Letteratura

Racconti per chi ha voglia di racconti

Chissà se ci riuscirà di mantenere la promessa di uno spazio di consigli di racconti per chi ha voglia di racconti, nel frattempo cominciamo a sentimento, e ne mettiamo in fila cinque, scritti da Delmore Schwartz, James Baldwin, Silvina Ocampo, Giorgio Ghiotti e Beppe Fenoglio. Con un invito a lasciarvi sequestrare dalla forma breve, anche da quei racconti di cui ancora non vi abbiamo parlato.
In foto: Silvina Campo, Alfonso Bioy Casares, un cane

Delmore Schwartz – Nei sogni cominciano le responsabilità

Era la musa di fuoco lungo il collo del suo allievo, Lou Reed, che – con i Velvet Uderground gli avrebbe dedicato European Son. Un uomo, insegnante e poeta che amava dire che “il modo migliore per vivere la propria vita era di consacrarla a Joyce”. Qualcuno, ancora, che, di là dal talento immenso, sarebbe morto  –isolato e depresso con la lettera di T.S. Eliot – che elogiava Nei Sogni… – sopra al cuore, ad appena cinquantatré anni, in una camera dell’Hotel Dixie. Non prima però di lasciare dietro di sé proprio quel Nei sogni cominciano le responsabilità, racconto pubblicato nel 1937 per la Partisan Review, e che avrebbe dato poi il titolo alla raccolta italiana dei suoi migliori scritti per Neri Pozza Bloom.

La storia comincia nei primi anni del novecento. L’osservatore/protagonista si trova un pomeriggio, in un cinema, a guardare un film muto – proprio lui che doveva il suo nome di battesimo al ballerino del cinema muto Frank Delmore. La scena assume connotati precisissimi: è la domenica del 12 giugno 1909 e suo padre sta percorrendo le strade tranquille e silenziose di Brooklyn per andare a trovare sua madre. È la successione delle scene a far capire allo spettatore – e al lettore – che le immagini che il pubblico in sala osserva sullo schermo, altro non descrivono che l’incontro decisivo tra i suoi genitori e – insieme – l’irreparabile prima mossa di una partita a scacchi che porterà alla sua futura nascita.

Delmore Schwartz stringe se stesso e il suo protagonista – e noi con lui/loro – nello spazio angusto di una sala cinematografica tra lo schermo piatto da cui è impossibile distogliere lo sguardo e le poltrone, i palchi, le platee, costruendo, così, una scenografia sempre più claustrofobica attraverso un labirinto senza alcuna via di fuga fino a un crescendo – a tratti insostenibile e angosciante – che si fa specchio dell’ineluttabilità del proprio destino.

«Cosa fanno? Ma lo sanno cosa stanno facendo? Se ne rendono conto? Perché mia madre non raggiunge mio padre? Se non lo fa cosa sarà di lei? E mio padre, lui sa cosa sta facendo?» Ma la maschera mi ha afferrato per il braccio e mi trascina via, e nel trascinarmi via dice «E lei? Cosa fa Lei? Non lo sa che non può fare tutto ciò che vuole?»

Fabio Mastroserio

James Baldwin — Going to Meet the Man

Se c’è stato un autore statunitense che ha saputo analizzare la Colour Curtain americana, cogliendo e dando voce alle sofferenze degli oppressi ed enunciando allo stesso tempo le profonde contraddizioni e idiosincrasie degli oppressori, è senz’altro James Baldwin. Il suo racconto Going to Meet the Man rappresenta forse il punto più ricco e complesso del pensiero baldwiniano. Il racconto si apre con Jesse, sindaco di una cittadina del Sud degli Stati Uniti, che nel tentativo di avere un amplesso con la moglie, si scopre impotente. Steso a letto, frustrato dalla sua impotenza che rappresenta una sinistra minaccia alla sua mascolinità, Jesse inizia a rivangare episodi del passato che riguardano la violenza esercitata su persone afroamericane per mano sua, in quegli anni caldi per il Civil Rights Movement nel profondo Sud. In una sorta di Bildungsroman al contrario, il protagonista ricorda un linciaggio a cui prese parte quando aveva solo otto anni.

