Non tutte le madri muoiono in primavera; non tutte le fioriture recano in sé l’affronto dell’incuranza – sbocciano la dalia, la peonia, l’ibisco, l’altea.
Come può, dunque, un’intera famiglia costruirsi una memoria e, di conseguenza, dirsi reale? Certamente non dovrà valere una soluzione universale che riporti in sé tutte le famiglie, le morti e le madri del mondo, ma Catarina Vasconcelos, nata a Lisbona nel 1986, s’incunea – servendosi del medesimo armeggìo che fu di Giotto, o l’invenzione – tra le pliche dei propri salvati, nonché dei sommersi, col suo primo lungometraggio, A Metamorfose dos Pássaros, mostrato in anteprima alla Berlinale 2020 e vincitore, tra gli altri, del Premio FIPRESCI per la sezione «Incontri» del suddetto festival.
Realizzato nell’arco di sei anni, come dichiarato dalla stessa autrice durante un’intervista virtuale organizzata dal Film Lincoln Center di New York, il componimento figurativo, procedendo per giustapposizione di sequenze a inquadratura statica, nature morte, interni lambiti dal raggio solare e dispositivi di mediazione, segue il matrimonio di Henrique, marinaio, e Maria Beatriz, che preferiva esser chiamata Triz, nonché la crescita dei figli, che saranno presto sei e che si moltiplicheranno andando allo smembramento della casa paterna: Jacinto, Pedro, João, Nuno, Teresa e José. All’apertura in 16mm, occhi un poco cisposi e verdastri di vecchio vincolano sin da subito alle dinamiche ambigue di visione – lo sguardo coglie la presenza della telecamera, la finzione è rivelata – e puntellano, grazie all’aiuto della voce fuoricampo d’Henrique, l’interesse della regista verso la figurazione, in primo luogo, della memoria domestica e, d’altro canto, dei limiti del corpo.
Trattenere le cose a sé e trattenerle immutate: storie di famiglia nella memoria individuale e collettiva
Perché Henrique, trasferitosi in una residenza per anziani, possa parlare ancora con Maria Beatriz, morta improvvisamente e prima ancora di raggiungere il tempo in cui la pelle comincia a scolorare, è necessario che d’ella si sia creato un simulacro leggero, sottratto all’ingombrante che solo il corpo può generare – e Vasconcelos, servendosi d’una raffinatezza, concreta una tale perdita mutando il supporto dalla pellicola al digitale in coincidenza con la morte di Triz. Sono le stanze e specialmente gli oggetti a divenire, per il marinaio in pensione, il vaso delle memorie della moglie, stanze e oggetti che acquisiscono vita propria nel montaggio serrato entro il quale s’accostano, a una piastrina amigdalica in ferro battuto raffigurante un paio d’occhi alla greca e alla riproduzione di Madre (1895-1900) di Joaquín Sorolla, il muoversi cadenzato della tenda illuminata e il piccolo Jacinto che, nascostosi nella credenza, corre a piedi nudi verso la sala da pranzo. Le cose, tuttavia, s’impolverano trasformandosi come si trasforma il mondo, i fiori scompaiono e i bambini s’allungano facendosi grandi, lasciando ai genitori la sola infanzia che la fotografia ha saputo condensare. È questo uno dei primi impasse epistemologici che A Metamorfose dos Pássaros circoscrive, provocando le ipocrisie di ciò che può esser detto ricordo in termini di memoria narrativa – l’organico svolgersi di una storia nella quale, per sue proprietà, non possono esistere lacune – e di persecuzione allucinatoria, non avendo l’uomo la possibilità di risvegliare e interrompere le intrusioni delle immagini mnemoniche poiché, come disse Fabrizia Ramondino: «Il mio padrone è il ricordo, che, mentre io mi distraggo a ogni nuovo odore, si allontana sparendo dietro l’angolo di un muro, dove non esiste il tempo».[1] I volti di moglie e figli seguono il narratore pure nel reame che non è per l’uomo, nell’eternità del mare aperto, ma necessariamente in forma di fotografia, di lettera d’amore o di fantasmatica sensazione poiché, chiudendo gli occhi, è ben difficile che si palesi il vivo e vero volto dell’amato, che si mantenga inoltre coerente.
