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Breve viaggio musicale da un decennio all’altro

Sfogliando gli album che quest’anno celebrano il loro anniversario a cifra tonda, ci si accorge che a 50, 40, 30 anni di distanza ce ne sono tanti che ancora ascoltiamo volentieri. Se il 1971 è stato celebrato da Apple con un documentario che racconta come quello sia stato un anno chiave per cambiare la musica, qui vi proponiamo un viaggio musicale da un decennio all’altro – un veloce ed essenziale ripasso di dischi.

1971

Un decennio prima era uscito My Favorite Things di John Coltrane, Bob Dylan e i Beatles non avevano ancora pubblicato il primo album, e avevamo da attraversare i ruggenti Sessanta musicali – il 1971 si porta ancora dietro gli strascichi di una stagione di cui sentiamo i riverberi nell’album postumo di Janis Joplin, Pearl, e nella LA Woman dei Doors che uscirà pochi mesi prima della morte di Jim Morrison. I Rolling Stones sono ancora lassù, con l’epica rock’n’roll di Sticky Fingers e una copertina warholiana difficile da cancellare dalla testa. Intanto i Led Zeppelin continuano la loro personale ricerca di rock duro in IV con allucinazioni sonore alla Baba O’Riley, e i Jethro Trull tirano fuori un classico del progressive rock come Acqualung. Sono anni in cui pure cominciamo a fare la conoscenza con la parola krautrock, con Tago Mago dei Can e l’esordio dei Faust; gli anni dell’emancipazione di John Lennon dai Beatles, che nel ’71 diventa immagine consacrata attraverso le canzoni pop di Imagine.

The Rolling Stones, Can

E sono ancora anni di cantautorato. Cat Stevens non si era ancora convertito ma sembrava già cantare i suoi inni al sacro in pezzi come Peace Train e Morning Has Broken, con un sound che è un marchio di possesso gettato sui Settanta, marchio sonoro che si fa sentire pure in Tapestry di Carole King, un disco soffice e affilato che vale la pena riscoprire perché ha ancora tanto da raccontare a distanza di decenni. Ma quell’anno è Joni Mitchell a rapire con forza le orecchie con Blue, uno dei dischi più immensi del suo repertorio e tra le vette artistiche di sempre, dove Joni usa la voce come uno strumento. E parlando di voci indimenticabili c’è pure quella di Leonard Cohen, che nello stesso anno fa uscire uno dei suoi dischi più belli – e a dire il vero Songs of Love and Hate è tra i dischi più belli di tutti i tempi. Eccoli lì, Cat Stevens e Carole King, due voci che aprono un sound ipotetico (e James Taylor insieme a loro), Leonard Cohen e Joni Mitchell, due grandi voci dal fascino stregonico che a distanza di 50 anni continuiamo ad ascoltare. Perché ci sono dischi che invecchiano magnificamente, e a sentirli oggi non perdono un grammo di fascino.

Carole King, Joni Mitchell, James Taylor

Ma il ’71 si porta dietro anche gli strascichi e le scorie di una protesta che se un po’ aveva provato a esplodere nei Sessanta non era mai arrivata al punto di trasformarsi in un reale cambiamento nella realtà fisica di tutti i giorni. Così c’era chi continuava a cantarla quella protesta, e dagli States della canzone di protesta folk veniva fuori la voce innovativa di Gil Scott-Heron, che battendo il tempo al ritmo spoken word ci sussurrava che la rivoluzione non è di quelle cose che si vedono alla televisione, e con Pieces of Man aprirà le porte all’hip hop del futuro. Lo stesso anno Marvin Gaye tirerà fuori il suo What’s Going On, che trascinerà il soul verso memorie spezzate di guerra in Vietnam.

Marvin Gaye

In Cile intanto Victor Jara fa in tempo a cantare El derecho de vivir en paz poco prima che il golpe del generale Pinochet si porti via i sogni di una generazione e il suo corpo di cantante in protesta venga fatto a pezzi, lo stesso Cile martoriato dove quell’anno esce pure un disco postumo dell’indimenticata Violeta Parra. In Francia intanto il grande chansonnier-provocatore Serge Gainsbourg canta un nuovo corso della rivoluzione sessuale in Histoire de Melody Nelson, e insieme a Jane Birkin prende in ostaggio il senso comune. La stessa messa in ostaggio del senso del pudore provava a farla Fabrizio De Andrè in Italia con altre parole, così quando esce la sua Spoon River personale ci ritroviamo ammaliati a contemplare Un blasfemo e voliamo sulle colline con un suonatore di nome Jones.

Senza dimenticare quel ragazzo inglese che pareva venire dallo spazio e aveva appena rilasciato Hunky Dory. Una storia che durerà per tutti i decenni successivi e porta il nome di David Bowie.


