Letteratura

Racconti per detective selvaggi in cerca di racconti

Contro ogni previsione e scommessa il nostro spazio di consigli di racconti continua, e stavolta ci muoviamo tra l’Italia di Natalia Ginzburg e il Messico di Amparo Dávila, esploriamo i mondi di Antonio Tabucchi, Roberto Bolaño, Danilo Kiš. Con il solito invito a lasciarvi sequestrare dalla forma breve, anche da quei racconti di cui ancora non vi abbiamo parlato – alla continua ricerca, come detective selvaggi di racconti.
In foto: Bolaño e gli infrarealisti

Natalia Ginzburg – Ritratto d’un amico

Leggere Le piccole virtù di Natalia Ginzburg è stato il più bel regalo che potessi farmi a inizio anno. Undici racconti pubblicati per la prima volta in raccolta da Einaudi nel 1962, ma già usciti precedentemente tra il 1944 e il 1960 su diverse riviste. Quell’aggettivo presente nel titolo, “piccole”, sembra voler coccolare la potenza evocativa delle parole di Ginzburg. La raccolta prende infatti il nome dal racconto con cui si conclude e contiene pezzi che sono riflessioni, memorie affidate alla carta per ostacolare il passare del tempo e ritratti di persone molto vicine a Natalia Ginzburg.

Tra questi, troviamo quello che per Italo Calvino è stato “certo la più bella cosa che sia stata scritta sull’uomo Cesare Pavese”. Ritratto d’un amico è proprio questo e, ogni volta che si legge e rilegge il ritratto di Cesare Pavese che Natalia Ginzburg ha affidato all’eternità, ci sembra di vederlo proprio qui di fronte, schivo e silenzioso, seduto tra i suoi amici e colleghi eppure sempre più solo degli altri. Più umano di tutti, come un adolescente che non riesce a scrollarsi di dosso quella tristezza troppo ingombrante. Quando ha deciso di lasciare questo mondo insopportabile per lui, più di settanta anni fa, Pavese ha abbandonato Torino, la casa editrice di via Biancamano, Natalia Ginzburg, sua amica e collega, e tutti gli altri lasciando un vuoto che si avverte ancora oggi, ma che per fortuna è stato colmato da ferme parole d’affetto.

È morto d’estate. La nostra città, d’estate, è deserta e sembra molto grande, chiara e sonora come una piazza; il cielo è limpido ma non luminoso, di un pallore latteo; il fiume scorre piatto come una strada, senza spirare umidità, né frescura.

E ancora, in generale, è proprio quell’affetto per luoghi, tempi passati, volti e mestieri che diventa il filo conduttore tra le undici storie che vivono nella raccolta Le piccole virtù. Tra queste pagine di piccolo non c’è proprio niente, tant’è grande la bellezza di Natalia Ginzburg e della sua scrittura.

Federica Guglietta


Amparo Dávila – Tina Reyes

 

Pochi incontri in letteratura sono stati fulminanti come quello con Amparo Dávila, autrice messicana famosissima in patria e scomparsa i primi mesi del 2020, arriva al pubblico italiano con la raccolta di racconti L’ospite e altri racconti, pubblicata da Safarà Editore nella traduzione di Giulia Zavagna. Considerata la risposta messicana a Shirley Jackson, anche nel cuento di Dávila la paura e l’inquietante si annidano spesso nei legami familiari, nel domestico, in ciò che non è subito rilevabile dallo sguardo dei personaggi, o ancora nella dissonanza tra ciò che è visibile e ciò che è percepito.

Come scrive Alberto Chimal nella prefazione alla raccolta: “Chi legge Amparo Dávila non saprà mai esattamente identificare le minacce che le sue protagoniste, quasi sempre donne, si trovano ad affrontare”. Infatti, seppur Dávila non sia mai stata esplicitamente attivista né le sue opere dichiaratamente di denuncia, le protagoniste dei suoi racconti sono spesso le donne del suo tempo, immerse nel contesto sociale messicano – e come tali quindi ingabbiate in ruoli patriarcali e in prevedibili dinamiche di genere all’interno delle proprie relazioni.