E una simile coerenza appare ulteriormente compromessa dalla polifonia di voci che, crescendo i figli, organizza quel che ognuno chiama, riferendosi all’una o all’altra cosa, famiglia. M’è capitato più volte (mi chiedo a chi non sia accaduto), mentre parlavo con mia sorella d’eventi passati, di sentir rispondere: «Io lo ricordo diverso» o un più dittatoriale: «Ma non è andata così!»; se, nella contesa, i vecchi filmati amatoriali e gli album di fotografie possono talvolta ergersi ad avvocato del diavolo, Annette Kuhn ci ricorda come non basti la sola immagine fotografica a evocar le memorie, ma sia necessario l’attivarsi di un intertesto di discorsi che sappiano trasferirsi tra il passato e il presente, tra lo spettatore e l’immagine, tra questi, i contesti culturali e i momenti storici, cosicché l’immagine in sé non è altro che un indizio, necessario ma insufficiente[2] – nel caso in cui s’intervistassero tutti i membri di una sola famiglia, la Memoria di questa non esisterebbe ma, al suo posto, una cacofonia rabbiosa di frammenti e contrasti. È possibile allora manifestarne il senso autentico? E, soprattutto, quanto può valere la verità d’un ricordo?
«Ciò che gli umani non possono spiegare, inventano»: parla Catarina, o ciò che può dirsene un alter-ego, mentre le mani compongono, su una tovaglia stesa e blu, il puzzle raffigurante la nonna; e se una tale invenzione, che curiosamente riconfigura (ribaltandolo) il più tradizionale sguardo familiare, non essendo più il genitore a ritrarre il figlio che fa la prima pipì, il primo bagnetto, i primi passi, tracima d’un sentimento tattile, olfattivo e gustativo che nulla ha da invidiare alla verità della Storia, non è inusuale che lo spettatore ritrovi, tra la zucca affettata dalla domestica Zulmira, il succo fastidioso che sprigiona l’arancia o l’odore che la pelle della madre rimanda scottata dal sole, quella gentilezza d’un destino comune che rende la Terra palinsesto organico di memorie. Vasconcelos sembra esserne ben consapevole, non dimenticando mai A Metamorfose l’indissolubile montaggio che lega l’uomo, l’albero, l’animale più o meno alieno – come l’ippocampo che, palesando sia la creatura ibrida che l’escrescenza del lobo temporale, trattiene a sé il ricordo della prole; la morte di Triz trasfigura infatti, per i sei figli, la primavera e nelle stagioni, nel sorgere e tramontare del Sole, nel riversarsi indifferente del fiume nel mare, pare restare impresso l’umano che, individualissimo, non può che coprire «di corpi i continenti»,[3] poiché ogni madre risiede entro le fibre di una diversa foglia, ma soltanto la comunicazione tra uomini e la condivisione delle memorie può riattivare un tale palinsesto.
«Mia madre non era solo una madre: era un albero. Gli alberi amano il suolo e permettono a noi di scalarne i rami come se fosse facile. Quando morì mia madre, non potemmo più dondolarci dai suoi rami e ognuno di noi cadde a terra.»
Il trauma e l’impossibilità dei corpi: al di là dell’umano
Allacciandolo – e saldamente – all’idea di una trasposizione figurativa della memoria, l’opera di Vasconcelos s’estende fino a toccare il corpo, più propriamente nel suo essere carne o gabbia e limite. Al momento della morte della madre, i sei figli di Triz ed Henrique si ritrovano a vagare quasi fossero fantasmi, i quali appaiono subitamente impressi al centro d’un bosco e in foggia di lenzuoli bianchi. La sottrazione del corporeo è, da un lato, inevitabile poiché, tolta a me la madre, non posso più dirmi figlio né figlia, ma involucro un poco sgonfio di un’identità che non è più; dall’altro, come narrato da Jacinto, l’evento sconvolgente, il trauma d’una morte, non è destinato a divenir memoria, venendo esso impresso e assorbito dalla pelle prima di giungere al cervello.
Perché si possa riacquisire un’individualità, non resta che andare oltre il corpo, troppo irrigidito per permettere il movimento, troppo minuto per racchiudere tutto o troppo grande per poter essere abitato senza paura di sentir risuonarne l’eco. Un tale ultra-corpo, secondo la soluzione offerta da Vasconcelos, deve divenire della dimensione di ciò che si vede, non di ciò che si sente: se non possiamo dirci più figli, dobbiamo dirci natura e cosa del paesaggio – un meraviglioso assemblaggio di pelli e fibre vegetali in macro, boschi vivi e foschie si dispiega di fronte allo spettatore – per poter superare la mancanza di parole e di nuovi significati che la morte detiene. Straripando (e imparando il linguaggio degli uccelli), l’uomo nega quest’ultima, nonché la vecchiaia, raggiungendo l’eternità degli alberi, tra i quali ve ne sono d’apostolici, avendo essi assistito alla nascita dei nostri nonni, dei nonni dei nonni, dei nonni dei nonni dei nonni, come dice il piccolo Jacinto al fratellino, mentre la camera annotta. Alla stregua della Chaconne, introdotta in explicit per evocare e risvegliare i morti, così la perdita del limite corporeo riunisce, in un unico episodio terreno, i vivi, i morti e i dispersi – una volta tornato il disperso, non si può che insegnare una seconda volta a vivere risistemando le foglie cadute sui rami d’appartenenza, secondo un sortilegio che soltanto il cinema può garantire.
