Quando Jeremy Cooper introduce Brian nel primo rigo del romanzo omonimo (“Brian”, edito da Atlantide nella traduzione di Ilaria Oddenino), il protagonista è un quarantenne di origini irlandesi, vive a Londra e lavora per il Camden Council. Non ha famiglia intorno, non ha amici né una relazione, ma ha una fascinazione per i film che lo porta a frequentare, in virtù del suo «istinto di autoprotezione», il British Film Institute (nell’attuale Southbank).
Una proiezione a sera, comincia con “Il texano dagli occhi di ghiaccio” di Clint Eastwood e poi arriva al cinema giapponese del secondo dopoguerra fino a diventarne un discreto estimatore ed esperto.
Brian, insomma, trova la sua dimensione e si chiede con stupore: «Chissà perché. Perché aveva aspettato di avere quasi quarant’anni prima di fare qualcosa di così evidentemente giusto per lui?». Le convenzioni, probabilmente, ma anche le rigidità mentali che Brian si auto infligge nel tentativo disperato di tenere il mondo, e sé stesso, sotto controllo.
Nella vita quotidiana Brian era infinitamente ansioso, spesso riguardo alla stessa manciata di cose ridicole e insignificanti. Sapere che le proprie preoccupazioni erano infondate faceva poca differenza, si lasciava comunque travolgere dal panico […]. Ad angosciarlo era l’idea di aver commesso un ipotetico errore […]. […] nella sua mappa mentale il tempo era mite, grigio, piatto, il che lo aiutava a raggiungere un’illusione di placida compostezza. La monotonia era quanto di più auspicabile: nessun cambiamento significava nessuna sfida, era tutto più semplice.

Nella narrativa dei personaggi solitari, per scelta personale o altrui, in Brian riecheggia l’immobilismo di Stoner, sfortunato antieroe di John Williams, ma anche la solitudine meno evidente di Olive Kitteridge, la personaggia di Elizabeth Strout decisamente più volitiva. Ciò che li accomuna, però, è lo spettro delle tante possibili solitudini dell’animo umano. E della solitudine Cooper ne fa una cifra stilistica sia come scrittore che nella vita personale. Nato nel 1946, storico dell’arte, autore di un catalogo del British Museum sulle cartoline artistiche, di cui è avido collezionista, Cooper esordisce nel romanzo nel 2018 dopo la vittoria del Fitzcarraldo Novel Prize con il manoscritto di “Ash before oak”, ancora inedito in Italia, il diario della depressione di un uomo che sceglie di vivere solo in una tenuta del Somerset a commentare, in un diario, la flora e fauna locale. Ancora una solitudine, quindi, ancora la ricerca non convenzionale di conforto in una passione metodica. A “Brian”, invece, inizia a pensare alla fine degli anni ’80 circa, quando è lo stesso Cooper a frequentare il National Film Theatre. Il nucleo del romanzo risiede nella comunità di appassionati che incontra in quell’esperienza. La stesura di Brian ha occupato alcuni mesi del 2021, i film contenuti sono gli stessi visti da Cooper in un gioco di rimandi tra fiction e realtà in cui è impossibile ignorare la sovrapposizione tra il personaggio e il suo autore. L’escamotage narrativo che rafforza questo legame è la voce narrante, una terza persona che è al fianco di Brian e ne conosce i pensieri. Il romanzo, allora, è lo studio di una vita che procede in una città indifferente, Londra, e il tentativo di resistere e autodeterminarsi. Non tramite il lavoro né attraverso le relazioni, Brian trova il senso del suo percorso di vita nella devozione per il cinema, il suo linguaggio e le sue storie. Non convenzionale come scelta, ma, in fondo, non è forse la libertà di autodeterminarsi il senso stesso della vita? Tuttavia è possibile che a seconda della personalità di chi legge, “Brian” risulti un romanzo sempre diverso tra due estremi: intollerabile e triste per le personalità dinamiche, placido e confortante per gli animi più schivi. La traiettoria senza eventi della vita di quest’uomo, come l’ha definita l’analisi sul magazine statunitense Lithub, rimane, comunque, perno narrativo autosufficiente e brillante. Brian non è un propriamente ignavo, si ritrova coinvolto in un evento storico della città – pur a seguito di un grande equivoco – ed esprime privatamente il proprio dissenso, ma protegge con decisione gli spazi della sua vita dal mondo esterno e consegna all’immaginario collettivo una prospettiva in cui l’individualità non ha solo un’accezione negativa, anche se il dubbio persiste: Brian sceglie davvero l’isolamento o ha solo paura di vivere? Non esiste una risposta univoca.
Dal punto di vista della struttura narrativa, invece, “Brian” pone un altro dilemma: chi l’ha detto che un romanzo sia solo un susseguirsi di scene ed eventi? Nel caso del libro di Jeremy Cooper, un caso letterario sin dalla sua uscita, la ricetta è semplice: la ripetizione diventa un prolungato tentativo di stare a galla tra paure, abitudini e comodità, anche quando il deterioramento prende il sopravvento ed esige un prezzo altissimo, che pure Brian è disposto a pagare. Solo un guizzo sposta la sua traiettoria di vita e accade proprio nel finale, in cui l’autore lascia spazio al personale di lettrici e lettori che si interrogano come sa fare solo chi rimane orfano di un compagno letterario. Eppure la lezione di Brian è già assimilata: che la propria solitudine sia simile a quella di Brian, di Stoner o dell’indimenticabile Olive Kitteridge, non sarà una successione di eventi o di occasioni mancate a determinare la legittimità di un’esistenza.
Brian, sguardo fisso oltre la vetrata, osservava le file di finestre illuminate dei grattacieli sul lato opposto del Tamigi.
La fronte aggrottata si rilassò.
Nulla, si disse. In fondo le cose andavano bene così com’erano. Era solo bello sapere che il cambiamento, se proprio doveva accadere, non doveva per forza essere tremendo come aveva immaginato.