The Florida Project: la favola indipendente che racconta la crisi americana

C’è questo format ideato dalla Criterion Collection – azienda statunitense specializzata nell’home-video con un occhio di riguardo ai film d’autore – chiamato “Closet Picks”: registi ed attori entrano in un ripostiglio e possono riempire di dvd una borsa. Alcuni fanno letteralmente man bassa, senza guardare in faccia nessuno. Altri come Sean Baker spiegano il perché di ogni scelta: nell’ episodio dedicatogli, non sorprende la scelta di Kes di Ken Loach, aggiungendo che presto girerà un film con protagonisti dei bambini anche lui. Ed ecco in sala The Florida Project, qui da noi uscito con il titolo Un sogno chiamato Florida, film reduce di una candidatura ai Golden Globe e agli Oscar per il miglior attore non protagonista a Willem Dafoe. Il regista americano è uno degli indipendenti duri e puri che negli ultimi anni si è fatto conoscere con film come Starlet – storia di amicizia tra una vecchia signora e una giovane aspirante pornoattrice, una rilettura contemporanea di Harold e Maude – e Tangerine – a metà tra un on the road movie con tematiche lgbt e un film natalizio peculiare come solo il Natale in California può essere. Ma è con questo film che ottiene la consacrazione in tutto il mondo.

Orlando, Florida. Seguiamo le vicende della piccola Moonee (Brooklynn Prince), una bambina di sei anni molto irrequieta, nel periodo delle sue vacanze estive. Vive insieme alla madre Halley (Bria Vinaite) al Magic Castle, un motel nei pressi del Disney World Resort, gestito da Bobby (Willem Dafoe), “angelo” custode del posto.

I fatti narrati nel film si ispirano ad un fenomeno molto diffuso in Florida (e non solo), ossia quello dell’ “hidden homeless”, il senzatetto nascosto. È una condizione di vita in cui molti americani si sono ritrovati in particolar modo dopo la crisi del 2008: non avendo più una dimora fissa, sono costretti a vivere in stanze d’albergo pagando l’affitto giorno per giorno, spostandosi eventualmente in motel più economici. Partendo da questo presupposto, ci si aspetterebbe come location del film un motel squallido, un po’ sinistro – alla Psycho – con un guardiano insofferente ed uno stagno al posto della piscina. E invece tutto al Magic Castle disattende queste aspettative (a partire proprio dal nome): un motel colorato, pieno di persone e con un guardiano che si occupa amorevolmente e allo stesso tempo con il giusto distacco dei suoi clienti e della manutenzione. Tutto questo per un motivo semplice: ci troviamo nei pressi di Disney World, il parco giochi più famoso d’America e quelli che dovevano essere alloggi temporanei per i residenti del parco diventano le case di famiglie sul lastrico. Tutto ci ricorda un luna park, dai nomi dei motel e delle strade (Future Land Inn, Seven Dwarfs Lane) all’aspetto dei chioschi del gelato. Ma non siamo nel parco divertimenti: quello che Bobby fa dipingendo le mura del motel di un viola accattivante è cercare di salvare le apparenze.

Quello che fanno Moonee ed i suoi amici è crearsi un parco giochi personale non potendo andare ovviamente a Disney World. In questo sono ovviamente aiutati dall’aspetto fiabesco del Magic Castle: ecco che la stanza del generatore della corrente diventa un luogo proibito nel quale entrare di nascosto, una vecchio rudere abbandonato diventa la casa dei fantasmi, spiare una vecchia residente in topless diventa un momento di ilarità collettiva. Moonee rappresenta piuttosto bene le persone che abitano nel motel: la scelta del suo nome ci porta a riflettere su due aspetti fondamentali del contesto in cui vive. Innanzitutto, il motel è popolato da persone che tentano di “sbarcare il lunario”, Moonee e sua madre compresa. Per loro diventa difficile pagare anche un giorno di affitto: Halley sarà costretta a fare di tutto pur di guadagnare dei soldi, cercando anche lei di salvare le apparenze con la figlia e portando i problemi alla dimensione del gioco, ridimensionandoli. L’osceno rimane fuori dalla scena e Baker riesce a creare dei momenti molto intensi giocando proprio con questo fuoricampo. Moonee e i suoi amici dalla loro cercano invece di “sbarcare sulla luna”: in fondo anche loro andrebbero volentieri a Disney World ed invece cercano di fuggire come possono dalla realtà dei fatti, rimanendo vincolati ad essa e diventandone il riflesso (sono bambini pieni di fantasia, ma capaci di azioni e di un linguaggio tipico degli adulti).

Nell’ultimo film di Woody Allen, Wonder Wheel, troviamo una famiglia che vive invece all’interno di un luna park, quello di Coney Island. C’è un’immagine ricorrente per tutto il film: un bambino che appicca incendi e si rifugia dalla realtà andando al cinema, lontano dal parco divertimenti e dai problemi familiari. Ora, quella che sembra la rappresentazione di un giovane Allen, è ancor più interessante se paragonata a The Florida Project: anche qui i bambini hanno in qualche modo a che fare con un incendio provocato da loro. Moonee (dopo una serie di eventi) alla fine proverà a fuggire con la sua miglior amica, dirigendosi in un solo luogo possibile: Disney World. Il finale rimane aperto: Moonee troverà riparo e sarà al settimo cielo di essere finalmente lì – in inglese “to be over the moon” – o non risolverà nulla?

Ecco che Wonder Wheel ci torna utile: quello che Allen non ci dice nel film è che negli anni quaranta, una serie di incendi dolosi (senza un colpevole al quale attribuirli) resero inagibile il parco di Coney Island. Quest’informazione che motiva l’immagine ricorrente del bambino piromane, può suggerirci una risposta anche al finale del film di Baker: Moonee va finalmente a Disney World, ma i problemi che l’attendono fuori segneranno la fine del tempo dei parchi giochi per lei, dell’infanzia insomma.

Baker confeziona un film incredibile, a metà strada tra I quattrocento colpi di Truffaut e un cinema indipendente americano che più gli appartiene, quello di George Washington di David Gordon Green. Ovviamente in quest’occasione lavora con un budget più sostanzioso, ma per via della mancanza di alcuni permessi è costretto a girare la sequenza finale con un iphone (la “macchina da presa” utilizzata per girare interamente Tangerine). Un limite tecnico, ma che darà al finale una cifra stilistica ben precisa. Un piccolo capolavoro.

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