofono è l’effettiva contrapposizione tra cittadini bianchi e cittadini di colore, anche se più spesso è ridotta a quella tra bianchi e afroamericani. […] Nessuno lì potrebbe mettere in discussione il fatto che un afroamericano, un italoamericano, un asiatico-americano non siano in realtà dei cittadini americani. A mio avviso è ancora difficile avere questa conversazione, negli stessi termini, in Italia (65).

Nonostante i migliori propositi, sono passati alcuni mesi dall’uscita dell’ultima prospettiva inattuale. Ciò non è necessariamente un male innanzitutto perché, appunto, nel concetto di inattualità risiede intimamente la disconnessione dall’hic et nunc del momento, di cui l’inattualità si nutre e beneficia. Più nello specifico del discorso che vado ad affrontare, la distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione del libro che ha messo in moto la mia riflessione, L’unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda, uscito a marzo per 66thand2nd, ha permesso di osservare l’intera evoluzione della ricezione di un testo che è rapidamente diventato un caso editoriale e letterario, guadagnandosi un’utenza ampia e variegata che pochi avrebbero previsto in origine, e portando la sua autrice dai blog e dalle webzine alle principali testate della stampa mainstream mentre il confronto col pubblico si è spostato dalle piattaforme online ai contesti più tradizionali in cui si parla di libri in persona, parallelamente alle riaperture che hanno ridefinito le regole della discussione culturale regalandoci un’estate in cui a metà luglio si organizzano più presentazioni ed eventi che viaggi (anche per ovvi motivi pandemici).

A quattro mesi dall’uscita e a tre dalla bella intervista che Uyangoda ci ha generosamente concesso ad aprile, L’unica persona nera nella stanza continua ad essere uno dei libri più letti e nominati, un volume necessario e che finalmente sembra aver spostato la discussione sulla blackness in Italia dal ghetto in cui ci si parla tra pochi a un più realistico contesto interculturale, transculturale e multiculturale francamente necessario nel nostro paese. Da questo punto di vista, la conversazione a voce alta che fuoriesce dai capitoli di questo testo ibrido che si legge un po’ come un saggio, un po’ come un memoir, si accompagna perfettamente ai due esempi su cui mi sono soffermato in precedenza – Canone ambiguo di Luca Starita e Il capitale amoroso di Jennifer Guerra – nel contribuire alla ridefinizione delle regole del dibattito con la finalità di mettere in crisi la cultura della normatività che ancora è spesso associata alla definizione all’identità italiana. Si parla, innanzitutto, in modo specifico di intersezionalità, perché la riflessione di Uyangoda sovrappone costantemente l’istanza etnica a quella di genere e la discriminazione razziale a quella femminile, rileggendo alla luce delle teorie di Kimberlé Crenshaw, che è più volte citata nel testo, numerosi episodi che caratterizzano le nostre vite quotidiane e che ci riguardano sempre di più anche nel momento in cui personalmente non percepiamo di trovarci nella posizione di chi li subisce.

L’eleganza e la leggerezza della prosa di Uyangoda rendono immediatamente trascurabili alcune semplificazioni inevitabili nel contesto della divulgazione, integrandole nel racconto di eventi di vita personale che appassiona efficacemente qualsiasi tipo di lettore. Personalmente, nei miei panni di studioso che si occupa a tempo pieno di rappresentazioni culturali di multiculturalismo e migrazioni in Italia ho accolto l’uscita di L’unica persona nera nella stanza con una certa meraviglia. Non è solo la freschezza del discorso di Uyangoda che mi ha subito conquistato, ponendosi come voce di una generazione più giovane che riprende riflessioni, temi e lotte introdotte e portate avanti con passione e competenza dalle prime autrici cosiddette scrittrici “second-generation”, nate in Italia da famiglie di provenienza estera che hanno costruito questo ambito editoriale letteralmente con le loro mani, quali Igiaba Scego, la voce forse più autorevole di questo importante capitolo di letteratura italiana, e altri nomi di rilievo quali Cristina Ali Farah, Gabriella Ghermandi e Gabriella Kuruvilla.

