Letteratura

Rompere col canone della letteratura (anti)razzista

Dal 1966, il 21 marzo si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Recentemente, proprio in vista di questo evento, La Rete 21 Marzo proponeva sui suoi canali online un template dove consigliare cinque letture antirazziste, dalla narrativa alla saggistica. Tra le risposte ripubblicate, oltre a Franz Fanon, Toni Morrison, Alice Walker e molti altri, compariva Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Lo scorso mese negli Stati Uniti e in Canada si festeggiava il Black History Month, esaltando l’importanza di persone, eventi e opere nella storia della diaspora nera. In Italia, in una nota catena di librerie, veniva apposto in entrata uno scaffale con le letture consigliate per questi ventotto giorni: tra Angela Davis, la biografia di Malcolm X, Zadie Smith, Colson Whitehead e il recente caso letterario Chiaroscuro di Raven Leilani, spuntavano due libri evidentemente fuori luogo: The Help di Kathryn Stockett, titolo problematico che ha ispirato l’altrettanto problematico adattamento cinematografico del 2011, e il capolavoro di Harper Lee.

Emerge allora un quesito: che attualità ha ancora un testo come quello di Harper Lee, scritto negli anni Sessanta da un’autrice bianca, in un mese che mira a esaltare le voci di autori e autrici afrodiscendenti, spesso oscurate dalla supremazia della cultura egemone bianca? E perché riproporlo sordamente dopo un annus horribilis come quello appena trascorso, che ha esasperato all’attenzione pubblica la violenza della polizia e dello stato contro i soggetti marginalizzati, realtà che non si è mai arrestata e che fino all’omicidio di George Floyd è stata perlopiù ignorata nel dibattito mainstream?

È necessario interrogarsi sul perché quel titolo, tra altri scritti da autrici e autori afrodiscendenti, risulti fuori luogo, e implica l’importanza di mettere in discussione un canone letterario che incensa nel 2021 un’opera di narrativa che, fin dalla sua uscita negli anni Sessanta, è stata a più riprese criticata e dissezionata da individui e movimenti sociali che non credevano nella voce antirazzista dell’opera e, anzi, si sentivano esclusi e distorti in una narrazione amata universalmente da bianchi. Per esemplificare ulteriormente l’investimento emotivo che i lettori bianchi hanno con la piccola cittadina finzionale di Maycomb, in Alabama, e la famiglia Finch, basta riflettere sulla reazione al suo seguito, uscito nel 2015, Va’, metti una sentinella [Go set a Watchman]: l’apparente metamorfosi di Atticus Finch in un razzista non ha stupito granché quegli studiosi, intellettuali, giornalisti e attivisti neri che già si erano pronunciati a riguardo fin dall’uscita del suo best-seller nel ‘62, mentre i lettori bianchi hanno reagito in maniera tanto irrazionale quanto prevedibile: fingendo che non sia mai esistito, adducendo l’abbruttimento del personaggio di Atticus Finch al tracollo mentale e senile dell’autrice, o a una manipolazione editoriale. A chi ha parlato di un avvelenamento irreversibile dell’eredità letteraria e culturale di Harper Lee e di tutto ciò che Atticus Finch ha rappresentato per milioni di lettori, viene da chiedersi se davvero l’Atticus Finch del sequel non sia una naturale evoluzione di quello ne Il buio oltre la siepe, dove anzi si potevano già intercettare i primi prodromi di un razzismo forse meno apertamente esplicito di quello di Bob Ewell, apogeo della “feccia bianca” razzista e retrograda nel romanzo, ma non per questo meno complice. D’altra parte, non è sul presunto sequel ma proprio ne Il buio oltre la siepe che l’avvocato più amato d’America, interrogato dalla figlia Scout su Walter Cunningham, uno degli uomini che aveva cercato di linciare Tom Robinson, le risponde che Cunningham è fondamentalmente un buon uomo, che ha solo dei punti deboli come del resto tutti. Come ha scritto il professore di diritto Monroe Freedman, sarebbe dunque solo un caso che il punto debole di Cunningham sia un odio omicida verso i neri. In un altro episodio, Atticus racconta al figlio Jem che la loro vicina, la signora Dubose, rappresentata nel libro mentre urla insulti razzisti ai suoi figli dopo avere scoperto che il padre avrebbe rappresentato Robinson al processo, è una gran donna, una delle persone più coraggiose che abbia mai conosciuto. Finch ammonisce i figli dall’inimicarsi il signore Cunningham, la signora Dubose, e parte del vicinato che fino a dieci anni prima promuoveva le attività del Ku Klux Klan, a prescindere dall’esito del processo, adducendo al fatto che nonostante tutto sono parte della comunità e dunque amici. Tuttavia, è proprio questo uno degli aspetti più torbidi della personalità di Finch: seppure non sia apertamente razzista come i suoi vicini – e amici –, il suo è un atteggiamento assolutamente accomodante nei confronti dei loro exploit di razzismo. Ma la gentilezza o l’essere politicamente corretti verso i vicini razzisti non riduce il razzismo, né prova a decostruirlo: piuttosto, rendendosi complice silente, lo aumenta. Con la differenza che se riconosciamo immediatamente questi due personaggi come gretti e razzisti, Atticus Finch viene invece elevato al grado di campione di valori liberali. Eppure i primi, e il razzismo emanato dalle loro parole e dai loro atteggiamenti, prospera proprio grazie alla tacita complicità di persone come Atticus Finch.

