Letteratura

L’evento del Tempo | Topeka School di Ben Lerner

L’ultimo romanzo di Ben Lerner, Topeka School, edito da Sellerio e tradotto da Martina Testa, è la storia di Adam, intelligentissimo e problematico adolescente di Topeka, Kansas, figlio unico di due brillanti psicoterapeuti newyorkesi trasferitisi nel Midwest per lavorare alla prestigiosa Fondazione locale. Giunto al suo terzo romanzo, Lerner cambia registro. Abbandonata la forma del mémoire, che aveva contraddistinto tanto Un uomo di passaggio quanto Nel mondo a venire, l’autore americano ci propone questa volta un racconto che, narrato da molteplici punti di vista, ha nel tempo e nelle risonanze che lo attraversano il suo elemento centrale. Le storie del giovane Adam, tra mal di testa lancinanti e sfiancanti gare scolastiche di dibattito, danno corpo, assieme ai racconti dei suoi genitori, ad un mosaico complesso e cangiante, impossibile da ricomporre una volta per tutte. Soggetto, linguaggio e tempo sono gli idoli che alla fine del romanzo saremo costretti a riconsiderare radicalmente.

La narrazione di Lerner, però, non procede in maniera lineare né tantomeno didascalica. Topeka School, infatti, non ha paura di mettere in difficoltà il suo lettore, che proprio sul tema del tempo viene esortato a riflettere. Il romanzo, oscillando continuamente tra due figure della temporalità apparentemente inconciliabili, crea una spaccatura che, se indagata a fondo, può rivelare un campo dentro al quale si gioca l’essere stesso del soggetto e del linguaggio.

Il tempo – Due prospettive

Un primo, enigmatico, sguardo sul tempo, lo incontriamo in apertura di romanzo. Qui facciamo la conoscenza di Darren, ragazzo ‘difficile’ che ha appena colpito qualcuno con una palla da biliardo scagliata nel bel mezzo di una festa liceale. Quel lancio, quella palla, ci dice l’autore, erano da sempre lì ad attendere Darren, che non ha fatto altro che andare incontro al suo destino, a ciò che sarebbe diventato:

«Quello che Darren non riusciva a fargli capire era che lui non l’avrebbe mai lanciata, solo che l’aveva lanciata da sempre. Molto prima che quella matricola lo chiamasse coi soliti soprannomi, prima di prendere la palla dalla buca d’angolo, sentirne il peso, la levigata freschezza della resinatura, prima di lanciarla contro un buio affollato di gente – la palla da biliardo già era sospesa in aria, a ruotare lentamente. Come la luna, era lì da tutta la sua vita»

Nelle ultime pagine del romanzo le cose – e il tempo – sembrano stare diversamente. Ci ritroviamo di fronte un Adam adulto (oppure questa volta è proprio Ben a parlarci? Personaggio e autore si sovrappongono dolcemente, scivolando senza attriti l’uno sull’altro), intento a discutere al parco con il padre di un bambino un po’ troppo aggressivo: è qui che il passato di Adam/Ben vive attraverso di lui, ed in un certo senso gli è con-presente. Proprio mentre pensa di aggredire il suo interlocutore, Adam/Ben ascolta quella che sarebbe la reazione di suo padre Jonathan a quell’incontro: il papà di Adam è un pezzo di memoria che in quel momento si fa presente e coesiste con il protagonista, con la situazione, con le sue figlie e con il padre cattivo.

