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Wattstax, funk e orgoglio afro

Tra i grandi concerti degli anni Sessanta e Settanta ce n’è uno che spesso viene sottovalutato o dimenticato. Eppure ha delle unicità che lo rendono tra i più importanti. Siamo al 20 Agosto del 1972 a Los Angeles, al Coliseum, quando poco meno di 120 mila afroamericani, sul palco e sotto, al ritmo prevalente di funk, oltre che blues, pop e rock, si ritrovano per Wattstax, quello che è passato alla storia come il “Woodstock nero”, sebbene la stampa e i media americani, in tempo reale, lo relegarono quasi a evento locale. Questo paragone, seppure importante e lusinghiero, non rende completamente giustizia all’evento. Le ragioni sociali, identitarie e di autoaffermazione, sono così profonde da renderlo uno dei Festival più radicali della storia della musica. Il nome, Wattstax, è l’unione di due entità differenti e lontane che si sono incontrate per dar vita a quel raduno. Watts è il quartiere di Los Angeles in cui, sette anni prima, ebbero luoghi feroci scontri razziali, durati per alcuni giorni, dopo l’arresto di un ragazzo nero, Marquette Frye, da parte della polizia, per presunta guida in stato di ebbrezza. Ci furono evidenti abusi e i suoi diritti di cittadino furono lesi più volte. La Stax Records, invece, è una grossa etichetta discografica, approdata, pochi mesi prima, a Los Angeles da Memphis. La Stax, oltre ad avere nella propria scuderia moltissime star nere di quegli anni, cercava di essere, sempre più, simbolo e portavoce dell’orgoglio degli afroamericani in ambito artistico e musicale. Ma ricostruiamo alcuni fatti prima di salire sul palco e scorrere la scaletta.

La rivolta di Watts

La seconda metà degli anni Sessanta, è segnata dall’esplodere di lotte, per i diritti civili, per la giustizia sociale e, generalmente per un’esistenza migliore. Molto spesso, protagonista e avanguardia di questi movimenti, è stata la generazione dei giovani, ventenni e trentenni. La musica, quella rock, folk, psichedelica e cantautorale, ne è stata la colonna sonora, consacrando a nuovi miti e icone di quegli anni, rockstar molto spesso giovanissime. In America in modo particolare, la lotta contro il razzismo e qualsiasi altra forma di discriminazione, è molto sentita. La comunità afroamericana aveva delle proprie avanguardie, combattive e carismatiche, che facevano da portavoce a quei sentimenti, con posizioni anche differenti tra loro, da Martin Luther King al più radicale Malcolm X, entrambi assassinati.

La California non è esente da tensioni e sconvolgimenti, anzi spesso ne è il centro. Watts, quartiere a sud di Los Angeles, ha una storia molto legata alle vicende migratorie della comunità afro, infatti a inizio anni Quaranta raccoglie parte delle seconda ondata migratoria interna dei neri d’America soprattutto dal Mississippi, dalla Louisiana e dal Texas. Per di più tra gli anni Cinquanta e Sessanta, buona parte degli operai bianchi si sposta da Watts verso altre parti della California, rendendo il quartiere a stragrande maggioranza nero. L’undici Agosto del 1965, iniziano giorni di guerriglia urbana, in cui, i residenti, a partire da un singolo episodio, cominciano a ribellarsi ai frequenti soprusi della polizia. Gli scontri vanno avanti per sei giorni, si contano più di mille feriti, più di tremila arresti e soprattutto ben 34 morti, oltre a decine di milioni di dollari di danni a negozi, edifici e strade, fino ai sobborghi confinanti. A partire dall’anno successivo ha luogo il “Watts Summer Festival”, una manifestazione a sfondo musicale per ricordare quei giorni di lotta contro i soprusi e per l’affermazione identitaria.

La Stax Records

Siamo a Memphis, sede della Stax, etichetta musicale, che dopo la morte di un grosso calibro come Otis Redding, cerca di riorgannizzarsi per far risplendere il funk e la black music, attirando a sé tutte le principali promesse di pelle nera del panorama musicale. Ma Memphis è anche la città in cui nel 1968 viene assassinato uno dei principali leader del movimento per i diritti civili, Martin Luther King. È un avvenimento che ha delle ripercussioni anche all’interno della leadership dell’etichetta che radicalizza sempre di più le proprie scelte, direzione che di fatto porta all’uscita dei soci bianchi della Stax, con la vendita delle azioni di Jim Stewart ad Al Bell, che a questo punto, dopo un po’ di riflessioni, decide di trasferirsi interamente a Los Angeles, ritenuta sede più idonea per mettere in campo progetti musicali, e d’impegno, a fianco degli afroamericani. Si creano così le condizioni per far confluire l’edizione del 1972 del Watts Summer Festival, in un progetto più ampio, ideato dalla Stax, che chiede e ottiene addirittura lo stadio, il Coliseum. A questo punto, Wattstax è nato.

