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Best Album of 2014

Quando si fa una classifica bisogna scendere a compromessi: saprai mai con certezza quale album ti è piaciuto di più e cosa ti ha conquistato davvero per tutta la durata dell’anno? riuscirai ad astrarti abbastanza dai tuoi gusti personali da essere in grado di dire sì, quest’album mi è piaciuto di meno ma merita di più del mio preferito? Riesci a restare lucido, oppure sei influenzato dalle mode, dall’alcol, dall’istinto, dal brivido e la voglia di colpire, dalle previsioni meteo che ti mettono in testa un certo umore o un certo tipo di musica piuttosto che un altro, dai testi che ti hanno fatto male, o da quella melodia che canti in testa da giorni come un bebop? Quest’anno la nostra top 30 è viscerale: non ci illudiamo che piaccia a tutti, però prendete in mano quel disco che vi eravate perduti per la strada e ascoltatelo.


30. Spoon – They Want My Soul

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Suonare incredibilmente freschi, dopo vent’anni di intransigente militanza nella galassia dell’indie rock più stradaiolo e lo-fi, può sembrare una chimera, e invece no: They Want My Soul è un disco accessibile e diretto, dove i synth di Alex Fischel rappresentano la sorpresa prorompente dell’album. I Wire si confermano ancora una volta come l’influenza più determinante nel sound degli Spoon (vedi la splendida Knock, Knock, Knock), lasciando a brani come la folkeggiante Let Me Be Mine, e la danzereccia New York Kiss, l’onere di dare nuova linfa al repertorio della band. I quarant’anni sono spesso infami, però se dopo 19 anni di radicale e onorata carriera Britt Daniel riesce a sfornare uno dei migliori dischi del 2014, non devono poi essere tanto male.

 


29. Angel Olsen – Burn Your Fire For No Witness

olsenAngel Olsen è la ragazza del Missouri che viene dalla scuola indie-folk. Con Burn Your Fire For No Witness rapisce l’attenzione internazionale, e le nostre orecchie: sofisticatissima, minimale e urlata, Angels Olsen merita di entrare nei dischi dell’anno con un album che ci fa respirare le vecchie atmosfere lo-fi del folk di inizio Duemila. Il talento di questa giovane chitarrista americana ci riporta all’eleganza di Scout Niblett, ci disorienta e infine stende a terra. C’è chi ha osato più di noi nel posizionare questo piccolo gioiellino del 2014: gliene siamo terribilmente grati.

 

 


28. Parquet Courts – Sunbathing Animal

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Quest’anno i Parquet Courts si sono sfrenati: Sunbathing Animal esce a giugno, e immediatamente rapisce l’attenzione e smuove un po’ la calma piatta di fine primavera. A Novembre ritornano con Content Nausea a firma Parkay Quarts. Quello che ci piace dei Parquet Courts è che suonano sporchi, e ci riportano a una certa scena musicale perduta, con la sincerità della voce di Andrew Savage a farla da padrone. Dal Tom Verlaine dei Television ai Pavement, fino ai Velvet Underground, ritrovare una serenità che suoni sporca oggi come oggi è difficile: ma grazie ai Parquet Courts ci siamo riusciti, e non ci è dispiaciuto affatto.

 

 


27. Mac DeMarco – Salad Days

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La chitarra di Mac DeMarco ha qualcosa di magico, ti porta a mondo nascosto, scava dentro un percorso immaginario e psichedelico. Al terzo album in solo il musicista canadese inizia a diventare una conferma, tanto lanciato con la Captured Tracks da diventare uno dei padrini dell’etichetta di Brooklyn. Con Salad Days Mac ci guida in un viaggio: questo ragazzo ha personalità, e non manca di dimostrarlo a ogni occasione. Quest’anno si è addirittura fatto arrestare durante un live. DeMarco ha tutte le carte in regola per esplodere, e forse è proprio questo l’anno in cui il suo talento è schizzato via, e il suo suono ha iniziato a diventare più corposo.

 

 


26. Glass Animals – Zaba

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Uno dei traguardi dei Glass Animals è stato quello di suonare al Jericho Tavern, reso famoso dai concittadini Radiohead. E’ proprio con Thom Yorke e soci che si potrebbe fare un rimando significativo per l’imprevedibilità di Zaba, un disco che, come la stessa band ha affermato, ha la presunzione di essere ascoltato dall’inizio alla fine, un po’ alla vecchia maniera insomma. Zaba è una foresta di suoni dove i nostri animali di vetro si muovono con delicatezza e forza esuberante, atmosfere di velluto su cui serpeggia un gusto e un’eleganza fuori dal comune.

