Anni fa Kent Haruf raccontava di aver ricevuto il messaggio di una lettrice desiderosa di comunicargli, in maniera solenne, che da allora in poi avrebbe smesso di leggere i suoi romanzi, colpevoli della totale assenza delle virgolette nei dialoghi. La lettera si concludeva con un augurio categorico: «Spero che lei non sia un insegnante.» Non solo Haruf ha insegnato per 30 anni, ma questa sua scrittura chiara, compatta e talmente priva di orpelli da non avere bisogno nemmeno di marcare i dialoghi, è diventata il suo segno distintivo nell’enorme successo che ha avuto come autore. Haruf stesso racconta che in principio era stata una scelta puramente estetica, talmente gli piaceva l’aspetto pulito delle pagine, ma poi gli pareva che quell’assenza creasse una tensione nei suoi romanzi; l’aveva vista, del resto, in Cormac McCarthy, in alcuni scritti di Chandler e in Faulkner, uno dei suoi eroi letterari. Non poteva essere che una scelta consentita.
Kent Haruf ha scritto per tutta la sua vita con metodo certosino e forte determinazione, e ha conquistato i lettori italiani con una costanza impressionante, da quando le sue opere sono arrivate nelle amorevoli mani di NN editore e del traduttore Fabio Cremonesi. Si chiude con La strada di casa il viaggio italiano delle storie di Haruf, non perché se ne sia mai esaurito il successo, ma perché tutta la sua produzione si chiude qui, interrotta da una malattia feroce. Siamo, ora, orfani della città di Holt, dei suoi abitanti e del solito, rassicurante senso di casa che Haruf sapeva costruire. Nell’ordine puramente cronologico di scrittura, “La strada di casa” è il secondo libro pubblicato da Haruf, Holt già esisteva in “Vincoli”, ma doveva ancora sbocciare nella conferma che è stata la trilogia: “Canto della pianura”, “Crepuscolo”, “Benedizione”. La sua è una realistic fiction saldamente ancorata al Colorado, la terra che lui tanto bene conosceva perché sua natale, in quella zona tra le montagne del West statunitense e il MidWest chiamata Great Plains, le grandi pianure nordamericane. In questa terra brulla, solitaria e sconfinata, Haruf posiziona Holt, immagine delle città che lui stesso ha vissuto da ragazzo: a due ore circa da Denver, piccola, provinciale diremmo noi in Italia, ma microcosmo perfetto per rappresentare ogni piccola comunità statunitense, con i suoi pregi e i suoi difetti. Le dinamiche di Holt sono evidenti in ogni romanzo: una comunità chiusa che mormora, emargina, ma che sa anche accogliere e che è a tutti gli effetti una metafora dell’idea di famiglia per Haruf, pericolosa trappola emotiva, ma anche salvezza inaspettata. Le famiglie nella produzione letteraria di Haruf, sono quelle di sangue, ma anche quelle improvvisate per sopperire alle proprie mancanze, si pensi a quella costituita da Victoria Rubideaux e i fratelli McPheron, o a quella di Addie Moore e Louis Waters in “Le nostre anime di notte”. Anche ne “La strada di casa” la famiglia è centrale. C’è la voce narrante, Pat Arbuckle, che racconta la sua famiglia fallimentare distrutta da una vita crudele, e quella di Jack Burdette, un pigro ex idolo di Holt diventato criminale a discapito di moglie e figli. Le vite di Pat e Jack scorrono parallele tra fallimenti, rotture ed errori nella placida Holt che li scruta costantemente, per poi inchiodarli con rabbia ai loro fallimenti. Holt non perdonerà le malefatte di Jack, né smetterà di sussurrare commenti sulla vita di Pat e Jessie, la donna contesa; e tutti loro, con cristiana accettazione, lasciano che i cittadini di Holt facciano il loro gioco. La loro vita, come quella di tutti i personaggi dei romanzi di Haruf, nasce e muore a Holt, così febbrilmente aggrappati come sono alle loro radici da sentire il bisogno di tornare in città anche dopo una rocambolesca sparizione e pesantissimi conti in sospeso.