“Il jazz è il maestro, il funk il predicatore.” James “Blood” Ulmer
Cose che si leggono sui giornali

Sempre più a ritmo di Funk

A nessuno sfugge che la Stax abbia anche mire commerciali, per ingrandirsi a pochi passi da Hollywood, ma intanto l’attenzione per il carattere ideale e popolare dell’evento è conservato. I biglietti sono venduti a un dollaro, e molti abitanti del quartiere losangelino di Watts entrano gratuitamente. Il cast artistico è interamente della Stax e ci sono nomi importanti. È la risposta a Woodstock, certo, ma è anche molto di più per un’intera comunità, andando ben oltre il valore solo artistico. Lo stadio così pieno, di persone e musica, lo immaginavano davvero in pochi fino alla sera prima.

Il Coliseum è uno stadio olimpico costruito tra il 1921 e il 1923, che ha ospitato i giochi olimpici del 1932 e in seguito ospiterà quelli del 1984. Oltre la capienza degli spalti, per arrivare al totale vanno considerati anche tantissimi altri spazi fatti di corridoi, palestre, scale e sale di vario tipo. Gli organizzatori raggiungono anche un accordo con la polizia, che si impegna a dislocare, per il servizio d’ordine, soltanto agenti afroamericani, in cambio chiederà il divieto di occupare il prato, che ospiterà soltanto il palco, tutto il pubblico dovrà restare al proprio posto sulle gradinate. L’incasso sarebbe stato investito in una campagna a favore della rivalutazione del quartiere di Watts e in altre iniziative benefiche. Come detto, meno rock e più funk.

Il rock viveva, a inizio anni Settanta, il suo passaggio definitivo e probabilmente senza ritorno, al “music business”, con le rockstar sempre più distaccate dal mondo reale, il blues originario dei neri era in qualche modo diventato patrimonio e strumento anche di formidabili musicisti bianchi, e probabilmente, proprio in quegli anni era il funk il vero portavoce dell’orgoglio afro, che raccoglieva sia varie eredità della black music che una nuova spinta, dovuta ad alcuni interpreti che ne stavano trasformando e incarnando il messaggio, talvolta innovando e politicizzando le nuove sonorità, come il caso di Curtys Mayfield, con una sorta di radicale soul psichedelico a tinte underground frutto delle prime produzioni indipendenti, raccogliendo l’idea avviata da Sam Cook, “di fare da sé”, nata dalla presa di coscienza nella seconda parte della sua carriera, sulla spinta della frequentazione con il leader nero Malcolm X. Ma oltre a Mayfield va senz’altro ricordato il contributo di Gil Scott-Heron o dei Last Poets che danno una spinta definitiva allo spoken word, al talkin blues, aprendo in seguito la strada alle migliori e radicali forme di rap e hip hop. Ma per capire meglio lo stato della musica nera affidiamoci alle parole di Ernesto De Pascale:

“L’America del 1972 era però altra cosa da quella del 1966: erano scomparsi Martin Luther King, Otis Redding, Robert Kennedy. ……Il sogno di We Can Change The World era svanito nel nulla sulle note di Jimi Hendrix, l’unico nero insieme a Sly Stone e James Brown in grado di poter guidare con la musica quel popolo ( quasi ) convinto ad unirsi ai giovani dei Campus. Ma Four Dead In Ohio avevano mandato in fumo la coalizione fra i giovani bianchi e i giovani neri. Cosa restava allora a quel popolo? Restava intatta la musica, la propria musica in una America che stava cambiando drasticamente. I bianchi però avevano fatto loro il suono della gente di colore troppo velocemente proprio mentre le nuove generazioni emigravano per la quarta volta in un secolo verso altre città: il blues nero si era diluito – ma anche ingigantito – nella musica di tanti eroi bianchi, prevalentemente chitarristi, da Mike Bloomfield a Johnny Winter, facendo poco a poco scomparire il contributo vero, radicale, dei grandi musicisti di colore di solo dieci, quindici anni prima. BB King si era dovuto far costruire una etichetta addosso (la Bluesway) per continuare a vivere bene mentre gli artisti, come quelli della Chess Records erano in balia delle onde. Muddy Waters, John Lee Hooker e i più giovani Buddy Guy e Junior Wells, si alternavano tra un marchio e l’altro. Il Soul della Motown era emigrato ad ovest, a Los Angeles guarda caso, per permettere al presidente Berry Gordy jr, al suo braccio destro Smokey Robinson e alla sua giovane amante, la prediletta Diana Ross, di entrare nel mondo della celluloide. Così facendo Gordy jr aveva lasciato, forse inconsciamente, i due veri giganti di quel marchio, Marvin Gaye e Stevie Wonder, liberi di comporre e realizzare i loro dischi migliori, quelli più completi per coscienza e contenuti civili mentre il resto della Motown basculava paurosamente. Cosa restava allora di coagulante nel mercato musicale per ridare ai giovani la fiducia nella loro pelle, nel loro ceppo, nel nome del I AM SOMEBODY di kingiana memoria?”.

