Quando i protagonisti di un libro diventano troppo ingombranti a volte diventa d’aiuto appoggiarsi ad un “protagonista secondario”, qualcosa che si eriga a simbolo e distolga un attimo l’attenzione, per permettere alla vera storia di articolarsi sullo sfondo. Per Donald Antrim questa compagna di viaggio è una sbarra. Alla sbarra si possono collegare diversi immagini, la si può mettere in verticale e pensarla come strumento della prigionia, può essere elemento della danza, della ginnastica o anche di una morte grottesca per chi si è appassionato alla saga di Final Destination.
Per Antrim la presa alla sbarra è il sostegno che lo separa tra il rimanere in vita e lo schiantarsi al suolo volando giù sino a rendersi oggetto inanimato.

“Un venerdì di aprile” (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella) non è il solito romanzo tagliente e irriverente a cui Antrim ci ha abituato, l’autore mette da parte il suo taglio post-moderno e surreale per offrirci un testo più intimo dove ci troviamo davanti agli aspetti più umani, personali ed autobiografici relativi alla sua depressione. Quando ad entrare in gioco è quella che David Foster Wallace chiama La Cosa Brutta preferisco sempre usare l’articolo possessivo, poiché se la depressione è una cosa più o meno delineata [Depressione: con riferimento a persone, stato di abbattimento, di prostrazione fisica, e più spesso psichica: d. delle forze, d. di umore; essere in uno stato di d.; avere momenti di grave d., ecc. Con sign. più specifico, in psichiatria, modificazione del tono del sentimento in senso malinconico (tedio e pessimismo diffuso, distacco dagli abituali interessi, svalutazione delle proprie capacità psichiche e fisiche, ecc.), caratteristica di stati psicotici, psiconevrotici e nevrotici: d. endogena, instauratasi senza cause apprezzabili; d. reattiva, in rapporto con un avvenimento che ha provocato un trauma psichico] ogni depressione è una cosa estremamente propria. Quella di Antrim è così personale che lo scrittore ne propone una risemantizzazione definendola con il termine suicidio, non suicidio come gesto ma suicidio come lunga malattia. Un percorso fatto di tappe verso una fine inevitabile in cui il paziente si ammala della sua stessa morte, in cui la morte non è una scelta, ma il sintomo definivo di un percorso patologico già scritto, una manifestazione e non un’azione.
E in questa malattia Antrim affonda le mani raccontando lo psichico e il fisico, riassumibile in passaggio brevissimo, una scheggia che si infila sottopelle: “il prurito alla tempia, il bisogno di spararmi era costante”.
Il testo di Antrim è un testo chimico, un testo ospedaliero, un testo elettrico. Ed è in questa elettricità, quella della tanto controversa TEC (Terapia Elettroconvulsivante) che si crea un legame con il Grande Depresso della letteratura nordamericana, quel David Foster Wallace che nel 2008 si toglierà la vita appendendosi ad una corda. È proprio DFW a chiamare un Antrim ospedalizzato e che, a differenza della scelta che fece intraprendere al suo personaggio sul pianeta Trillafon, gli dirà “Se ti hanno consigliato la TEC falla”. Proprio questa telefonata sarà uno dei tasselli decisivi nella scelta di Antrim, una fiducia nuova, come se DFW fosse la prova che si poteva fare. David non aveva perso le sue capacità, scriveva e lo faceva bene, era vivo e scriveva, non gli avevano, come si suol dire, fritto il cervello. E allora TEC sia, con Antrim che ci accompagna all’interno di queste sue sinapsi sfracellate, stimolate, rimodulate, risignificate. Sarà una scure per Antrim vedersi avvicinare durante un buffet e sentirsi dire “David Foster Wallace è morto”. Allora non aveva funzionato. La corrente dentro il cervello non aveva funzionato. Immediato è il pensiero su cosa ne sarà di lui. Il grande quesito che inizia a riproporsi, ma non quello di cosa ci sia dopo la morte e se ci sia, non di cosa si sta perdendo, non quello dell’eventuale spreco, ma quello che mi sento definire come La Grande Domanda Logistica: chi mi ritroverà? cosa posso fare affinché a trovarmi non sia chi mi ha voluto bene? Tutta la corrente elettrica del mondo non può rispondere a questo interrogativo.
Una corrente fenomeno fisico tra fenomeni fisici, dove a farsi nodo fondamentale del racconto è l’elemento del tempo e del ricordo, la costruzione del suicidio, la sua nascita come elemento necessario o come elemento contingente, la memoria di quello che avrebbe potuto essere, cosa sarebbe stata una madre senza alcool o la presenza fissa del pensiero che in fondo non sarebbe stata niente rispetto alla morte autoinflitta. Il suicidio è in questo senso tempo totale e come dice Antrim non si smette mai di morire anche da vivi.
“Un venerdì di aprile” è inoltre un libro fatto di piccoli affreschi, i compagni di malattia, i compagni e le compagne di vita, i medici, tutti schizzati sulla tela disperazione dell’autore. Siamo accompagnati all’interno di una spirale psichica che attrae e respinge, rapporti che si creano e rapporti che si deteriorano perché il suicidio investe anche chi vi si trova intorno, il suicidio pre-occupa in quello spazio del prima che ancora concede di andare-via-prima-che-succeda-qualcosa ma che allo stesso tempo costruisca la base per il rimanere-affianco in una rimodulazione dei rapporti, dei sentimenti, che non può prescindere dal significato che la malattia assume, in tutte le sfaccettature che possono affliggere anche il non direttamente malato. E non c’è giudizio etico in questo, ma solo la pura narrazione.
E al termine di tutto questo Antrim è un autore che per tutto il libro cerca di salvare le sue stesse parole ancora più che la sua stessa vita, offrendoci a un libro sul dono stesso della parola e quanto sia importante (almeno per lui) saperla cesellare, modellare, per come questa sia vita, la vita contro il suicidio. Per oggi la p