“La strada di casa”, si diceva, è il romanzo che precede di molto la trilogia, circa nove anni, ma in esso c’è il seme non solo di Holt e della Colorado che Haruf eleva a panorama letterario nella letteratura statunitense, ma anche di quelle dinamiche umane tipicamente “harufiane”. Se ad una prima lettura Pat, Jessie e Jack, i tre personaggi chiave del romanzo, sono sconfitti e rassegnati, ad una analisi più approfondita emerge la loro resistenza, la volontà di appropriarsi in qualche modo del loro destino, accolti da famiglie inaspettate, come si diceva prima, e da conforti temporanei eppure preziosissimi. Pat, Jessie, Jack e tutti gli altri abitanti di Holt continuano a vivere imperterriti con la serena accettazione che nel mondo, e in senso più ampio nella letteratura, non ci sia bisogno solo di eroi straziati ed eterni, ma soprattutto di vite normali, sgretolate dal tempo e dall’ingiustizia, ma sempre e comunque con una personale solidità. Come dichiarava tempo fa in un’intervista il traduttore Fabio Cremonesi, Haruf è un autore stratificato per linguaggio e temi trattati, capace di generare, con la sua prosa solida e il realismo, riflessioni enormi e spesso dolorose.
Se è così, mi lasci dire, secondo me l’inferno non esiste. Non credo proprio. E non penso che si sia nemmeno il paradiso. Moriamo, ecco tutto. A un certo punto smettiamo di respirare e tutti iniziano a dimenticarsi di noi e presto arriva un momento in cui nemmeno ricordano più quello che pensiamo di aver combinato. (pag. 129)
Questa la sintesi della vita che fa Doyle Francis, membro della cooperativa agricola truffata da Jack Burdette, quando si trova faccia a faccia con Jessie Burdette, la moglie abbandonata, pronta a punirsi per espiare i peccati del marito fuggitivo. Un cinismo che non appartiene solo a Doyle, ma permea le vite di tutti, vittime sacrificali dell’etica “rurale” di Holt, dove la giustizia, nel senso più statunitense del termine, è il valore più alto e le punizioni non sono mai abbastanza. Non è un caso che Kent Haruf attribuisca un grande cogitare sulla vita e il destino ad un personaggio secondario, fa parte del disegno globale della sua narrativa realistica: « […] tutto quello che succede tra i personaggi minori deve essere comunque un valore aggiunto alla storia», fossero anche semplici conversazioni all’Holt Cafè.
Ma il realismo di Haruf non si ferma a trama e personaggi, c’è tutto un altro livello di analisi che si potrebbe definire sensoriale, una capacità di aggiungere dettagli talmente minuziosi da entrare in circolo nella mente del lettore non appena Holt viene nominata. Holt è fatta di grandi praterie, una periferia isolata, le luci tenui della sera, il sole accecante d’estate e la neve gelida d’inverno, ma anche del sapore metallico del sangue fra i denti, l’odore del caffè nero e pungente, il rumore della polvere e dei sassi che sfregano sotto la suola degli stivali, il mormorio della gente che bisbiglia o le urla durante una rissa, le foglie degli alberi che si muovono al vento e i cavalli che nitriscono durante il lavoro nei campi. Holt è tangibile, accogliente e crudele allo stesso tempo, e ora ci saluta pronta a accoglierci nuovamente ad ogni rilettura, ad ogni momento in cui il lettore accanito si chiederà come procede la vita nella cittadina del Colorado. Holt e Haruf, fra i tanti meriti, hanno quello di aver ricordato a lettori furiosi e recensori frettolosi che la consolazione della rilettura può e deve essere abbastanza. In questo mondo frenetico in cui si ha fame di seguiti, prequel e storie alternative, Haruf ancora ci insegna, a distanza di anni dalla sua morte, a leggere con lentezza e rallentare un po’, un libro alla volta, per sincronizzarci ogni volta che vogliamo coi in ritmi della sua Holt.