Ed è in questo filone della produzione che si inserisce Tina Reyes, per me il racconto più bello della raccolta. I dettagli sono pochi: una giovane donna, Tina, esce da lavoro e inizia a essere pedinata da un uomo che le si avvicina con fare gentile improvvisando una chiacchierata. Tina riesce a “scappare” momentaneamente da un’amica, ma all’uscita da casa l’uomo e ancora lì e Tina proseguirà con lui – in un momento in cui se il corpo ha ancora l’istinto di fuggire, la mente si piega alla rassegnazione. In Tina Reyes, la protagonista è infatti immersa in un contesto che la costringe, socialmente e psicologicamente. Sia il suo corpo che il suo pensiero sono soggetti alle regole di dominazione e controllo patriarcali, in cui lo sguardo di Juan Arroyo, l’uomo che la segue, è solo una delle espressioni. La forza trascinante e orrorifica del racconto non stanno però semplicemente nell’esposizione della vulnerabilità di Tina, nel pericolo prevedibile a cui va incontro, ma anche nella sua paura montante che Dávila rende in maniera così vivida da renderci, a un certo punto, incapaci di capire dove il reale sfuma nell’immaginario di una mente terrorizzata.

Martina Neglia


Antonio Tabucchi – Piccoli equivoci senza importanza

Mmiez’ ‘a na strada ‘nfosa, / sulo comm’a ‘na vota, / sulo, cu stu destino / ca mo vò accussì — Strada ‘nfosa – Domenico Modugno

Attraversato e travolto dalla lingua e dai mondi di Pessoa, come potrebbe Tabucchi non essere un mago? Me ne convinco ogni volta che lo rileggo, irretita nelle sue pagine radianti prometto di non scrivere più niente, ché questo, questo è scrivere! ma poi… Di piccoli equivoci senza importanza sono costellate le nostre vite: «Malintesi, incertezze, comprensioni tardive, inutili rimpianti, ricordi forse ingannevoli, errori sciocchi e irrimediabili». Un piccolo equivoco senza importanza – o senza rimedio, come nel sinistro lapsus di un impiegato alle segreterie universitarie, che minimizza sull’errore di una burocrazia imperscrutabile, fa sì che Federico si ritrovi iscritto a giurisprudenza anziché a lettere classiche. Da quel momento l’espressione dell’impiegato diventa emblema delle piccole deviazioni inesorabili nei destini di Federico, che resta fatalmente iscritto a giurisprudenza – scegliendolo? -, e di Leo che imbocca la strada della militanza politica, finendo processato per terrorismo. «La vita è così brava a sclerotizzare le cose, e gli atteggiamenti diventano le scelte»: è un passaggio marziale, andrebbe ripetuto ogni giorno guardandosi negli occhi allo specchio, mentre ci si lava i denti. Il tema del gioco delle parti e del destino ironico richiama Pirandello, ma la sostanza eterea e fulminante – metafisica – di questo racconto ricorda Kipling o Henry James. La nostalgia è un tema caro a Tabucchi, assieme alla pietas per le vite, al muto orrore per il tempo che le divora. La solarità devastante nella voce di Domenico Modugno che canta Strada ‘nfosa aleggia, fantasma tra i fantasmi della gioventù di Tonino, Federico, il Leo e Maddalena, amata in segreto, contesa tra altri equivoci esiziali. Il tempo non è più che una formalità aggirabile.

«E così gli anni hanno continuato a svolazzare avanti e indietro, come venivano, mentre il Leo e Federico continuavano a ballare con Maddalena nel salotto stile impero».

