Berlino val bene un weekend, soprattutto se hai smesso di lavorare e sei stanco morto. Ti fiondi all’aeroporto e ti rilassi in attesa dei giorni a seguire e ad accoglierti in una Kreuzberg semideserta trovi una gelida Berliner Pilsner e il kebab più buono della città. Decisamente Berlino val bene un Festival. Il Tempelhof è un aeroporto abbandonato, all’interno i tedeschi ci hanno ricavato un parco e ci organizzano eventi culturali e musicali, il Berlin Festival è uno di questi: un festival giovane, di medie dimensioni, giusto tre palchi (disposti sotto i tre hangar dell’aeroporto), con un cast interessante. Da seguire.
09/09/11 Giorno 1
I concerti iniziano piuttosto presto, intorno alle 14, per cui può capitare di sacrificare il dubstep decadente di James Blake con un ricco Kebab da Mustafa, che oltre a riempire lo stomaco, da’ anche la carica giusta per affrontare la faticosa giornata.
Arrivo al Tempelhof che sono quasi le 16, sul palco principale si esibiscono gli Austra, presentano il loro synth-pop sofisticato e scuro. Impossibile non pensare a Kate Bush ascoltando la voce operistica di Katie Stelmanis. Un ottimo inizio. Terminata la prima performance mi dirigo al primo Hangar per un po’ di dance music, sul palco sale Yelle, tutina rossa aderente e tutta l’aria di voler far ballare il popolo del Festival, ci riesce alla grande con le sue canzoncine dance ben confezionate e orecchiabili, è davvero impossibile restare immobili.
Dura poco, prima della fine c’è da sportarsi che sul main stage suonano The Rapture, e nella mia scaletta ideale, hanno la precedenza. Il basso pulsante di “In the grace of your love” accoglie il pubblico che si avvicina sotto al palco, la partenza è affidata al pezzo che da’ il titolo al nuovo album. I ragazzi non riescono a scaldare del tutto, nonostante l’esecuzione perfetta dei brani del nuovo disco, impiegano qualche pezzo per entrare nel vivo. Prima quelli più chitarristici e poi quelli più elettronici, senza dimenticare le escursioni nei dischi precedenti (“Echoes” viene accolta con grande calore).
Il frontman Luke Jenner sa tenere il palco e non si risparmia quando si tratta di dare spettacolo avvicinandosi al pubblico. Bel sound, ma forse in un club avrebbero preso di più. Approfitto dell’intervallo per darmi al sano cazzeggio festivaliero, tra una birra e un giro tra gli stand, il main stage viene occupato dai The Drums, sono curioso, devo ancora capire perché piacciono tanto e ho mezz’ora di buco nella mia setlist. I ragazzini New Yorkesi che suonano musica dalle chiare tinte british sanno farsi ascoltare, sono melodici, catturano ed entrano subito in testa. Accantonato il surf del primo album, i nuovi brani portano con sé una maggiore maturità. Le linee di chitarra e basso ricordano marcatamente gli Smiths e anche la bella voce del cantante non fa sconti in quanto a reminiscenze.
Convincono e risultano a loro modo personali, pur non essendolo per nulla. A metà performance mi allontano, in simultanea abbiamo CSS e Health. Ho voglia di un po’ di noise e scelgo i secondi. Non sono il solo, il terzo Hangar del festival è pieno, la band californiana presenta i pezzi del nuovo “Get Color”. Furia di percussioni martellanti e feedback di chitarre. Gli Health fanno i buchi a terra e fanno saltare tutto il pubblico, è impossibile resistere al loro mix di violenza e profondità emotiva. Un live set breve ma intensissimo che mi consente di poter assaggiare anche l’ultimo pezzo del concerto delle CSS. Il festival inizia a carburare, attraverso l’esibizione dei Battles (avendoli visti per ben tre volte quest’anno, li posso ampiamente snobbare), ma non posso non soffermarmi su Atlas che mi suona stanca, sarà perché li ho visti davvero troppo. Mi dirigo da quella che passerà per essere la delusione della giornata, i Clap Your Hands Say Yeah, li avevo attesi, trovando i pezzi del nuovo album piuttosto interessanti, eppure non riescono a scalfirmi nemmeno un po’. I brani si susseguono perfetti, senza sbavature, eppure non arrivano all’ascoltatore. Suonano un po’ freddi e mi risvegliano solo durante la vecchia “Satan Said Dance”. Poco male. Meglio dirigersi verso il palco principale, è quasi ora di assaporare il trionfo dei Primal Scream. Riesco a guadagnare una posizione invidiabile, tra le prime file, e attendo l’arrivo degli scozzesi. A tutta ragione, sono loro i veri protagonisti della serata. E quando Bobby Gillespie e soci calcano il palco e fanno partire “Movin’ on up” , non hai bisogno di chiederti perché, basta chiudere gli occhi ed ascoltare. Quell’album storico, fondamentale per la storia del rock moderno che è Screamadelica, rivive nelle quasi due ore di set. Tra voli psichedelici e rullate alla Rolling Stones, con i brani lenti e profondi del disco ad occupare la parte centrale dell’esibizione.