Il linciaggio di cui scrive James Baldwin si ispira a un fatto realmente accaduto nel 1916 a Waco, quando Jesse Washington, un bracciante afroamericano di soli diciassette anni, accusato dello stupro e dell’assassinio della moglie del suo datore di lavoro, fu trascinato davanti al municipio e, davanti a una folle di diecimila persone, fu castrato, gli furono mozzate le dita e per ore fu abbassato e risollevato sopra un falò. Nemmeno nella morte il suo corpo trovò pace e un senso del sacro: ciò che rimaneva di quel cadavere carbonizzato fu trascinato per le strade della città, in una parata grottesca intervallata dalle urla di giubilo della folla. È attraverso questo climax di reminiscenze che Jesse ritrova la sua erezione, sveglia la moglie addormentata e torna a essere uomo. In sole venti pagine, l’autore racchiude tra le righe la tragedia di una nazione basata e condannata al mito della supremazia maschile bianca: è attraverso la mortificazione e la demascolinizzazione del corpo dell’uomo nero, che l’uomo bianco-Jesse trova conferma della sua mascolinità, e in ultima istanza della sua superiorità. È il racconto di Baldwin che, senza risparmiarsi dai dettagli più grotteschi e violenti, risuona ancora inquietantemente attuale. Nel 1916 a Waco, ancora nel 2020 a Minneapolis, Louisville, Kenosha.

Sara Deon

Silvina Ocampo — La lezione di disegno

Era da tanto che volevo scrivere di Silvina Ocampo, poetessa, autrice di racconti, romanzi e traduttrice. Nella raccolta Un’innocente crudeltà (La Nuova Frontiera editore, traduzione di Francesca Lazzarato), c’è un racconto che mi piace molto: è La lezione di disegno, un incontro notturno, nel buio di un appartamento, tra la voce narrante, alter ego della scrittrice, e la sua parte bambina. La protagonista si sveglia in piena notte per dei rumori nel salone, si alza a tentoni e raggiunge la camera: qui si trova davanti una ragazzina, come fosse l’evento più naturale del mondo. La tensione iniziale del lettore, dovuta al trambusto in casa e alla sensazione che stia per accadere qualcosa, non si scioglie con la comparsa della piccola e accompagna il confronto tra la padrona di casa e l’intrusa, che dice di chiamarsi Ani Vlis (anagramma di Silvina). La bambina ha in mano un carboncino, fissa i quadri presenti nella stanza, inizia a fare domande. Sa già quel che c’è da conoscere della sua interlocutrice: sa del suo passato e della sua passione per il disegno, di come si è evoluta nel tempo. Ha da ridere sulla tecnica acquisita, le rammenta ciò che ha imparato in precedenza, induce la donna a riflettere su episodi che la piccola conosce a menadito.

La spiegazione di questo dialogo non c’è, la scrittrice non la fornisce, dissemina indizi: l’anagramma, la consapevolezza della bambina rispetto alla vita della protagonista, il fatto che entrambe disegnano e si scrutano per essere certe di rispondere ciascuna alle aspettative dell’altra. Al centro di questo confronto c’è la concezione dell’arte (si parla del disegnare, ma potrebbe trattarsi anche dello scrivere). Dice la voce narrante: “Ci ho messo troppo a rendermi conto del fatto che la realtà non ha niente a che vedere con la pittura”. L’allucinazione, il sogno, le proiezioni mentali sono parte integrante della rappresentazione artistica: la razionalità non fa parte della ricerca narrativa della Ocampo, rappresentante a pieno titolo del realismo magico. Questo racconto è una traccia di questa appartenenza e della maestria della scrittrice che della narrativa breve ha fatto la sua cifra.

Marina Bisogno

Giorgio Ghiotti — Erbacce

“D’inverno il giorno muore presto, senza tramonto. Qui prima c’è il giorno e poi è già subito notte. Un giorno ch’è già notte Lorenzo mi dice che sono grande abbastanza, che a sedici anni è giunto il momento. Io so cosa sta per accadere, così lo seguo come mia nonna ha seguito nostro Signore quando se l’è portata via tre anni fa.”