1981

Tuxedomoon

Il 1981 si apre sulle macerie di Ian Curtis e dei Joy Division, nel segno dei New Order di Movement. L’inizio degli Ottanta è un’agitazione sonora che suona dark, post-punk, ultra-esistenziale, dove la new-wave sembra essersi scaricata, ha attraversato oceani come una tempesta e ha lasciato un disagio nel sottoscala. Si sente questo disagio mentre lo cantano gli essenziali Cure di Faith, o nelle atmosfere di Heaven Up Here degli Echo & The Bunnymen, e nella voce e nei suoni di JuJu firmato Siouxie and the Banshees. Ma la vera esplosione di post-punk esistenzial-disagiato ci arriva addosso coi genuini Tuxedomoon di Desire, o nell’addomesticato punk dei Wipers, che in Youth of America rallentano-accelerano i ritmi alle chitarre e ci rendono fuori una colonna sonora da cupio dissolvi direttamente dal 1981.

Brian Eno e David Byrne

Sembra che siano bastati appena dieci anni a far cambiare la sonorità del tempo, ma nel frattempo di cose in mezzo ne erano successe – e quando sei coinvolto nel tuo tempo degli stacchi, delle digressioni, non te ne rendi conto benissimo. In Dreamtime di Tom Verlaine ci sono dentro le ferite della new wave newyorkese, le scariche dei Television e i live al CBGB, così come nel rumorismo di Glenn Branca si sente risuonare la no-wave di No New York, e The Ascension ha la produzione di Brian Eno che sarà un grande protagonista degli anni Ottanta. Pure Eno nel 1981 tira fuori un album in collaborazione con un’altra grande mente musicale come David Byrne. Cosa fanno questi due giganti assieme? – qualcosa di sperimentale e azzardato, electro-world-music futurista. Del resto lì fuori c’è una scena elettronica che è ancora in primordiale evoluzione, caos nascente.

 

Kraftwerk

Per tutti i settanta i Kraftwerk ci avevano portato a bordo di un immaginario Trans-Europe Express che da Dusseldorf aveva infiammato cuori e visioni elettroniche, fino a contaminare persino il David Bowie della trilogia berlinese. A inizio anni Ottanta i Kraftwerk sono pronti a celebrare il computer, questo strano oggetto magico che si sta facendo largo nel mondo – come se volessero avvertirci che sta per arrivare qualcosa a divorarci i cervelli, e quarant’anni dopo siamo qui a ripeterci che ci avevano visto bene, ed è un sollievo sentirli cantare in tedesco e perderci nell’ignoto. Poco più in là, in Francia, Jean Michel Jarrè ci fa sospendere con il passaggio in digitale di Les Chants Magnetiques – siamo arrivati al bit, e siamo appena agli inizi. Intanto da questa parte della terra, in Italia, lo sperimentalismo sonoro trova la sua espressione più forte nel pop ecumenico di Franco Battiato.


1991

Nirvana

Ci sono ancora i cantautori?, ci si chiede nel 1991 quando esplode il grido nichilista di Smells Like Teen Spirit. Ma certo che ci sono ancora, ci diranno gli inizi dei Novanta, solo che probabilmente sono diventati più intimisti: arriverà una generazione lo-fi dalle ceneri di Daniel Johnston e della sua chitarra, così come il grunge arrivava dalle ceneri dei Melvins o del rock-noise dei Sonic Youth. Eccoci dunque all’anno di Nevermind, del non importa, della generazione in fiamme di Seattle, di quel giro di nomi che conosciamo bene, Nirvana, Pearl Jam, Temple of the dog, che si tirano dietro i suoni luminosi di Pixies e Dinosaur Jr. Eccoci alla brada incoscienza felice del 1991, quando sembravamo ancora tutti in ansia di futuro, esaltati e affamati di futuro – qualche anno dopo le facce di quella generazione se ne vanno una alla volta, e l’altro lato della medaglia della volontà di potenza americana in stile mtv esce fuori arrugginito, avvilito, smembrato. Sentiamo cantare in sottofondo una canzone dei R.E.M., sentiamo suonare la chitarra di Slash dei Guns N Roses, i sogni distorti in metal dei Metallica, mentre dal sottoscala ci arrivano i suoni carezza di My Bloody Valentine e Slowdive, e qualcuno ci dice che c’è ancora un po’ di dream in questo chiarore di inizio Novanta. Eccoli là gli eroi lontani di trent’anni fa, con i loro sogni disarmanti e la pistola avvitata alla cintura in caso di emergenza. Troppe volte ha sparato quella pistola.

Slowdive

Il 1991 è anche l’anno in cui esce di un disco esagitatamente post-rock come Spiderland degli Slint, fotografia di copertina scattata da Will Oldham – che pure in quei primi Novanta si stava preparando a suonare dalla cantina la carica a un’intera generazione indie/lo-fi. Mentre la Sub Pop stava cominciando a conoscere il grande successo, tante brade etichette indipendenti a inizio Novanta se ne andavano a caccia di suoni. I Novanta sono un’esagitazione indiependente, prima che indie diventi qualcos’altro da un modo di registrare i suoni e viversi la musica. Che sta per succedere qualcosa ne siamo appena avvisati, ma sappiamo che cos’è o ci agitiamo come inquieti Mr. Jones?