La scenografia del palco è discreta, poco invasiva, a parte il bellissimo megaschermo che proietta occhi giganti e la copertina del disco illuminata con colori sempre diversi. Gillespie si agita come un grande frontman, elegante nel suo abito da sera, riesce a tenere viva l’attenzione del pubblico come non ti aspetti. Ma è con il trittico “Higher than the sun”/”Loaded”/”Come Together” che il concerto raggiunge il suo apice, mandando letteralmente in delirio il popolo del festival.Esaltazione alle stelle anche durante i bis, quando la band scozzese ripropone pezzi al di fuori del repertorio screamadelico. Dopo un’esibizione del genere, il festival potrebbe terminare anche qui, eppure continua. Dopo i Primal a calcare il palco principale saranno i Suede, a presentarci l’ennesima reunion pensata a tavolino. Sono troppo stanco per spostarmi e resto dove sono.
Me ne pentirò. Il concerto della band inglese sembra un compitino preparato apposta per accontentare i fan della prima ora, i nostalgici che ricordano gli anni Novanta e vorrebbero non fossero mai finiti. A torto o ragione, quegli anni lì sono andati ormai e di attualità, nella musica dei Suede, ne è rimasta davvero poca. Sopporto l’immagine del cantante che si sforza di essere il bad boy per eccellenza risultando semplicemente ridicolo. Dopo un’ora passa tutto. Non resta che aspettare domani.
10/09/11 Giorno 2
Il secondo giorno inizia piuttosto tardi per me, intorno alle 17, con il dubstep dei Mount Kimbie a scaldare l’Hangar-3, tra il risuonare di bassi gonfiati e le eleganti soluzioni chitarristiche.
E’ un avvio morbido, adatto a preparare gli animi per l’esplosione elettro-pop dei The Naked and Famous sul palco principale. La band presente “Passive me, aggressive you” e lo fa alternando sprizzanti canzoncine sintetiche, a più grintosi brani infarciti di chitarrine taglienti, un vero piacere per gli occhi e per le orecchie, freschi e non banali: da tenere d’occhio. Scappo via a pochi brani dalla fine perchè nell’altro Hangar suona uno dei miei gruppi preferiti dal vivo: The Black Angels. Nonostante li abbia già gustati appieno ben due volte quest’anno mi concedo il lusso di rivederli. Dal vivo spaccano sempre, sono magnetici, la fierezza e la precisione della batterista Stephanie Bailey, la classe del cantante e le incursioni psichedeliche della corrosiva chitarra di Christian Bland, basterebbe ascoltare dal vivo la sola “Telephone” per capire.
Sul palco principale suona Beirut e qui c’è talmente tanta gente che non si riesce a passare, lo ascolto un po’ da lontano, ma la sua musica non è mai riuscita a colpirmi del tutto, e approfitto per riposarmi un po’ sotto i colpi martellanti della musica di Pantha Du Prince, musica da ballare, ma anche psicologica. Un set oscuro, un po’ troppo monotono e lungo per i miei gusti, ma comunque interessante, faccio la riserva di energie, aspetto la fine del live e mi posiziono tra le prime file per assistere al live dei dEUS, sperando che la band belga non ci deluda. Le speranze non sono vane. I ragazzi salgono sul palco e suonano un concerto straordinario, nonostante la scaletta sia quasi tutta composta dai lavori del nuovo album, non manca qualche incursione nel repertorio passato. Il capolavoro “The Ideal Crash” viene omaggiato da una “Instant Street” da pelle d’oca, non meno coinvolgente ed emozionante è la magnifica “Nothing really ends”, altro ripescaggio dal passato.
Un live semplice e potente, che lascia in bocca un mucchio di soddisfazione. Siamo quasi alla fine. A questo punto, secondo la mia fantomatica scaletta, dovrei schizzare al primo palco lasciandomi spaccare dai Bloody Beetroots, ma siccome la prima fila è libera e siccome ai festival le intenzioni sono fatte per essere sovverite, mi appoggio alla transenna e aspetto l’arrivo dei Mogwai. Inutile dire che sono uno dei miei gruppi preferiti e, che avendoli già visti numerose volte, la ragione vorrebbe che io sentissi altro, mi prometto di andare via dopo qualche brano…ovviamente non va così.
Gli scozzesi salgono sul palco e iniziano a darmi i brividi dalla prima all’ultima nota, costruiscono un concerto perfetto, ricco di ripescaggi dagli album vecchi: malinconico e violento come solo il loro post-rock sa essere. Dei maestri del suono e dell’esecuzione. Impeccabile il finale con una “Batcat” che distrugge i timpani a noi delle prime file, ma tant’è. Resta il ricordo di un weekend di musica e bellezza in terra tedesca, di birra fredda e cocktails mal fatti, di Berliner Pilsner scolate agli orari più improbabili, del migliore kebab del mondo e di un aeroporto abbandonato, che per due giorni, ci ha dato tanta voglia di vivere.