Ho letto un racconto e ci ho trovato dentro un film. C’era Roma, il gazometro, le sfide e le corse in motorino, i baretti, le spade, le atmosfere da anni Ottanta. E, ancora, una sorta di iniziazione alla vita vera, quella dei grandi, che poi chissà dov’è che va a finire. Magari in un ascensore come quella di Milena, che cercava il cielo, o come quella della nonna che ha seguito il Signore. Quel racconto si chiama Erbacce e lo si incontra quasi subito leggendo i dodici che compongono la raccolta Gli occhi vuoti dei santi, scritta da Giorgio Ghiotti e pubblicata da Hacca.

Di sicuro, tra tutte, questa storia mi ha ricordato un po’ il cinema di Claudio Caligari e il suo Non essere cattivo, ma c’è di più. Mi ha lasciato qualcosa addosso. C’è un profondo attaccamento ai simboli, a quegli ostacoli che alla fine fanno inevitabilmente parte dell’esistenza di tutti e quella presenza impossibile da scacciare che è la morte. Le Erbacce siamo noi. Sono i ragazzi che si raccontano senza mai fermarsi in questa storia, sempre dietro al qui e ora, a quello che succede al momento, schivando gli adulti e gli imprevisti. Poi succede che sopraggiunge un ordine inaspettato e tutto cambia. I totem che ci eravamo creati non esistono più, sono stati cancellati in pochi secondi e la realtà ci sbatte in faccia e fa male. Erbacce non è solo un racconto bello vivido di fatti adolescenziali più o meno vicini. Come da titolo, è una storia che si attacca alle suole delle scarpe ed è capace di farti inciampare quando cammini. Un racconto a cui ripensare anche giorni dopo averlo letto, in cui Ghiotti scrive molto bene di storie che sicuramente conosce, per via personale o letteraria, e da cui è inevitabile lasciarsi trasportare.

Federica Guglietta

Beppe Fenoglio — Qualcosa ci hai perso

Beppe Fenoglio ci ricorda che si può ancora fumare e fare l’amore pure durante una guerra. È pure qui che sta la sua bellezza. Ci ricorda che siamo ancora esseri umani fatti di debolezze e carne, che qualche volta le sigarette inglesi fanno tossire, che si può ancora andare al cinema a vedere film pure mentre fuori si consuma un massacro, che con la stessa sorpresa di Milton anche noi per un attimo ci domandiamo: “i cinema… funzionano?”, ma ce ne facciamo subito una ragione quando Paola risponde: “e perché dovrebbero aver smesso di funzionare?”. Che una giovane donna può ancora camminare felice fino alla città occupata dal nemico, solo per andare a vedere un film. Rischiarsi, concedersi a Milton, senza sapere che fine lui farà all’indomani.

Per i due protagonisti del racconto l’avventura di una notte è prendersi una pausa, respirare. E così Qualcosa ci hai perso è come uno scatto fotografico nel mezzo del delirio, uno squarcio che sovverte quello che c’è di quotidiano delle giornate. “L’abbiamo fatto abbastanza presto” dice lei a un tratto; “Non abbastanza presto, in rapporto ai tempi in cui viviamo”, risponde Milton chiudendo il discorso – qualunque cosa fossero le “regole” di ieri sono saltate dentro il combattimento, le fughe, la paura di finire ammazzati, il fiato sul collo. C’è qualcosa nel realismo di Fenoglio che conquista all’istante. Forse i dialoghi, la sua voce, la vita carogna là fuori, chi lo sa. Quello che succede è che gli riesce di rivelare quanto siamo esseri umani fragili e spaventati, assaliti da memorie di piazze, e musica che veniva fuori dalle radio che “quelli di Alba” hanno poi rubato. Dobbiamo ammazzarli tutti, ripete il sovversivo Milton che ancora non ha ammazzato nessuno e preferisce muoversi a piedi, perché le macchine sono trappole, e a ogni metro della vita di un uomo e di una donna può esserci una trappola. Senza questa consapevolezza qualcosa si finisce per perderselo.

Gio Taverni