«il padre cattivo rispose incazzato[…]Mio padre disse: Adam, questo tizio ha evidentemente un sacco di problemi, guarda come trema[…]E anche se non sono d’accordo con lui, disse mio padre, anche se in questa situazione si sta comportando male, è vero che alla fine i bambini se la vedranno per conto loro»

A prendere corpo in questo episodio è una visione del tempo all’interno della quale tutto sembra coesistere: Adam non è fatto solo della sua storia, delle sue esperienze, è anche, letteralmente, suo padre. Un padre che, pur assente fisicamente, è lì adesso. Adam non sta ricordando: è tutte quelle cose nello stesso momento. Impossibile non pensare al cono della memoria di Bergson: piramide circolare dove il vertice, che incarna il presente, non è nient’altro che il momento più contratto di tutto il passato, e la base (e tutti i cerchi concentrici che possiamo disegnare a vari livelli d’altezza) sono questo stesso passato sempre più dilatato, più disteso, mano a mano che discendiamo verso le irraggiungibili fondamenta. In quel vertice che è l’Adam al parco, tutto il passato coesiste con il presente:

«Seduto lì al buio davanti alla parete, aveva tutte le età contemporaneamente, oppure passava di continuo dall’una all’altra, attraversando tutte le case sul lago»

Il tempo di Topeka School non è qualcosa che scorre in maniera lineare, non si dispone su una linea retta che possiamo seguire come fosse una strada lungo la quale individuare delle tappe: è piuttosto un arcipelago dove il mare non fa che spostare continuamente le isole, quasi come se tutto il passato fosse in questione ogni volta, chiamato in causa ad ogni passo, sempre rigiocato nella sua interezza.

D’altro canto, dobbiamo cercare di fare i conti con la storia di Darren e della palla da biliardo, quella palla che “era lì da tutta la sua vita”. Ma che significa che un evento è lì ad aspettarci da sempre? Non è forse questa idea, che sembra quella di un destino impossibile da fuggire, in contrasto con quanto visto prima, dove tutto il passato sembrava essere in gioco ad ogni istante, sempre nuovo? In Logica del Senso Deleuze cita un aforisma del poeta francese Joe Bousquet, che, a proposito della pallottola che in giovanissima età l’aveva paralizzato dal petto in giù, scrive: “la mia ferita esisteva prima di me, io sono nato per incarnarla”. Per Deleuze, il senso profondo di questa così tragica affermazione lo ritroviamo tutto nella distinzione che il pensiero stoico istituisce tra corpi e senso, tra stati di cose ed eventi. Se, al livello dei corpi, la pallottola trapassa la carne e la squarcia, al livello del senso ciò che ha luogo è la pura espressione di un evento che si dà sulla superficie delle cose: la ferita è da sempre là, singolarità assoluta che può incarnarsi, di volta in volta, in questo o quel corpo, in questo o quello stato di cose. L’affinità con le parole di Ben Lerner è completa: l’evento, sia esso una ferita prodotta da una pallottola, o il lancio di una palla da biliardo (che, inevitabilmente, darà luogo ad una ferita), è una singolarità che esiste fuori dal tempo, fuori dai corpi che la incarnano. È come se i corpi e le cose fossero delle curve matematiche che, nel momento in cui incontrano un punto singolare (un evento) sono costrette a flettersi: certo, non potremmo mai vedere quel punto fuori dalle curve che lo incarnano, ma quel punto esiste (o insiste) indipendentemente da esse. Ecco che si fa più chiaro il senso nel quale Lerner può dirci che quella palla, con la sua cromatura, la sua resina, era lì da sempre, in attesa di esser lanciata: è ciò che accade a fare di Darren ciò che è, molto più che il suo contrario. È ciò che accade a far di noi i soggetti che siamo: non esiste un Darren fatto e finito che deciderà di lanciare la palla da biliardo, esiste invece un lancio che darà vita ad un Darren che prima non esisteva. Ad ogni passo inventiamo la nostra curva e i nostri punti singolari, tanto quanto questi, incarnandosi in noi, ci inventano a loro volta.