 


25. Ben Frost – A U R O R A

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Nato in Australia, si trasferisce in Islanda, e da qui vieni fuori l’A U R O R A, per la Mute Records. Dalle colonne sonore alle varie collaborazioni (Tim Hecker, Swans), Ben Frost stavolta ci regala un album claustrofobico e violento, visceralmente bellissimo.

Basterebbe fare un solo giro su ‘Venter‘ per capire l’intero mondo di Frost: o lo adori o lo butti via. Dalle nostre parti si è guadagnato la posizione 25, ma questi son dettagli della matematica, scienza troppo precisa per avere a che fare con il ritmo.

 


24. Future Islands – Singles

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Molti ci rimprovereranno questa scelta, perché Singles altrove ha raggiunto le posizioni alte, ed è stato acclamato come uno dei migliori album dell’anno: ma davvero credete alla classifiche? I Future Islands arrivano al 2014 con un singolo, “Seasons (Waiting On You)”, che ha subito rimarcato la loro potenza, una delle migliori canzoni di questo 2014 che sui singoli è stato ricchissimo. Album prodotto da Chris Coady (che ha lavorato con Beach House, Grizzly Bear), le atmosfere ci riportano a vecchi suoni di anni perduti, con la voce di Samuel T. Herring da contraltare a battere come un tamburo. Album fisico, che regala bei momenti, e ci fa aggrappare alla speranza che ancora oggi ci sia da dire e da suonare.

 


23. Bombay Bycicle Club – So Long See You Tomorrow

BombayBicycleClubSongalbumcoverUna volta il bassista dei Bombay Bycicle Club ha detto: ”Se avessimo saputo che saremmo durati più di un paio d’anni avremmo scelto un nome migliore“. Come dargli torto, con un nome così in classifica verrà un infarto ai puristi dell’indie. So Long See You Tomorrow è complesso, frutto dei lunghi viaggi intorno al mondo del cantante Jack Steadman, raccoglie percorsi e sfumature, passando dall’electro all’indie pop. Ne esce sicuramente fuori un lavoro originale da ascoltare, dove l’eco degli anni Ottanta ritorna furente, come la spada di Damocle del ventunesimo secolo sulle nostre teste. Restiamo in attesa di cosa si inventeranno i Bombay per il prossimo album: magari un nuovo nome?

 


22. FKA Twigs – LP1

fka Tahliah Debrett Barnett ha incantato tutti quest’anno, eppure il suo album si chiama semplicemente LP1. Il singolo Two Weeks ci ha perseguitato, Pendulum non è stato da meno, e chi non ha visto ancora la copertina del suo album deve aver vissuto in un altro mondo negli ultimi tempi. Se invece siete perfettamente integrati nel vostro tempo il nome di FKA Twigs non potrà esservi sfuggito, in un modo o nell’altro il talento vocale di questa ragazza inglese è diventato un piccolo tormentone della seconda parte del 2014. R’n’b complesso, lavoro inafferrabile, trip-hop affascinante, e quel certo tocco del cantato: cosa aspettate a premere play?

 


21. Swans – To Be Kind

Swans_To_Be_KindChi lo avrebbe detto di ritrovare Michael Gira e soci in una classifica dei migliori album del 2014? Però questo To Be Kind è un turbine che sin dalla prima traccia mette in chiaro la potenza degli Swans, la forma fisica della loro musica, e l’impatto portentoso sulle nostre orecchie. Se siamo ancora qui a parlare di quanto sia meraviglioso un album degli Swans, e in forma epica lo sciamano Gira, ci sono due possibilità: non ci sono molti giovincelli creativi nel 2014, oppure sono loro ad essere ancora grandiosi? Preferiamo pensare alla seconda ipotesi.

 


20. Neil Young – Storytone

storytone-album-coverCome detto per gli Swans, anche il nostro vecchio amico Neil Young quest’anno ha dimostrato una cosa: la sua voce non se n’è mai andata via. Storytone conferma la vena creativa infinita di un genio della musica, classe ’45. Confrontare il recente lavoro di Young con i suoi capolavori mai dimenticati ci fa quasi arrossire: resta il sapore in bocca di un inevitabile calo, ma il nostro Young sa essere ancora in forma, e dimostra a tutti che quando sei Neil Young non ce n’è per nessuno. A Cesare quel che è di Cesare, a Neil quel che è di Neil.

 


19. Woods – With Light and With Love

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Risaliamo la classifica e ancora una volta troviamo un album dalle radici folk: i Woods sono prolifici sin dagli esordi, così prolifici che quest’anno anche il loro bassista Kevin Morby ha dato alla luce un album solista. With Light and With Love conferma la direzione sonora dei Woods, e una versatilità nel mischiare vecchie melodie a pezzi intensi come Moving to the Left, quasi psichedelici. Mentre nella title-track si respira quasi un’aria di improvvisazione: sia per la lunghezza che per gli echi dei Settanta disseminati in tutto il lavoro.

 


18. Adult Jazz – Gist Is

adultjazzQuesto quartetto di Leeds ha tirato fuori quest’anno un album di debutto intenso come Gist Is. Le atmosfere sognanti che si rincorrono per tutto il disco si mescolano a una leggerezza quasi jazz, in cui la voce di Burgess si incastra alla musica, a metà tra un Hamilton Leithauser ispirato e un Bon Iver che gorgheggia nel pezzo di apertura (Hum) e si apre su Springful. Gli Adult Jazz ci regalano un suono da indagare, un piccolo gioiellino da manovrare con cura, e un pezzo come Spook che cambia marcia e ci mostra tutte le sfaccettature di una band che aspettiamo al prossimo giro.

 


17. Jack White – Lazaretto

jack-white-lazarettoSempre controverso, acido, spiazzante, Jack White con il secondo lavoro solista spazia tra una varietà di generi e intense sensazioni: dalle sonorità del passato all’hip hop, dal country, al funk, al suono sporco del blues, fino alla classicità dei violini e al romanticismo delle chitarre acustiche. Tutti i testi di Lazaretto sono stati in parte ispirati da storie, poesie e canzoni scritte da White e lasciate in pasto alla polvere nel suo attico per quasi vent’anni.

Il suono del disco è quello di un ritorno alle origini del rock e del blues. Provate a cercare queste sonorità mentre lo ascoltate.


16. Cloud Nothing – Here and Nowhere Else

cloudnothingSteve Albini ci mette le mani, e i Cloud Nothing ci regalano Here and Nowhere Else. Musica per tempi cupi e duri che mescola l’attitudine dell’indie rock più puro dove le chitarre la fanno da padrone, mentre Dylan Baldi travolge e stravolge con la sua voce. Un po’ di riff sporchi ad alta velocità, che lascia tramandare un post-punk d’occasione al retrogusto slacker. Il suono dei Cloud Nothing sembra essersi affinato, i bei pezzi all’interno del disco non fanno eccezione, e così apprezziamo il fine lavorio di Albini, che è un po’ una certezza anche in tempi dubbiosi.


15. Leonard Cohen – Popular Problems

lc-pp-packshot600-enSi può restare dei fuoriclasse a 80 anni? Leonard Cohen dimostra di sì con questo nuovo album, perla preziosa per questi anni nuovi di sound meno duri. La voce diventa più roca, ricalcando quasi quella del nighthawk per eccellezza (Tom Waits): cavernosa e profonda ci guida verso i nove pezzi di una vena di cui si sentiva la mancanza. Il viaggio rauco di Popular Problems attraversa scenari luridi, i peggiori bar delle città o dei vecchi paesi, la solitudine interiore, la poesia come pezzettini di vetro che fendono la pelle, il rumore di una vecchia ballata.

Che Cohen riesca in questa titanica impresa ancora a 80 anni (l’impresa della creatività) è un piccolo miracolo che vogliamo conservare. E omaggiare.


14. Liars – Mess

messFacts are facts and fiction’s fiction: Mess è un album duro, frastagliato, denso, elettronico, danzabile e confusionario. I Liars si confermano maestri nell’arte del far casino, e con questo lavoro scompattano la matematica di WIXIW e si lasciano andare, sfrenati come la copertina che hanno scelto per lanciare il disco. Del resto in questo album c’è colore, a tratti diventa tutto fosforescente, e infiammabile: e noi restiamo succubi di una magia che ci trascina a muovere il culo. Se la top 30 deve rispecchiare i gusti della redazione un album incasinato come Mess proprio non poteva mancare quest’anno.

 


13. Aphex Twin – SYRO

FINAL MASTER SYRO DIGIPAK.inddMisterioso quanto genio del sound: Aphex Twin torna roboante a elettrizzare l’atmosfera 2014 con questo Syro che spezza la monotonia e riaccoglie, dopo 13 anni di silenzio, Richard David James tra i vate della composizione elettronica. Techno, IDM, ambient: i generi si incrociano a danno corpo a sonorità ricche, rumori spezzati, melodie urbane che trascendono la contemporaneità. Sarà difficile pronunciare a memoria i titoli dei pezzi che compongono l’album (se la tua preferita è fz pseudotimestretch+e+3 può essere complesso riferirlo a qualcuno), ma questo non ci scoraggia da mettere su l’album a tutto volume e godere di tutte le sfumature che ci lasceranno caricare e scaricare a turno.


12. Micah P. Hinson – And The Nothing

Micah-P-Hinson-and-The-Nothing-650x650Poco più di trent’anni e una discografia già ricchissima di canzoni: questa è la storia del folletto folk Micah P. Hinson, al settimo lavoro con questo And The Nothing. La chitarra accompagna una voce che diventa sempre più profonda e misteriosa, ricca di racconti acustici e avventure (come non lasciarsi accompagnare, e contemporaneamente soffocare, nel viaggio verso Abilene, per esempio). Sembra quasi il reduce di una grande dimenticanza Hinson, quella del cantautore folk americano vecchia maniera. Dopo l’incidente d’auto in Spagna Micah P. Hinson si auto-proclama risorto.

 


11. Mogwai – Rave Tapes

Mogwai-Rave-TapesIl post-rock di Glasgow continua a dominare su tutti quelli dell’altrove a questo mondo. Dopo 7 album in studio e 2 colonne sonore i Mogwai, riescono ad aggiungere un ulteriore tassello al disciplinare di un genere che ormai si può dire sia definito dalle stesse pubblicazioni degli scozzesi. Rave Tapes è al tempo stesso una conferma e una variazione sul tema: il suono ne esce ancora una volta maturato, mai scontato o stucchevole. Da una band con diciott’anni di onorata (ed ininterrotta) carriera cosa si può volere di più?  Per il gruppo di Glasgow, Rave Tapes è un’ulteriore conferma, vista l’incredibile coerenza con la produzione precedente.


10. SBTRKT – Wonder When We Land

Forse il nome vi è difficile da pronunciare, ma ormai ci avete fatto l’abitudine a leggerlo e memorizzare per bene le lettere in successione. Wonder Where We Land, a tre anni di distanza dal primo SBTRKT (aka- Aaron Jerome), propone al grande pubblico suoni ancora più complessi dei precedenti lavori. Questa volta Jerome ci è andato veramente giù pesante creando un lavoro che rimane per alcuni aspetti ben fatto, che regala un ascolto distribuito su più livelli anche all’interno di un’unica traccia: ma resta un po’ di amarezza per l’occasione perduta di realizzare qualcosa di più dell’hype che aleggia attorno a lui.

 


9. Chet Faker – Built On Glass

Chet-Faker-Built-On-GlassIl nome d’arte scelto da Nicholas James Murphy (e probabilmente non è il primo James Murphy di cui abbiate sentito parlare) è uno dei giochi di parole “simpatici” più brutti degli ultimi anni. Però riesce a regalarci sul serio un album che ci fa respirare. Se vogliamo descrivere in due parole quella che è l’idea musicale di NJ Murphy, potremmo definirlo come un bianco hipster barbuto appassionato di musica nera: Built on Glass condensa la lezione della black music, dal soul all’r&b più classico arrivando al nu-soul e al pop r&n anni ’90. Chet Faker si dimostra un artista capace di dare nuove interpretazioni all’universo chillwave.