Simona Ciniglio


Roberto Bolaño – Puttane Assassine

…ascolta sempre le parole che dicono le donne mentre te le scopi […] le donne sono puttane assassine, sono scimmie intirizzite dal freddo che contemplano l’orizzonte da un albero malato…

Una donna dal suo appartamento in periferia vede un uomo, insieme a un gruppo di giovani, ballare a torso nudo sulle gradinate di uno stadio. Attraversa la città, raggiunge lo stadio, ferma l’uomo e lo invita a casa. Questo l’incipit di Puttane Assassine, racconto che ha inizio diverse ore dopo quel momento e che narra non la storia di un incontro ma quella di un vero e proprio incubo. Quello della donna è un monologo dove trovano posto – in un ordine perfetto – parole e pensieri; è una confessione cupa – nella densità del rancore e dell’odio che la sorreggono – e oscura – nelle tinte di un piano sospeso nel tempo che esplode dentro la solitudine e si tinge di una vendetta che affonda le sue radici dentro a un passato traumatico, tesa nelle forme di un gioco sadico e terribile. Puttane assassine è una corsa in moto dentro un tunnel senza luce, sorretta come da un ritmo techno costante, a tratti quasi insostenibile.

Con Putas asesinas – pubblicato nel settembre del 2001 nella raccolta di racconti omonima – Roberto Bolaño costruisce un congegno perfetto intorno a uno delle sue principali ossessioni – quella del Male – qui reso addirittura tangibile attraverso un senso stringente di angoscia che vede sullo sfondo echi di nazionalismo politico, riflessi del transfert psicanalitico e una dimensione onirica disturbata; tutti elementi che danno forza alla sottile trama hard boiled in cui siamo scaraventati e con lo stesso freddo tremore con cui assisteremmo a uno snuff movie. Un racconto che, come diceva Cortázar, non si accontenta di vincere ai punti ma stravince per ko con una sequenza impressionante di colpi che costringono all’angolo il lettore, non lasciandogli alcuno scampo.

Fabio Mastroserio


Danilo Kiš – L’Enciclopedia dei morti

ogni uomo è un mondo a sé, tutto accade sempre e mai, tutto si ripete all’infinito e irripetibilmente

Una donna si trova in una biblioteca in Svezia a leggere L’enciclopedia dei morti, una raccolta di vite marginali – marginali solo perché dall’enciclopedia sono assenti personalità famose ma c’è posto per gli altri. Ogni vita umana rivela il suo interesse e i suoi mondi dentro un’opera “che ha posto alla base del suo programma democratico una visione ugualitaria del mondo dei morti”, redatta “qualche anno dopo il 1789” – e non sorprende trovarsi di fronte la data della rivoluzione francese, della progressiva irruzione delle masse nella Storia, anche se alla fine di quell’esperienza emergerà Napoleone che con la sua esplosiva “biofiction” spazzerà via per molto tempo ogni sogno egualitario di vita. L’Enciclopedia dei morti è anche il titolo della raccolta omonima di Danilo Kiš, tanto che questo racconto sembra solamente il lucernario che illumina il tentativo estremo dello scrittore serbo di esplorare vite più o meno ignote, mescolando alla narrativa formule storico-biografiche – note, citazioni, descrizioni; con la testa china sull’enciclopedia la donna legge di suo padre, e noi con lei ci perdiamo dentro la visione al microscopio di quella cosa che è la vita umana.

Le vite marginali di Kiš si gettano nella tradizione delle vite immaginarie di Schwob, degli iconoclasti e i mostri di Wilcock, dei nazisti di Bolaño, degli infami di Borges – raccolte di vite e storie che, anche quando apparentemente poco eccezionali, si rivelano universi luminosi, e che siano reali o fantastici non ha importanza. Universi che sembrano sussurrare che non esistono vite di scarto – soprattutto non esistono nei racconti, che con la loro libertà di invenzione e reinvenzione ci lasciano smarrire nelle storie, nelle fantasie, e nei piccoli mondi di ogni uomo, di ogni assalto della morte, come nel bellissimo commiato dei marinai del porto alla puttana Marietta nelle Onoranze Funebri.

Gio Taverni