In una recente quanto strampalata intervista rilasciata al Guardian, Ariel Pink (il cui vero nome è Ariel Marcus Rosenberg) afferma che dobbiamo dimenticare tutto, che lui “non è il ragazzo che odiano tutti” è che bisogna giudicarlo da zero, come se i vecchi dischi del freak-man di Los Angeles non esistessero e che le sue vecchie dichiarazioni (“non è illegale essere razzisti”, “i matrimoni gay mi fanno incazzare” e altre esternazioni di dubbio gusto) non fossero mai state rilasciate.
Impossibile, quantomeno per me, non storcere il naso di fronte alle “provocazioni” del pentito Ariel, ma anche volendo soprassedere di fronte a determinate opinioni “politico-culturali”, di certo non si possono ignorare anni e anni di sperimentazioni, di auto-registrazioni e forse anche di ventate di innovazione che Pink ha coltivato nel corso degli anni. la vera differenza tra le belle follie auto-prodotte e registrate in casa del periodo di “Haunted Graffiti” e questo “Pom Pom”, pubblicato dalla prestigiosa 4AD, è lo studio ossessivo per ogni suono inciso nel disco.
Difatti, Ariel Marcus Rosenberg sembra essere uscito dal periodo delle improvvisazioni che lo hanno consacrato come indiscusso re della “cassette culture” di L.A., lontano dalle batterie simulate con l’ascella di cui si rese protagonista negli anni precedenti, ma molto vicino ai suoi tipici assemblaggi di registrazioni audio, dei montaggi delle vecchie trasmissioni televisive, delle sonorità scavate nel bidone degli anni ’80 e mischiate al lo-fi duro e crudo: tutto quello che potete ascolatre in “Pom Pom” stavolta è il frutto di uno studio maniacale.
Il disco si apre con una dichiarazione di follia completa, “Plastic Raincoats In The Pig Parade”, un viaggio tra cocaina, Tokio, ragazze di Portobello e manichini a ritmo di colonna sonora da Luna Park lussuoso, in un vortice ironico, dal sapore nichilista e carico di suggestioni ma il cui senso sfugge probabilmente anche all’autore: l’apertura regala al disco la giusta chiave di lettura dell’opera e probabilmente anche del personaggio “Ariel Pink” in quanto tale.
Un’opera di proporzioni monumentali dal punto di vista delle contaminazioni stilistiche: si passa dal progressive pop di “White Freckles” agli elementi goth presenti in “Four Shadow”, dai momenti di pura sonorità anni ‘80 di “Lipstick” e “Black Ballerina” che sembrano essere presi dagli scarti dell’epocale “Tin Drum” dei Japan, fino agli afflati di hardcore urlati in “Goth Bomb” in cui Ariel Pink sembra fare la caricatura addirittura ad un giovane Henry Rollins. La sfilata di paragoni colti potrebbe continuare all’infinito ma è totalmente inutile: il lavoro di Pink è talmente variegato che dentro potremmo trovarci qualunque cosa se solo volessimo.
Una nota particolare la merita “Picture Me Gone”, uno dei singoli tratti dal disco e anche una delle canzoni più sobrie: i riferimenti agli I-Phone, all’I-Cloud e alle app, accompagnati da versi rassegnati alla criticità e alla fragilità della vita, dimostrano come le riflessioni nichiliste di Pink sull’esistenza debbano essere inquadrate e incastrate nell’era che ci circonda e che, nonostante i continui riferimenti sonori al passato, il disco si proietta nel presente con decisione. Questo no-sense esistenziale è confermato proprio da Ariel Pink nella già citata intervista al Guardian, “we’re all making castles in the sand, wonderful tapestries, an exquisite corpse. But is it meaningful? No”.
Peccato che tanta ignavia esistenziale si scontri con la contraddizione delle sonorità curatissime e studiate, dove ogni campanello, ogni voce registrata, ogni glitch, ogni coro è messo lì esattamente dove deve essere, senza lasciare nulla al caso. Forse è questa l’unica nota dolente del solido, robusto e sorprendente “Pom Pom”: la (presunta) spontaneità dell’epoca degli “Haunted Graffiti” non c’è più e quell’unicità non viene bissata in questo lavoro, che rimane comunque ottimo e interessante.