Igiaba Scego, Foto di Simona Filippini

L’altro aspetto problematico di questo tipo di narrazione è che, noi per primi, non abbiamo trovato un modo di definirci” (73), scrive Uyangoda. In frasi di questo tipo emerge l’originalità e la profondità di Uyangoda, ancora di più se la si confronta per esempio con un volume altrettanto interessante, pubblicato piuttosto di recente a cura di Scego per Effequ col titolo di Future: Il domani raccontato dalle voci di oggi (2019), dove un’intera nuova schiera di scrittrici italiane di “seconda generazione” restituisce nuova vita al progetto che aveva animato il volume Pecore nere edito a quattro mani da Scego e Kurivilla insieme Ingy Mumbay e Lalla Wadia nel 2012, altrettanto importante nel rompere il ghiaccio e lasciare che una voce importante della cultura italiana riuscisse finalmente a essere ascoltata. La caratteristica che da subito mette in risalto Uyangoda è proprio la capacità di distinguersi dalla narrazione fornita dalla prima generazione di aut(o)r(ic)i di identità ibrida ed esprimere la complessità dell’argomento nel massimo della chiarezza espositiva importando direttamente il dibattito che anima fuori dai nostri confini, attingendo non solo a Chrenshow ma anche a nomi di grande risonanza internazionale quali Chimanda Ngozi Adichie e Angela Davis, Zadie Smith e Angela Walker, che sono ingaggiate nel concreto del discorso che si sviluppa nella società italiana analizzando attraverso il loro sguardo le specificità di quello che succede a casa nostra.

D’altra parte, lo stesso Future è aperto da una splendida introduzione di Camilla Hawtorne, professore di sociologia e studi etnici alla University of California Santa Cruz di padre afroamericano e madre italiano, che nel suo caso personale ci sottopone una dimensione dell’italianità ancora più ampia perché riguardante anche la comunità italiana che si è allargata proiettandosi fuori dai confini nazionali, affiancandosi per esempio al caso di Kym Ragusa, film-maker che al contrario ha vissuto a New York dividendosi tra un padre italoamericano e una madre afroamericana. Il suo intensissimo memoir The Skin Between Us (2006) in Italia è stato tradotto come La pelle che ci separa (2008) da Cristina Romeo, una delle maggiori studiose di studi postocoloniali in Italia, anche lei inclusa nella riflessione di Uyangoda, a conferma di una prospettiva di multiculturalismo italiano che includa anche le direzioni in cui la cultura italiana si è riconfigurata nelle comunità degli italiani in Europa e nelle Americhe. Questa prospettiva mi pare evidenzi la discrepanza che si riscontra comparando i discorsi di Scego con Hawthorne, Ragusa o Uyangoda, senza togliere i meriti a nessuna di loro nelle modalità con cui porta avanti la propria conversazione, lasciando emergere una maggiore problematicità quando il discorso italiano è colto nella sua prospettiva transnazionale che spesso rivela una distanza anche profonda tra la cultura italiana trapiantata all’estero e quella che cresce e si evolve tra i confini nazionali, rimanendo spesso isolata con dinamiche simili a quelle con cui alcuni decenni fa gli italoamericani hanno dato vita a una cultura autonoma e paradossalmente più simile a quella italiana del passato rispetto a quella che si è evoluta nazionalmente in dialogo con la medesima influenza statunitense a partire dal dopoguerra.

Cristina Ali Farah

Già dal blog da cui ha avuto origine L’unica persona nera nella stanza, Uyangoda si è presentata da subito inserita nel dialogo internazionale, dimostrando di avendo assorbito la lezione della prima schiera di scrittrici che hanno investigato le ibridazioni della cultura italiana con le culture delle comunità che vi si sono più recentemente ricollocate ma anche l’intenzione di andare oltre. In base al presupposto che ha visto la prima generazione etnico-italiana prevalentemente intenta a cercare un uditorio e decolonizzare, contribuendo anche a rompere la coltre di silenzio che ha avvolto l’esperienza del colonialismo italiano a fianco di storici fondamentali quali il recentemente scomparso Angelo del Boca – da questo punto di vista, la circolazione di La mia casa è dove sono di Scego, nel 2010, è stata cruciale – mi sembra appropriato che la generazione più recente ambisca invece a ricercare e restituire la complessità più che la riduzione, sottoponendo al lettore gli aspetti di questo fenomeno con un linguaggio semplice e chiaro ma senza le semplificazioni paternalistiche che spesso si acquisisce per adattarsi al discorso portato avanti da quotidiani e riviste del nostro paese, perciò attingendo direttamente al dibattito su etnicità e genere che si sviluppa all’estero per riscrivere il linguaggio stesso con cui si parla di etnicità e multiculturalismo nel nostro paese. Perciò con voce sicura Uyangoda paragona il caso italiano a episodi che attinge dalla riflessione che si sviluppa in UK, US o in altri paesi europei in cui il discorso di cittadinanza e nazionalità è stato portato avanti da un periodo molto più lungo che in Italia, che ha cominciato a percepirsi come paese di immigrazione solo dagli anni Settanta, quindi circa cinquant’anni fa, di contro a circa centocinquant’anni di storia di emigrazione. Non c’è modo più appropriato per definire lo stato del discorso multiculturale in Italia che quello scelto da Uyangoda quando scrive: “Negli ambienti culturali italiani i neri non esistono, o meglio: esistono come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto.” Cambiare le regole del discorso vuol dire eliminare divisioni e ghettizzazioni che caratterizzano anche gli ambiti culturali dalle nostre parti e fare in modo che nessuno si percepisca come l’”unico nero nella stanza”, per esempio alimentando confronti alla pari quali quello in cui Uyangoda ha dialogato con Fabio Deotto al Centro Alda Merini di Milano qualche giorno fa. In sintesi, occorre problematizzare piuttosto che rassicurare, catturare la soggettività piuttosto che riportarla a uno schema, rappresentare la molteplicità piuttosto che ridurla a una serie di modelli predefiniti.