Una scena dal film “Il buio oltre la siepe”

A onore del vero, le circostanze editoriali di Va’, metti una sentinella sono state al centro di un’accesa polemica: in realtà, il libro sarebbe stato il suo primo manoscritto, precedente di un paio d’anni al suo capolavoro, ma sarebbe stato rifiutato da un editore che l’avrebbe rindirizzata a focalizzarsi sulla giovane Scout come protagonista e a rimodulare le vicende raccontate. Non sarebbe stato pensato come un sequel, dunque, bensì un testo antecedente dimenticato in una cassetta di sicurezza, per essere scoperto da Tonja Carter, legale di Harper Lee. Numerose domande sono state sollevate sul consenso dell’autrice, ormai anziana e in salute precaria, rispetto alla sua pubblicazione ma, al di là del dibattito editoriale, ciò che è di particolare interesse è stata la reazione dei lettori davanti a un cambiamento così repentino e drammatico per la figura dell’eroico avvocato Finch, e cosa questa riveli sui lettori bianchi e il rispettivo approccio alla narrativa antirazzista statunitense.

Il buio oltre la siepe, infatti, ha venduto 40 milioni di copie in tutto il mondo dalla sua pubblicazione nel ’62, ed è lettura obbligatoria prevista nei curricula statunitense del 70% delle scuole americane. Tuttavia, come sottolinea eloquentemente la scrittrice Roxane Gay in un articolo polemico nel New York Times, qualità e ubiquità non sempre coincidono.

La storia ormai è nota a grandi linee anche a chi non ha mai letto il libro di Harper Lee o visto l’adattamento cinematografico con Gregory Peck: è un romanzo di formazione che segue Scout, la figlia dell’avvocato Atticus Finch, e le sue avventure col fratello Jem in un paesino dell’Alabama negli anni Trenta della Grande Depressione. Attraverso Scout seguiamo la storia di come suo padre abbia deciso di difendere in tribunale Tom Robinson, un uomo nero accusato falsamente di avere stuprato una donna bianca, Mayella Ewell.

Se Scout emerge alla fine del romanzo come uno dei personaggi femminili più appassionanti della letteratura statunitense del Novecento, è difficile attribuire uno spessore psicologico altrettanto approfondito agli altri personaggi del romanzo, in primis lo stesso Atticus Finch. L’avvocato è l’antenato archetipico del white savior: una narrazione che pone al centro il soggetto bianco come il salvatore che aiuta uno o più soggetti razzializzati, in un’ottica più di auto-compiacimento e di auto-rappresentazione come caritatevole, anziché di concreto aiuto del soggetto rappresentato come “altro”. Dalla sua simbologia nelle immagini dei gruppi di volontariato bianchi in Africa, raccontata e analizzata in un post della scrittrice e attivista femminista italo-ghanese Djarah Kan, fino al suo immaginario diffuso nel cinema e nella letteratura, il complesso del salvatore bianco è fortemente dannoso, poiché svuota i soggetti marginalizzati della propria voce e potere di auto-determinazione, rappresentandoli con toni pietistici e infantilizzanti.