Il limite della cornice e il reale ambiguo: di dispositivi mediatici, suoni e allontanamenti
A differenza d’altri media, è infatti il sistema del montaggio cinematografico a permettere il risveglio dei morti, che siano donne o cavallucci marini. Formatasi alla Faculty of Fine Arts di Lisbona, Vasconcelos si serve, in collaborazione con Paulo Menezes (fotografia) e Francisco Moreira (montaggio), pure degli strumenti della pittrice – o, per proprietà transitiva, della storica dell’arte – perché allo spettatore non venga lasciata traccia d’una immedesimazione sterile e potenzialmente deleteria al palinsesto memoriale che va creandosi. Assai minimo è lo spazio concesso al volto la cui presenza, come ricordato da Allan Cameron, assicura che si stia guardando a un oggetto d’interesse drammatico[4] e, aggiungerei, sovente a tal punto addomesticato da concedere il rispecchiamento di cui sopra; al volto si sostituisce dunque lo specchio che, assieme a lenti d’ingrandimento, finestre e fotografie, complica i rapporti che intercorrono tra osservatore e osservato, esterno e interno, tridimensionalità e bidimensionalità e una terza strada mediana di cui si dirà a breve.
Come a dire: «Ciò che state guardando esiste, ma esiste in un altrove che non è vostro!», l’oceano da cui scrive le sue lettere Henrique è mediato per via d’una lente che ne ribalta gli estremi o d’un oblò; le stesse fotografie in bianco e nero vengono offerte al riguardante al modo degli enigmi, la lente via via inquadrando i bambini; il viso serio di Jacinto, di spalle e sezionato dall’obiettivo, esclude l’altro guardando stante nello specchio. Ed è inoltre la costruzione della messa a fuoco (che mai può esser neutra) a esacerbare il senso di sfaldamento che una primissima visione di A Metamorfose produce, in quanto dalla realtà quadrangolare del film se n’esclude una ulteriore, a noi preclusa, della quale possono vedersi soltanto brevi estratti o frammenti di più interi corpi, tendaggi che s’aprono sul monte, riquadri selvatici percepibili tramite i soli specchi già noti.
Produce similmente l’arresto dell’incredulità la gestione del sonoro (Adriana Bolito e Rafael Cardoso), che ingombra, contrapponendosi alla diegesi vocale, in pochi e specifici momenti atti a definire un mutamento repentino della situazione; il primo brano s’apre al crescere dei figli che si nascondono tra l’erba, mentre la stessa morte di Triz incalza rompendo il silenzio generale e orchestrato. L’artificialità del sonoro, che mai è sfruttato a fini iper-drammatici, è rivelata, in un primo momento, dal pianoforte che Teresa non suona – le mani che cascano piano dai tasti bianchi – e, con più autorevolezza, dalla Chaconne bachiana, invocata da Jacinto, orfano. Nonostante un profluvio d’espedienti estetico-figurativi che sollecitino la mente, al quale si giustappongono tableaux vivants, nature morte e surrealtà, A Metamorfose dos Pássaros trattiene in sé ciò che la sola tenerezza può risparmiare dalla disgregazione caricata dei piani di realtà, perché Jacinto non è Jacinto, ma è la polpa della melagrana, l’occhio di pavone, il ramo pendulo.
[1] Fabrizia Ramondino, Taccuino tedesco, La Tartaruga, Milano 1987, p. 65.
[2] Annette Kuhn, Family Secrets: Acts of Memory and Imagination, Verso Books, London-New York 2002, p. 14.
[3] Franco Fortini, Per Serantini. 1972, in Idem, L’ospite ingrato primo e secondo, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 153.
[4] Allan Cameron, Face, Frame, Fragment: Refiguring Space in Found-Footage Cinema, in Screen Space Reconfigured, a cura di Susanne Ø. Sæther e Synne T. Bull, Amsterdam University Press, Amsterdam 2020, pp. 127-128.