a cura di Federico Migliorati
Il genere degli epistolari, inevitabilmente destinato a esaurirsi con il predominio del mondo digitale, ma che ancora dev’essere pienamente riscoperto assume vieppiù importanza quando esso consente una panoramica, più o meno ampia, sulla formazione, sulla paideia di un poeta, uno scrittore, un artista rilucendo per l’imprinting ideale che viene poi sviluppato nelle opere. Il carteggio inedito tra Antonio Banfi (1886-1957) e Vittorio Sereni (1913-1983) che la rivista di poesia e filosofia Kamen’ ha pubblicato nel numero 66 del gennaio 2025 e che si deve al prezioso lavoro del ricercatore universitario e saggista Matteo Mario Vecchio (purtroppo prematuramente mancato nel 2021 a soli 40 anni), per la curatela di Daniela Marcheschi, è tra quelli che meglio consentono di cogliere i germi di una conquista, quella della fama letteraria, da parte di uno dei massimi intellettuali e poeti del Secondo Novecento.
Se nel caso di Sereni in rapporto a Roberto Pazzi (mi riferisco qui all’epistolario da me curato e apparso nel 2018 per Minerva Edizioni) emergeva, negli anni in cui il primo era potente direttore editoriale della Mondadori, il suo costante impegno nel sostenere, appoggiare, fungere da mentore di giovani studiosi sulla scena letteraria, qui troviamo il luinese dall’altro lato della barricata. È lui l’incerto, talvolta timido, riflessivo studente, prossimo alla tesi di laurea (la prima in assoluto, peraltro) sulla poesia e la poetica di Guido Gozzano, morto solo vent’anni prima, che necessita di un prezioso viatico dal suo relatore, quell’Antonio Banfi filosofo, scrittore, traduttore, critico letterario che contribuì a forgiare anche altre menti del tempo, da Antonia Pozzi a Luciano Anceschi a Giulio Preti, solo per citarne alcuni. Il corposo volume portato all’attenzione della commissione di laurea nel novembre 1936 non ricevette la lode solo per un’impuntatura sull’aspetto metodologico rilevato in ultima battuta.
Pur nell’esiguità numerica dei documenti contenuti in rivista (poco più di una ventina tra missive, biglietti, cartoline postali), che comprendono un periodo che va dal 1935, quando prende avvio la preparazione della tesi, sino al 1949 è lampante l’attenzione che Banfi dedica al lavoro sereniano, lavoro peraltro duplice: a questi infatti il luinese non si limita a inviare di volta in volta i vari contenuti della tesi, ma altresì sottopone le sue poesie più recenti, posteriori a quelle finite nei “quaderni verdi” composte a Brescia quando era studente del Liceo Arnaldo e dove visse fino al 1933. E non manca, inoltre, di rammentargli le letture più “urgenti” in corso e in grado di influenzarlo come i romanzi dello statunitense John Dos Passos nella traduzione di Cesare Pavese. Tanto sull’uno quanto sull’altro versante il rapporto è dialettico, fecondo, produttivo tanto che in più occasioni è lo stesso Banfi a sollecitare un incontro, a promuovere uno scambio di opinioni sugli elementi sviluppati, conscio delle potenzialità del giovane che nel frattempo è sempre più deciso a sfrondare la propria scrittura da “ingenuità, luoghi comuni – comuni anche se non sfruttati”, da “lirici commenti” e “sensi nascosti” da cui era caratterizzata la sua primissima produzione.
“Io spero in Lei come ‘scrittore’: c’è nella sua espressione una delicatezza, suasività, chiarezza raggiunta attraverso sovrapposizioni di sfumature, che credo la cosa le potrà riuscire bene. E non si spaventi delle difficoltà e anche della stanchezza”.
Si tratta di uno dei tanti incoraggiamenti manifestati da Banfi, in anni peraltro tragici della nostra Italia e che lo stesso Sereni vivrà più in là come prigioniero per due anni in Nordafrica, accolti con fervore e con rinnovato stimolo per continuare la propria opera, puntualizzando e focalizzando meglio il contenuto del lavoro universitario:
“Non so come ringraziarLa; la Sua lettera costituisce un avvenimento per me, così facile agli scoraggiamenti improvvisi sopra tutto quando sono solo come in questo momento. Non c’è bisogno che mi rimandi i manoscritti, sono per Lei. e La ringrazio ancora molto molto di tutta la fiducia che mi accorda con la promessa di esserne sempre degno”.
Nello specifico il relatore chiede una maggiore profondità sul poeta-artista Gozzano, per il quale scrittura e poesia, pur non sovrapponibili interamente, rappresentano due facce della stessa medaglia (soprattutto dopo il periodo “dannunziano” e un poco leggero citato nelle missive) e nello stesso tempo vorrebbe dal luinese che puntasse su una “immediatezza obiettiva”, evitando di perdersi in questa o quella forma estetica o estetizzante dei propri versi. C’è una maturazione che nel corso del tempo emerge a mano a mano che la scrittura si asciuga, lasciando andare certe incrostazioni ideologiche e che fanno dire a Sereni
“Quello che mi dice riguardo alle poesie tocca in pieno quello che, volendo usare parole grosse, costituisce il mio grave problema artistico e per il quale da più di un mese non ho scritto più niente: per riposarmi per così dire e vedere più chiaro in me”
Vecchio, nell’elaborata e precisa ricostruzione ed esegesi del carteggio non manca di sollevare aspetti illuminante segnatamente in rapporto alla dualità vita-poesia, ma anche sul senso del fare arte e sulla filosofia più pregnante con cui Banfi istruisce i suoi allievi, tanto quelli più legati al contesto poetico come Sereni quanto quelli più orientati all’ambito filosofico.
Un’annotazione circa il rapporto epistolare: da estremamente formale seppur privo di leziosità o ricercatezze delle prime lettere (in cui il “lei” è d’uso) si passa, una volta concluso il percorso universitario di Sereni e divenuto questi insegnante come lo stesso Banfi, a un “tu” più colloquiale ma che non difetta in fatto di valore, rispetto e stima che entrambi mantengono l’uno verso l’altro.
Il carteggio in oggetto si conclude con due appendici contenenti le lettere intercorse tra Vittorio Sereni e la moglie di Banfi, Daria dei conti Malaguzzi da un lato, e quelle con il figlio Rodolfo dall’altro, ennesimi suggelli di un fraterno, intenso, cordiale rapporto con la famiglia che non si spense con la morte del filosofo.