Angela Davis

Un altro rischio è la natura revisionista di questo complesso: cancella il protagonismo di donne e uomini afrodiscendenti nella resistenza, nel movimento abolizionista e anti-linciaggio; basti pensare all’eliminazione nel discorso pubblico dell’ingente contributo femminile nella causa abolizionista. È così che la cultura egemone, bianca e razzista, maschile e maschilista, riscrive la storia: includendosi per eccesso laddove aveva un ruolo ben più ridotto, ed escludendo e riducendo al nulla il contributo delle altre forze sociali, in primis donne e persone di colore. D’altra parte, c’è il rischio da cui ammoniva Angela Davis di rappresentare la storia e i grandi processi socio-politici come opera di singoli eroi ed eroine: nonostante l’innegabile contributo per la causa antirazzista, antisegregazionista e anticolonialista di figure come Nelson Mandela, Martin Luther King, Malcolm X, Harriet Tubman, non dobbiamo dimenticarci da un lato il contributo comunitario alle loro spalle, l’importanza dunque di porre l’accento sul carattere sempre collettivo di questi risultati, dall’altro evitare l’idolatria del singolo a scapito della comunità che l’ha sostenuto, perché è solo attraverso la coalizzazione e la creazione di una comunità e di un movimento che si può ottenere un vero cambiamento. Scrive Davis nella raccolta dei suoi discorsi La libertà è una lotta costante (edito in Italia nel 2018 da Ponte Alle Grazie):

“Caludette Colvin si rifiutò di cedere il suo posto sull’autobus prima che lo facesse Rosa Parks. Venne arrestata prima di lei. Capite, pensiamo in maniera individualistica, e presupponiamo che solo individui eroici possano fare la storia.
Ecco perché ci piace concentrarci sul dott. Martin Luther King, che fu sì un grande uomo, eppure, dal mio punto di vista, la sua grandezza sta proprio nel fatto che imparò da un movimento collettivo. Si trasformò grazie alla relazione che stabilì col movimento. Non si percepiva come un singolo individuo che stava portando la libertà alle masse oppresse.”

Eppure, ritornando al romanzo di Lee, se dell’eroe Atticus Finch abbiamo l’immagine di un uomo che si attiva contro un’ingiustizia più simile a un concetto astratto che riconoscibile e individuabile in un razzismo sistemico prodotto e riprodotto dallo Stato, i personaggi neri – che sono principalmente Tom Robinson e la domestica dei Finch, Calpurnia –, fungono meramente da oggetti di scena, figure dell’alterità sui quali i personaggi bianchi proiettano i loro timori e sentimenti. In The Soul of Black Folk (1903), W.E.B. Dubois parla di un “velo”, una metafora che indica la barriera distorcente attraverso cui i bianchi guardano i neri, che finisce per ledere la consapevolezza anche di questi ultimi, incapaci di vedersi o immaginarsi al di fuori dello sguardo bianco. Sebbene il processo a Tom Robinson sia al centro del romanzo, della sua vita privata si sa poco o nulla, a riprova della presenza sua e di Calpurnia come meri dispositivi narrativi, funzionali allo sviluppo della storia – o meglio, delle storie dei personaggi bianchi, da Scout, Jem e Atticus Finch. Sono privati di una dimensione umana e tridimensionale, è stata negata loro una storia, fatta di passato e presente. Atticus Finch si scaglia contro un’ingiustizia di cui, consapevole o meno, è complice: la sua sete di giustizia non può che sfociare in un fallimento, perché incapace di assumere una presa di consapevolezza sulla pervasività del razzismo, di cui Tom non è un caso isolato bensì una delle disparate vittime, una delle numerose prove che il sistema funziona. Ciò che sfugge a Finch è che il caso di Tom Robinson, dall’accusa falsa di stupro a danno di una donna bianca, al tentativo di linciaggio, fino all’incarcerazione e al suo assassinio nel tentativo di evadere, è la prova ontologica che il razzismo e i suoi meccanismi non siano un episodio sporadico, ma la sovrastruttura fondamentale del sistema.