Appartiene alla categoria dell’ovvio – eppure, dato il contesto in cui ci muoviamo, è sempre meglio ribadire – che senza il monologo di chiusura di Scego in La mia casa è dove sono probabilmente non si sarebbe mai arrivati a sollevare le domande di Uyangoda, che quest’ultima anzi spesso riprende, essendo rimaste nella maggior parte dei casi senza una esauriente risposta:

Sono cosa? Sono chi?
Sono nera e italiana.
Ma sono anche somala e nera.
Allora sono afroitaliana? Italoafricana? Seconda generazione? Incerta generazione? Meel kale? Un fastidio? Negra saracena? Sporca negra?
Sono un crocevia, mi sa. Un ponte, un’equilibrista, una che è sempre in bilico e non lo è mai. Alla fine sono solo la mia storia. Sono io e i miei piedi. (31)

Eppure raccontare e ascoltare la storia delle comunità che continuano a espandersi nei nostri quartieri è indubbiamente una parte importante della nostra storia, ed l’intreccio della voce personale e di quella del contesto già in Scego incontrava momenti fondamentali, per esempio quando ha scritto, sempre in La mia casa è dove sono:

“Mi sono concentrata sui primi venti anni della mia vita perché sono stati i venti anni che hanno preparato il caso somalo, un caos che mi ha travolto fin da bambina e che ancora oggi continua a travolgermi. Ma sono stati anche i venti anni in cui l’Italia è cambiata come non mai. Da paese di emigranti a paese meta di immigrati, dalla tv chioccia alla tv commerciale, dalla politica all’antipolitica, dal posto fisso al precariato. Io sono il frutto di questi caos intrecciati. (159)”

Al di là di ciò, il saggio di Uyangoda ha il vantaggio di appartenere alla categoria dei volumetti che si leggono veloci ma sono densissimi di spunti e messaggi alimentato in questo fortunato 2021 dal giro degli editori indipendenti italiani, affiancandosi non solo a Starita e Guerra, ma anche a Elisa Cuter e Vera Gheno nella revisione di categorie culturali, sociali e linguistiche mirate a decostruire tutto quanto non ci rappresenti della società che abbiamo intorno, portando alla nostra attenzione l’urgenza di diffondere un discorso di inclusione che non può denunciare l’artificiosità della costruzione dell’identità di genere e di quella sessuale se non parallelamente a quella della razza, tutti e tre legati alla percezione e alla concettualizzazione del corpo attraverso una serie di requisiti che ci appaiono sempre più legati alle norme che alla spontaneità con cui ci si percepisce italiani. La sua voce esce dal confine del “ghetto” multiculturale che, similmente a quanto accade in UK e US, anche da noi si è a lungo definito come una dimensione delimitata, come ci mostrano anche serie Netflix recenti quali Zero, con l’ambizione di incontrare la nostra, rivendicando gli stessi spazi in cui dialoghiamo per poterci confrontare tutti insieme in ciò che ci rende diversi, ma anche ciò che ci rende uguali: per esempio il nostro accento, la lingua che parliamo, gli argomenti di cui discutiamo. Perciò il contributo di Uyangoda mi appare preziosissimo all’edificazione di un’identità italiana che ci rispecchi e ci rappresenti nella nostra concreta molteplicità piuttosto che riportarci allo stereotipo a cui siamo ancora troppo spesso ridotti, quando siamo visti da fuori.