L’unica cosa che non si può dire di “Indebito”, documentario scritto da Vinicio Capossela e Andrea Segre, che ne è anche il regista, è che non sia un film ambizioso. Presentato fuori concorso a Locarno e mostrato in anteprima italiana al festival di Internazionale a Ferrara (sarà nelle sale soltanto il 3 dicembre, distribuito da Nexo Digital), il film vuole essere allo stesso tempo un compendio di rebetiko, musica tradizionale greca, un documentario sulla crisi ellenica, una piattaforma per le riflessioni e le divagazioni che ci si attendono da un personaggio come Capossela.
Per raccontare la storia del rebetiko, genere nato negli anni ’20 e vietato dal regime di Metaxas sia per i suoi contenuti, ribelli, ironici e autarchici, sia per convertire il paese al mainstream euro-americano, Segre si affida alla musica stessa. I migliori esponenti del genere vengono ripresi mentre eseguono canzoni tradizionali (tra cui la Misrilou che Dick Dale trasformerà in un inno del surf rock), brani di autori più recenti, nonché canzoni dello stesso Capossela, già riarrangiate in occasione del suo ultimo album “Rebetiko Gymnastas”.
Il tutto viene ripreso nei luoghi e nei modi in cui quella musica viene suonata abitualmente: nelle osterie, nei bar, ai matrimoni, di fronte ad un pubblico ristretto e spesso impegnato a mangiare, bere, chiacchierare, che solo raramente si unisce al canto o si lancia in un ballare solitario e spontaneo. Una spontaneità, quella del rebetiko, che la pellicola riesce soltanto raramente a trasmettere.
Come rivelato da Segre stesso, è stato spesso necessario cambiare la disposizione del pubblico (fondamentalmente, persone sedute a tavola) e dei locali o, in alcuni casi, abbandonarli del tutto in favore di luoghi più adatti alla cinepresa, il tutto a scapito dell’autenticità. L’impressione, anche considerando la scelta di adottare una fotografia “sporca” e di utilizzare la camera a mano, è che gli autori siano stati risucchiati nel mezzo tra il desiderio di autenticità (il tanto decantato lo-fi) e quello della resa estetica (la costruzione della scena). Il risultato è che il film non riesce ad ottenere il transfer tra lo spettatore del film e quello dell’esibizione, tra le poltroncine del cinema ed il “luogo del delitto”, fondamentale nei documentari, soprattutto se di questo tipo. Anche la scelta di inserire delle didascalie “didattiche”, contenenti i riferimenti alle canzoni eseguite, nel bel mezzo delle scene non aiuta affatto ad immedesimarsi nel clima sgangherato delle serate. Suvvia, non è quello di Piero Angela il primo numero a cui telefonereste per una birra in osteria.
La storia del rebetiko viene quindi narrata dai musicisti stessi, che si aprono alle telecamere di Segre per ricordare i loro incontri, esprimere le loro idee, i loro apocalittici presagi sul futuro della Grecia. Si viene così a delineare la sfaccettata figura del rebete: l’emarginato, l’anticonformista, dedito all’alcool e al fumo, che è soltanto in apparenza indifferente a quanto accade intorno a lui. È infatti la realtà, fatta di amori torbidi e impossibili, di rabbia, di fatica, il soggetto delle sue canzoni. Un profilo che ricorda molto da vicino quello del bluesman americano: e proprio questa vicinanza tra la filosofia e l’estetica dei due generi una delle tesi implicite della pellicola.
Non sorprendentemente, la sezione relativa alla musica emerge come la migliore del lavoro di Capossela: interessante, attuale, divertente (l’ intervista alla grottesca diva Keti Dali, sorta di Moira Orfei ellenica, è forse il punto più alto della pellicola), soprattutto, politica. Sì, politica, perchè la scelta di raccontare la vicenda di un genere musicale, di una tradizione, costretta a scomparire per motivi ideologici e per “fare spazio al nuovo che avanza” non è altro che una sottile metafora di come la Grecia si stia sbriciolando sotto le pretese della Troika e della finanza mondiale. La “magia”, se di questa si può parlare trattando argomenti del genere, si attenua però quando dalle metafore, dalle idee e dalle parole dei rebetes si passa alle immagini: negozi sbarrati, strade deserte, degrado, messi in contrasto con la bellezza eterna dell’area archeologica. In due parole, già visto.