Il Soggetto – Un nastro di Moebius

Topeka School allora ci porta a mettere in dubbio la realtà stessa di un Soggetto che, come radicato nel senso comune, dovrebbe dare forma al mondo: siamo abituati a pensare, sembra dirci Lerner, agli individui come a qualcosa di concluso, con dei contorni precisi, un dentro che si rapporta ad un fuori in maniera indipendente, separata, esclusa. La realtà, se guardata da vicino, sembra però essere molto più complessa: i confini tra dentro e fuori si fanno labili e finiscono per assomigliare ad un nastro di Moebius, dove il dentro trapassa continuamente nel fuori, senza opposizione. Allo stesso tempo il prima ed il dopo entrano in rapporti che assomigliano più a quelli della risonanza acustica che a quelli della linearità geometrica. Il mondo, i soggetti che lo esprimono, sembrano procedere, proprio come il romanzo, per accumulo: attraverso le storie di Darren, della Fondazione, dei suoi genitori Jane e Jonathan, dentro un costante richiamarsi di eventi, rapporti, litigi, la realtà di Adam prende corpo, per arrivare a quell’ultimo capitolo finalmente narrato in prima persona (fino ad adesso la voce del narratore e quella di Adam erano distinte), dove tempo del racconto e tempo della storia scivolano l’uno sull’altro. Ma non si tratta di un punto d’approdo: siamo solo giunti al vertice del cono evocato da Bergson, il passato nel suo momento più contratto.

È chiaro allora come le due diverse declinazioni del tempo che avevamo visto all’inizio, più che contraddirsi, siano l’una il rovescio dell’altra. Il soggetto, Adam, è l’effetto di superficie di un tempo che, lungi dall’essere pura sequenzialità logica di effetti che succedono a cause, è risonanza, rimescolamento, compresenza. D’altro canto, il senso, nel suo insistere quasi eterno (la palla da biliardo è fuori dal tempo), sconquassa qualsiasi identità, rimettendola costantemente in gioco: è l’insieme degli eventi ad inventare ogni volta un soggetto, non il contrario. Il meccanismo è quello di un tempo che si rinnova ad ogni passo, e di un soggetto costantemente aperto, indeciso, mobile, che nient’altro è se non l’espressione di un mondo. Del resto, è in questa stessa modalità che le varie componenti del romanzo stanno assieme, attraversate da una molteplicità di prospettive, di spaccature, di risonanze che assieme le congiungono e le separano. In questa incrinatura sta tanto l’apertura sull’avvenire quanto quella su un passato che non è mai storia, ma sempre riserva.

Il Linguaggio – Glossolalie

È così che incrociamo anche il tema del linguaggio, tanto caro a Lerner, che in Topeka School arriva fortissimo sotto forma di gara di dibattito scolastico, disciplina in cui Adam eccelle. La pratica dell’asfaltare (vale a dire argomentare in maniera talmente logorroica e veloce da rendere impossibile al proprio avversario qualsiasi forma di replica) trasforma il linguaggio in una massa amorfa priva di senso. Ma è dentro a quella stessa glossolalia che Adam, così come alcuni dei pazienti di suo padre, può raggiungere, nei momenti di maggiore ispirazione, una “soglia misteriosa” oltre la quale comincia “a sentirsi non tanto come se stesse tenendo un discorso quanto come se un discorso stesse tenendo lui”. Ci ritroviamo, quindi, posti di nuovo fronte alla questione del primato dell’atto rispetto al soggetto che lo mette in opera: dentro a questa soglia, in cui il discorso inventa Adam tanto quanto Adam inventa il suo discorso, sta probabilmente il segreto di un libro che ci fa vedere, in una maniera necessariamente diafana, come la sostanza del mondo e la sostanza delle nostre menti siano della stessa natura. Come, per concludere con le enigmatiche ma eloquenti parole di Deleuze, «una sola voce susciti il clamore dell’essere».


Riferimenti Bibliografici
G. Deleuze. Logica del Senso, Feltrinelli, Milano 1975
G. Deleuze, Differenza e Ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997
H. Bergson, Materia e Memoria, Laterza, Roma 2009
B. Lerner, Un uomo di passaggio, Neri Pozza, Venezia 2013
B. Lerner, Nel mondo a Venire, Sellerio, Palermo 2015