 


8. The War On Drugs – Lost in Dream

war_on_drugs_lost_in_the_dreamCon i The War On Drugs siamo stati più cattivi persino di Mark Kozelek, relegando un disco corposo e bello come Lost in Dream in ottava posizione. Sicuramente una delle uscite dell’anno, musicalmente esaltante e non ordinaria: Lost in Dream rende subito chiara una certa superiorità morale di questa band americana, che trova radici nobili nei suoni chiari di Dire Straits e Pink Floyd, senza mancare di un richiamo a Tom Petty. Sono poche le band oggi che si ispirano a una certa tradizione di suoni, rendendola perfettamente contemporanea: i War on Drugs sono riusciti nella difficile impresa di farlo, il tutto condito da bellissimi pezzi, che è innegabile definire dei piccoli capolavori. Un disco sicuramente difficile da maneggiare, ma di cui torneremo a parlare in futuro.

 


7. Tycho – Awake

Tycho_-_AwakeLa classe non è acqua, e Scott Hansen la sa manovrare benissimo. Dopo Dive, Awake trova una delle migliori descrizioni proprio nella copertina confezionata dal fotografo e designer ISO-50 (lo stesso Hansen). Il cerchio colorato da otto strisce (otto sono le traccie del disco) che man mano degradano dall’arancione al blu su sfondo bianco si può considerare il vero e proprio manifesto grafico del lavoro di Tycho. Il tutto nel segno di un minimalismo elegante e non scontato. Tycho, in questa nuova dimensione di band, sembra aver raggiunto la quadratura del cerchio tra quella scena chillwave californiana da cui proviene e un certo rock strumentale.

 


6. The Antlers – Familiars

the-antlers-familiars-300x300Durante l’inverno del 2012 Peter Silberman è a casa dei suoi genitori quando una tempesta di neve rapisce la sua attenzione e lo fa riflettere a lungo, portandolo ad un nuovo stadio di consapevolezza: intorno a questo ritrovato limbo di quiete interiore ruota tutta la scrittura dell’ultimo album degli Antlers, Familiars. Sono gli accordi in minore, le trombe gentili di Darby Cicci, l’atmosfera sognante e la voce eterea di Silberman a rendere questo release, a tratti fin troppo moody, la colonna sonora ideale di un lungo viaggio, che sia in macchina o nella vita. Per poterlo apprezzare fino in fondo bisogna sempre tenere in considerazione il complesso insieme di elementi che lo compongono e, dunque, la sua natura sofisticata.

 


5. Ought – More Than Any Other Day

ought-More-Than-Any-Other-DayI canadesi Ought debuttano con il loro More Than Any Other Day, un piccolo gioiello di post-punk dove la scena viene catturata dalle schitarrate e dall’irregolarità dei brani. Gli Ought sono in quattro e vengono da una dozzina di altri progetti paralleli più o meno conosciuti nella zona di Montreal. Sono una vera e proprio sorpresa incendiaria quest’anno: arrivano in sordina, e riescono ad emozionarci al ritmo di suoni sporchi, riff di chitarra, ritmi irregolari, urla disordinate, in cui ogni pezzo racconta un piccolo mondo di un’attitudine che ci piace. Dall’apertura di Pleasant Heart che riecheggia quasi i Battles, fino a vere e proprie scorribande sonore sospese tra la new-wave dei Television e il noise dei Sonic Youth. More Than Any Other Day è uno di quei dischi che accompagna tutto il corso dell’anno, e non stanca mai l’orecchio: praticamente perfetto.

 


4. Caribou – Our Love

caribou-our-love Our Love mette da parte il pop in stile sixties di Andorra e la dance psichedelica di Swim e recupera un’atmosfera da club, segnando una svolta decisamente più deep house. In Our Love c’è Daphni che si fonde in Caribou, le macchine che prendono il sopravvento sulla dance “suonata”. Schiacci play e lo riconosci dalla prima nota il suo stile, da quel suono boxy e dream che cresce e inonda la stanza, riempendola di un’ovatta morbida e coloratissima. Ci si potrebbe sdraiare su queste melodie e su questi beats, ci si potrebbe adagiare ad occhi chiusi, per farsi raccontare quanto semplice ed essenziale sia un sentimento come l’amore. Sentimento a cui Our Love è un vero e proprio tributo. Un disco completo e minimale, che riesce a non cadere mai nella banalità, ma si arricchisce e si gonfia ad ogni ascolto.

 


3. Sun Kil Moon – Benji

sunkilmoon_benji1 Quando hai a che fare con la creatività di Mark Kozelek sembra non ci sia scampo, perché pare infinita, una fornace che sforna pane caldo e morbido da gustare, continuamente. Benji si dipana attraverso undici pezzi corrosivi, che scavano così a fondo da non poter lasciare indifferenti: si portano dietro un mostro selvatico, un’eleganza che corrode, tutto a cura di Sun Kil Moon (in forma splendida quest’anno). La voce di Kozelek resta un riferimento per il cantautorato contemporaneo (del resto parliamo di chi ha concepito un pezzo indimenticabile come Katy Song ai tempi dei RHP), e il disco in certi momenti aumenta il ritmo portando Mark a misurarsi addirittura con la velocità del cantato rap pur di far aderire la lunghezza dei suoi meravigliosi testi alla musica. Un album complicato e geniale, che riesce a risvegliare l’assopita creatività del cantautorato contemporaneo. Se avete in mente di comporre qualcosa, prima di prendere in mano una chitarra, mettetevi ad ascoltare Mark Kozelek: uscirete meravigliati da tutte le direzioni possibili della musica. Tema centrale del disco diventa la morte, in una straziante contemplazione di personaggi che sono andati via, la piccola America raccontata alla finestra come un’immaginifica Spoon River che torna. E poi ancora l’amicizia, la frustrazione, i piccoli capovolgimenti. In fondo Mark Kozelek poi lo sa che è rimasto il più grande. E ve lo dice in faccia.


2. St. Vincent – St. Vincent

St_Vincent_artworkSin dall’inizio, St. Vincent è stato candidato a diventare uno dei migliori release del 2014 e ha tutte le ragioni d’esserlo: iridescente, fresco e denso, ben articolato e mai scontato, unisce con fluidità i punti di comunicazione tra musica e testi, costruiti con la delicata abilità linguistica con cui Annie Clark ha sempre creato immagini deliziosamente semplici e poetiche. Quest’album rappresenta il raggiungimento di una maturità a più livelli che le deriva dal naturale progredire del percorso di crescita artistica e dall’incontro con le eventualità – vedi il buon vecchio David Byrne – che l’hanno inevitabilmente portata ad evolversi. Ma per quanto sembra essersi nutrita di ogni singola fonte di ispirazione che ha incontrato lungo il suo iter creativo, la sonorità di St. Vincent è quanto mai peculiare e simile solo a se stessa. In tal senso la scelta di auto intitolare la sua opera ultima è ancor più significativa e celebrativa della certezza della propria identità. Tra chitarre, tastiere, piccole danze che condiscono lo show, St. Vincent si è reinventata per il 2014 e ha dimostrato di saper reggere alla lunga sul campo di battaglia dello showbiz. Dopo Marry Me (2007), Actor (2009), Strange Mercy (2011) e Love This Giant con Byrne (2012), non è necessario un secondo ascolto per arrendersi all’idea che questo potrebbe effettivamente essere il suo masterpiece – almeno fino ad ora.


1. Damon Albarn – Everyday Robots

Damon-Albarn-Everyday-RobotsDamon Albarn si reinventa cantautore sopraffino con questo Everyday Robots che non ci aspettavamo sarebbe maturato così tanto nelle nostre cuffie fino a diventare il proclamato disco dell’anno, dopo contrattazioni, calcoli, scontri e pugni in faccia. Il disco di Albarn è commovente, la sua voce (che coi Blur aveva celebrato la seconda fase del brit-pop) oggi sembra quasi quella di un vecchio crooner (come dice David Byrne, i crooner e i sussurratori non sarebbero esistiti senza l’invenzione del microfono). Potrebbe cullarti dolcemente, stavolta, Damon Albarn: Lonely Press Play è una dichiarazione d’amore a distanza di sicurezza, che sintetizza lo stare in disparte con cui Damon s’asseconda in copertina, seduto nell’angolino a fissare il vuoto a terra. L’album si avvale di prestigiose collaborazioni: da Brian Eno che porta il synth in You & Me, e fa il featuring su Heavy Seas of Love, a Natasha Khan (Bat for Lashes) in The Selfish Giant. Nello sconfinato mondo del musicista inglese si ritrovano tutti i fantasmi frantumati e le ossessioni che raccontano questa parte di modernità: la tecnologia che la fa da padrone in un’epoca ossessiva, ben rappresentata dall’elettronica che fa i suoi blitz nel disco. Assistere alla maturazione di un cantautore che è riuscito a confermarsi ed emanciparsi allo stesso momento, è sempre un piccolo miracolo che ci piace sostenere.

 

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