È quello che chiamo l’effetto “Presa Diretta”: tentare di far riflettere lo spettatore con un colpo allo stomaco, utilizzando la bassa definizione quasi fosse un corpo contundente. Una scelta “facile” e, a mio parere, non necessaria, dato che le durissime parole dei protagonisti, che denunciano in maniera forte e chiara, senza giri di parole, il crollo di una cultura, di una storia, di una nazione intera, non hanno bisogno d’altro per emergere.
Credit: famigliacristiana.it
Paradossalmente, questi cliché visivi (l’effetto “Presa Diretta” di cui sopra), insieme alle scene che vedono Capossela nel ruolo di vagabondo, musico, poeta (ci arriveremo tra poco, tranquilli), hanno il compito fondamentale di salvare la pellicola da un altro cliché, forse ancora più pericoloso: il “Buena Vista Social Club”.
Pensateci: un musicista solo in una terra straniera, divisa tra bellezza e povertà, circondato dai migliori musicisti di quella terra, con lo scopo di salvarne la cultura dall’oblio. Capossela e Segre non saranno Ry Cooder e Wim Wenders, Bebo Valdés non è stato mai visto con un bouzouki in mano, ma i due terzi del film sembrano viaggiare in parallelo. La missione, le interviste dei musicisti ad alternarsi alle canzoni, persino i bar, tutto sembra assomigliarsi: quale la discriminante, allora, quale la novità introdotta da Segre?
È la scheggia impazzita, Capossela, che compensa il talento e la chitarra slide di Ry Cooder con le sue parole e la sua personalità, a cui, in fondo, abbiamo imparato tutti a voler bene. L’affetto però non può e non deve essere incondizionato: bisogna riconoscere che sono proprio i segmenti in cui compare l’autore di Canzoni a manovella a compromettere la pellicola di Segre. Vinicio canta in un mercato deserto, accompagnato soltanto dai gatti, ascolta le parole che escono dalla marionetta di un rebetes, scrive i suoi pensieri (che ci vengono comunicati tramite l’immancabile voce fuori campo) sul tefteri (“il quadernetto sul quale il negoziante di alimentari si segna la spesa dei suoi clienti”), percorre le strade e tasta perfino i muri dell’amata Grecia. Il risultato di tutto questo vagare è che quelli che dovrebbero essere, secondo le parole di Segre, “momenti di messa in scena teatrale che cercano dialogo anche con il repertorio e la memoria” appaiono allo spettatore come degli inopportuni sfoghi dell’ego di Capossela. Sembra quasi che la telecamera, come un qualsiasi quindicenne che posta i suoi assoli di chitarra su Youtube, venga utilizzata dal cantautore per ricongiungersi a quelle che sono le sue eterne ispirazioni (ed aspirazioni): Cèline ed il suo viaggiare fino in fondo alla notte, Tom Waits con le sue poesie urbane piene di bar e derelitti umani, il solitario, pensatore Chet Baker con la sua scostanza.
Un film scostante, insomma, che compensa una missione e dei momenti molto interessanti con elementi banali e naif. Sebbene le intenzioni e la buona fede del lavoro di Segre siano indiscutibili, il regista avrebbe potuto scegliere una fotografia più curata e, perchè no, più patinata, mettere in secondo piano il suo protagonista, nonché sceneggiatore e spinta commerciale, per realizzare un prodotto più longevo e vendibile nel mondo.
Capossela e Segre sprecano in parte quella che era una grande opportunità: girare un film che tra dieci, venti anni, potesse fungere da memoria storica di un genere dimenticato, il rebetiko, ma soprattutto di un momento storico cruciale come quello che la Grecia, se non l’Europa intera, sta attraversando.
Cover Credit: Youtube