2001

Strokes

Sono gli Strokes a raccontarci in qualche modo cosa sta succedendo, con un grido di chitarra vibrante che si infila nel corpo e un disco come Is This It. Si chiamano dietro i White Stripes o il primissimo album dei National (ancora in cerca di sé stessi): il chiarore abbagliante del nascente indie-rock, l’apertura del decennio modulata dai suoni delle chitarre – talvolta scure come succederà l’anno dopo con il disco d’esordio degli Interpol, altre volte più chiare e stridenti come nel caso dei Walkmen. C’è una bella sinergia alle porte e sembra il momento giusto per creare un ideale passaggio di consegne tra l’epopea di una rivista come Rolling Stone e Pitchfork, che a mano a mano che avanza il decennio si farà portavoce di quelle sonorità dopo che la parabola del rock pare avesse trovato la sua stagione finale nel grunge, con quegli strascichi di post-rock di cui band come i Mogwai saranno tra i maggiori interpreti. Gruppi nuovi si fanno strada, e – anche se molte volte si tratta di gruppi derivativi – pare che il nuovo secolo e il nuovo millennio vogliano raccontare una storia nuova che trova un suo modo di narrarsi nel mezzo digitale, che presto aprirà le porte a una vera rivoluzione nel modo di consumare la musica.

Unwound, Aphex Twin

I Radiohead avevano dato già una prima botta al secolo con Kid A l’anno prima, e con Amnesiac continuano quel percorso di ricerca che sembra consacrarli come una delle band più influenti del periodo e – per molti – della storia della musica. Ma non sono i soli che provano a innovare. C’è l’Aphex Twin di Drukqs, uno dei dischi più importanti per l’elettronica che sempre più si farà sentire nel corso degli anni duemila emancipandosi come un vero linguaggio dei tempi. E se non è ancora il momento più fertile per l’hip hop dischi come The blueprint di Jay-Z tracceranno un solco ideale. Il Duemilaeuno in un certo senso è un anno che scava alla ricerca di percorsi nuovi, che a poco a poco si faranno sempre più chiari. Ma è pure un anno che continua a restare intimamente segnato dalle tracce gettate dal decennio precedente: gli Sparklehorse tirano fuori It’s a wonderful life, band come Low, Fugazi, Unwound continuano a suonare come sanno fare, Nick Cave tira fuori un disco come No more shall we part restando fedele al suo modo speciale di fare musica con i Bad Seeds. È un anno di svolte e nostalgie, un anno di bagliori e lente apocalissi. Un anno che si porta addosso marchi sonori come quello dei Daft Punk di Discovery.


2011

Girls; Frank Ocean

Il secondo decennio dei Duemila arriva forte come un clic di accensione con la Twisted Fantasy di Kanye West, che nel 2011 in collaborazione con Jay-Z rilascia pure Watch the Throne. È l’anno di Nostalgia / Ultra di Frank Ocean, e di nostalgie sonore modulate dal bellissimo album dei Girls, Father Son Holy Ghost. Cupe epiche nostalgie si lasciano sentire anche nei pezzi di Hurry up We’re Dreaming (M83), nell’apocalisse alla chitarra di Bill Callahan, nei suoni di Kurt Vile, nel malinconico Kaputt di Destroyer, nei sogni retromaniaci dei Fleet Foxes, che quell’anno portano in giro le loro barbe e i loro strumenti per cantare un lungo Helplessness Blues. Ma non tutto è nostalgia nel 2011, ci sono voci che provano nuove strade, percorsi di rottura. L’esordio di James Blake, il secondo album di Bon Iver, sono due tuoni scagliati sulla terra – mentre PJ Harvey tira fuori un disco complesso come Let England Shake che cresce in spessore ascolto dopo ascolto. E intorno c’è ancora tanta musica: St. Vincent non ha ancora incontrato David Byrne, e l’ultimo disco prima di quell’incontro è Strange Mercy; Panda Bear tira fuori Tomboy; Bradford Cox si conferma come una delle menti musicali più creative di quel periodo con il progetto parallelo ai Deerhunter, Atlas Sound, e un disco come Parallax. E dal mondo dell’elettronica qualcuno – Nicolas Jaar – arriva a dirci che Space Is Only Noise, lo spazio intorno è rumore.

Un viaggio del genere non può che essere breve, essenziale, esposto al rischio della parzialità – delle cose perdute per strada. Dov’è Ravedeath 1972 di Tim Hecker? Perché mancano parole per i Talk Talk di Laughing Stock? Dove sono spagnoli, giapponesi, extra-terrestri… ad libitum. 


Un altro breve ripasso in forma di playlist, per perdersi tra gli anni: