“American Head”, l’ultima uscita dei Flaming Lips, è una cartolina lisergica della provincia statunitense. Un album di ricordi e di scene di vita che affondano nella memoria del leader della band di Oklahoma City, Wayne Coyne. Gli anni giovanili nella prateria in sella a motociclette che vanno troppo veloci, tra allucinazioni di dinosauri che ballano sulle montagne e serate passate guardando le lucciole. La giovinezza forzatamente spensierata del sogno americano sotto antidepressivi di At the Movies on Quaaludes costituisce il centro e il messaggio sublimato del disco: un americanesimo ribaltato, il sogno consumista e arrivista del farcela si declina nei termini nichilisti del consumare sostanze ed il proprio corpo, alla ricerca edonistica di se stessi e della tanto promessa libertà.
L’atmosfera onirico-allucinatoria delle prime tracce apre il disco sull’idillio provinciale americano prendendo suoni e melodie della propria gioventù, tra Pink Floyd e Beatles. Dalla voce sognante di Coyne Doyle traspare la nostalgia verso (i propri) anni ’70: le droghe e l’incoscienza, l’innocenza e l’illusione che possa essere sempre così sono raccontate attraverso il filtro del tempo, con l’indulgenza amorevole che si ha verso i propri ricordi.
Anche quelli che fanno male. Col brano Brother Eye ,infatti, qualcosa cambia, il dolore per la perdita di un amico prima crea uno strappo nel cielo blu dell’Oklahoma da cui non si ritorna, bellissima e amara presa di coscienza cantata in Assassins of Youth. Nello stesso momento in cui la morte entra concretamente nel disco con Mom don’t Be Sad e con la strumentale When We Die When We’re High, quel senso di beatitudine, come di un trip fra due guanciali di chitarre psichedeliche, lascia il posto ai ritmi più serrati e cupi di sintetizzatori e pattern elettronici. Come a sottolineare l’inesorabile maturazione e l’ingresso nel mondo vero, quello delle responsabilità e del dolore, accompagnata dai latrati violenti dei cani all’inizio di When We Die When We’re High e dalla sirena e radio della polizia in God and the Policeman.
Ma se essere giovani è un sogno di un attimo, e l’american dream è una menzogna cosa rimane? A cosa credere quando il tempo ha svelato tutte le bugie dietro alle verità dette ( Assassins of youth/ even when they tell the truth/ another part of you dies/ the truth is a lie… in Assassins of Youth) ? Per i sette dell’Oklahoma la risposta sembra essere trovare qualcosa di personale in cui credere che ti tenga a galla. E se questo ti spinge a scrivere, dopo quasi quarant’anni di carriera, un album così forse possiamo dire che hanno ragione.
“I don’t need no religion/ you’re all I need/ you’re the thing I believe in/ nothing else is true/ my religion is you”.