È in questo contesto che la Stax si ritaglia uno spazio importante, anche se durerà poco, sarà il riferimento reale di quel fermento residuo che ancora si aggirava nei Settanta, poco prima dell’avvento della disco music. La Stax aveva anche un’altra particolarità, conservava un’ala gospel ben radicata nella propria storia e anche in quella della comunità, e per questo il reverendo Jesse Jackson, avrà un ruolo importante nelll’animare e far confluire davvero tutti in quello stadio, con il suo invito a partecipare.

Jesse Jackson a una marcia

Wattstax, il Festival

“Wattstax è uno sguardo complessivo su come i Neri Afro Americani concepivano la vita, dall’amore al sesso alla politica, ed è un report della loro condizione urbana evoluta a quel preciso stadio della storia d’America”. Mel Stuart, regista del docu-film Wattstax

Probabilmente i nomi più importanti furono quelli di Albert King, Rufus Thomas e Isaac Hayes, quest’ultimo in particolare era la vera star del momento e non mancò di farlo notare, presentandosi, sotto i riflettori, agghindato a dovere. Ma gli artisti furono veramente tantissimi, e rappresentavano le varie sfaccettature della musica nera, che, in effetti, in quel periodo, la Stax rappresentava. In scaletta c’erano gli Staple Singers, i nuovissimi Bar-Keys, autodefinitisi inventori del “black rock-funk”, e ancora Carla Thomas, Jhonnie Taylor, Jimmie Jones, gli Emotions, Eddy Floyd, solo per citarne qualcuno. Furono raccolti più di 70 mila dollari, ma cosa importante, andò tutto liscio, mentre negli altri grossi raduni rock, soprattutto dalla tragica serata degli Stones ad Altamont del dicembre 1969, erano iniziati grossi problemi di gestione a causa della crescente violenza che si manifestava.

Wattstax fu una giornata di consapevolezza, musica e gioia. Ad assimilare Wattstax a Woodstock anche il film, realizzato durante tutto il concerto, e il disco che ne raccoglie su vinile la colonna sonora, con alcuni contenuti extra, registrati in quegli stessi giorni, da altri artisti della Stax, che non avevano potuto prendere parte al live. La prima, questa del ’72, resta l’edizione più importante e significativa; ce ne saranno altre, ma nessuna avrebbe raggiunto simili livelli di coinvolgimento ed energia. La stessa Stax come una cometa illuminerà quegli anni col funk e la black music, per poi sparire, in parte assorbita dalle grosse major. Resterà un vivissimo ricordo di lunghe chiome afro che faranno tendenza, di abiti variopinti e pantaloni a zampa di elefante. Tra quelli sul palco, si ricorderà senza dubbio il completo rosa dello spettacolare Rufus Thomas, che con la sua energia scatenò la voglia di ballare a tal punto che qualche migliaio di persone, disattendendo gli accordi, arrivò fin sotto al palco durante Funky Penguin; alla fine del pezzo, il musicista, grazie ad un carisma costruito nel tempo, intimò ai “ballerini” di tornarsene al loro posto sugli spalti e non muoversi da lì “You gotta Take Your Seat and Set The Pace!”.

Una vera e proria pazzia invece l’avevano in programma i Bar Keys, che avevano in mente di entrare nello stadio alla guida di lettighe in stile Ben-Hur ma furono stoppati dall’etichetta che vedeva il rischio di oscurare la star del momento e artista di punta della scuderia Stax: Isaac Hayes. Isaac giunge in macchina fin sotto il palco, con i suoi grossi occhiali da sole, sebbene a quell’ora non ce ne fosse neanche l’ombra, e pian piano si libera di un coloratissimo mantello, e del cappello nero a tesa larga, per rimanere a torso nudo, ricoperto di catene dorate (si dice a 18 carati), prima di incantare con la sua voce. Ma oltre la musica, resta, soprattutto, un momento intenso di lotta e affermazione condiviso gioiosamente alla luce del sole, ben oltre il tramonto di quel giorno. Forse proprio riguardando indietro a quello stadio, Greg “Shock G” Jacobs, rapper e produttore, leader dei Digital Underground, nonché scopritore di Tupac, ebbe a dire: “Non si può parlare del funk senza parlare della rivoluzione nera”.