James Balwin e Maya Angelou; Toni Morrison

Ritornando al clima rovente dell’estate scorsa, in seguito alle proteste di BLM per l’uccisione di George Floyd è emerso un proliferare di liste di letture consigliate a un pubblico bianco per diventare un migliore alleato, interfacciandosi con il proprio privilegio e l’imperativo a non collaborare, attivamente o passivamente, a un sistema che marginalizza, brutalizza e uccide le persone percepite come non bianche. Con un focus maggiore per la saggistica, i denominatori comuni dietro questi consigli di lettura sono le tematiche di razza, privilegio bianco, brutalità della polizia e il definanziamento delle forze dell’ordine, il complesso carcerario industriale e molto altro ancora: da The New Jim Crow: mass incarceration in the Age of colorblindness di Michelle Alexander, a Why I’m no longer talking to white people about race di Reni Eddo-Lodge, da Between the world and me di Ta-Nehisi Coates a The fire next time di James Baldwin.

Tuttavia, oltre alla saggistica, è stato posto l’accento anche sulla cruciale possibilità educativa della narrativa, altrettanto determinante per decolonizzare il proprio sguardo e la cultura dominante. Poiché la risposta alle criticità mosse a Il buio oltre la siepe concerni la rappresentazione e la riproposizione di stereotipi sono state spesso ricondotte all’essere “un prodotto dei suoi tempi”, stupisce doppiamente che ancora oggi si privilegi questo testo rispetto ad altre opere sue contemporanee. Infatti, il danno sta proprio in questa affermazione: “è il prodotto dei suoi tempi” suggerisce che in quei tempi non ci si potesse aspettare nulla di più approfondito o critico rispetto al razzismo imperante negli anni Sessanta (quando il libro è stato scritto, benché ambientato negli anni Trenta), un momento storico di esplosione del razzismo istituzionalizzato, ma anche uno snodo cruciale per il movimento per i diritti civili, il Black Power Movement, le Black Panthers e il femminismo nero.

Se una consapevolezza concreta della sistematicità del razzismo sembra perlopiù assente nella penna di Harper Lee, c’erano scrittrici e scrittori a lei contemporanei che in quegli stessi anni hanno trasposto in letteratura le esperienze in prima persona di donne e uomini afroamericani, mostrando che i Tom Robinson e le Calpurnia degli Stati Uniti di quegli anni una voce ce l’avevano, e non potevano essere silenziati o ridotti a figure sul fondale della scenografia. Il tema della violenza sessuale per mano dei padroni bianchi, le accuse di stupro pretestuose a danno di giovani uomini neri e l’utilizzo del linciaggio come affermazione ritualizzata della supremazia bianca sono centrali nelle opere di James Baldwin e Toni Morrison, tra le personalità letterarie più insigni della letteratura afroamericana e della letteratura americana in generale; un corpus letterario che non può che fare sembrare ridicolo il loro accostamento, in uno scaffale dedicato al Black History Month, con The Help o Il buio oltre la siepe. Nel ’62, lo stesso anno di pubblicazione del romanzo di Harper Lee, James Baldwin pubblica il suo romanzo Un altro mondo (edito da Fandango, 2019): un’opera jazz che segue Rufus Scott, batterista nero, in una New York separata dalla linea del colore – da un lato i neri segregati di Harlem, dall’altra i bianchi, senza distinzione di classe; nel libro, Baldwin esplora una vita esasperata dall’abbandono, che trova chiusura in un epilogo tragico. In Going to meet the man, racconto di James Baldwin pubblicato nel ’65, lo scrittore racconta il linciaggio del giovane Jesse Washington, ispirandosi a un evento reale verificatosi a Waco, Texas, nel maggio del 1916. In poche pagine, Baldwin rimuove il velo sul mito della supremazia maschile bianca, su come questa possa sopravvivere solo attraverso la mortificazione e la demascolinizzazione del corpo nero. Nel romanzo breve Se la strada potesse parlare (edito da Fandango, 2018), pubblicato più tardi, nel ’74, Baldwin ritorna sull’accusa ingiusta di stupro a danno di un giovane afroamericano, di nome Fonny. La storia viene raccontata in prima persona dalla sua compagna diciannovenne, Tish. Benché Fonny sia innocente, è riconosciuto colpevole e incarcerato, e a Tish, che gli crede ciecamente, spetta il compito di proteggere e difendere l’uomo che ama e da cui aspetta un figlio.

Oltre a James Baldwin e alle sue opere, in quegli anni scrive e pubblica diversi romanzi Toni Morrison, premio Pulitzer nell’88 e Premio Nobel per la letteratura nel ’93, il cui corpus letterario si distingue per la prosa sublime e l’intersezionalità dello sguardo e dell’analisi dei rapporti di potere e sociali. Nel ’70 esordisce col suo primo romanzo, L’occhio più azzurro (tutta la sua opera in Italia è edita da Frassinelli): ambientato negli anni Quaranta in Ohio, è la storia di Pecola Breedlove, una ragazzina nera vittima prima della sua famiglia, di chi doveva proteggerla e della società intera, che proietta su di lei l’odio razziale e il razzismo interiorizzato della sua comunità. Pecola è un personaggio tragico che rappresenta “la nerezza eccessiva” in cui nessuno vuole identificarsi, poiché nello sguardo egemonico bianco è sinonimo di bruttezza, povertà e sporcizia; la persecuzione di un ideale di bellezza bianco, necessario per liberarla dall’odio che prova per sé, la porterà alla follia. Nel ’69, un’altra grande scrittrice afroamericana, Maya Angelou, pubblica il suo romanzo-capolavoro: Io so perché canta l’uccello in gabbia (edito da BEAT, 2015), un bildungsroman fortemente autobiografico dove l’autrice ripercorre la propria vita privata in uno sfondo di razzismo, segregazione, emarginazione e abuso.

Inoltre, a ritroso, dieci anni prima de Il buio oltre la siepe, Ralph Ellison pubblicava il suo monumentale capolavoro, L’uomo invisibile (riedito il mese scorso grazie a Fandango): opera che in controtendenza col titolo ha reso visibile l’esperienza nera americana, tra il profondo Sud e Harlem. Risalendo la china della letteratura afroamericana, nel ’37 veniva pubblicato Their eyes were watching God di Zora Neale Hurston: la storia di Janie, personaggio femminile ribelle e alla ricerca del vero amore, e la sua resistenza contro la politics of respectability, emblematizzata dall’uso che in tutto il romanzo l’autrice fa del Black English, al centro di un duro dibattito tra gli altri esponenti dell’Harlem Renaissance.

Di fronte a un insieme voluminoso di titoli scritti da persone afroamericane, di cui quelli sopracitati sono solo alcuni fra i più noti, di nuovo si ripropone la domanda sul perché ad oggi ancora si privilegi qualitativamente e quantitativamente un’opera designata come “il romanzo antirazzista” nei curricula scolastici e nella cultura di massa occidentale, quando – nonostante la violenza razziale sia centrale e il motore della trama, dal processo al linciaggio evitato per un soffio, fino all’uccisione di Tom Robinson quando questo evade dal carcere – questo viene ricordato principalmente per la sua protagonista, la piccola Scout, e per una rappresentazione nostalgica tutta bianca dei bei tempi andati per le comunità di paese del profondo Sud. In Elogio del margine (edito da Tamu Edizioni, 2020), bell hooks scrive che “gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di se stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza”. Riconoscendo la lingua come luogo di lotta e affermando la propria voce anche attraverso la letteratura, è urgente riconoscere che c’è un mare magnum di letteratura antirazzista la cui penna appartiene a uomini e donne che la marginalizzazione razziale l’hanno esperita in prima persona, che hanno saputo descriverla senza distorcerla o idealizzarla, e che hanno dato voce a personaggi che la letteratura del canone aveva relegato al silenzio.