Oggi, 18 agosto, Roberto Pazzi (1946-2023) avrebbe raggiunto le 79 primavere: la sua assenza, in questo tempo di tregenda, è vieppiù sentita da quanti lo hanno frequentato, ne hanno assorbito la conoscenza e la cultura, si sono approvvigionati alla fonte delle sue opere. Così, per volontà della redazione de L’indiependente, mi è caro ritornare a scrivere qualche riga sull’epistolario “Come nasce un poeta” che avevo curato per Minerva Edizioni nel 2018 proprio su impulso entusiasta dello stesso Pazzi.
Vittorio Sereni (1913-1983), direttore editoriale della Mondadori dal 1958 al 1975, è stato il suo mèntore, di più: la sua nota apparsa nel 1969 su “Arte e Poesia”, nella quale definì un breve componimento del ferrarese “un fragile capolavoro”, ha rappresentato l’ideale lasciapassare (ve ne sono ancora di maestri così, al giorno d’oggi?) per accedere al mondo culturale che contava. Fresco di laurea in Lettere Classiche con una tesi in Estetica sulla poetica di Umberto Saba, Pazzi si dedicò subito a cercare una propria, originale strada nel campo delle lettere e segnatamente dei versi. La trovò, con impegno, con costanza, con dedizione, con fervore: e tutto ciò è bene evidente dalle missive che compongono il carteggio in questione (oltre novanta complessivamente quelle intercorse tra i due protagonisti nell’arco di tempo che spazia dal 1965 al 1982), da cui traspaiono inizialmente una certa intemperanza giovanile per giungere subitaneamente al “traguardo”, l’estrema formalità tra i due che poi lascerà spazio nel tempo a una maggiore confidenza senza mai perdere in deferenza, una sorta di venerazione che l’allievo nutre nei confronti di ciò che Sereni gli consiglia e gli suggerisce. Scorrono poi i nomi più significativi della letteratura del Novecento, citati o accennati a margine di conversazioni.
Quel “grumo di espressività latente” nell’ambito poetico, diceva il ferrarese, lo portò a indirizzare i suoi esordi in questo genere lambendo i territori della prosa per poi arrivare a una “ridefinizione” del proprio percorso nelle raccolte che seguirono. In lui l’urgenza di pubblicare (nel 1973 uscirà il suo primo libro sotto il titolo “L’esperienza anteriore”, per la piccola casa editrice “I dispari”, recensita tra l’altro da un giovanissimo Vittorio Sgarbi il cui testo è stato inserito nell’epistolario) è temperata da uno studio vorace dei classici e dei contemporanei dai quali subisce inevitabilmente influenze. Sereni a tal proposito parlava esplicitamente e ironicamente di “raffreddori” verso questo o quell’autore invitandolo a intraprendere una strada più personale, più originale e lo stesso Pazzi non fa mistero, in una delle lettere, di attendere “un giudizio che mi aiuti a sapere limiti, caratteristiche, possibilità di quello che ho espresso”. Non solo: era nota l’avversione del luinese per le pubblicazioni a pagamento e in un’epistola del giugno 1968 che qui riportiamo quasi integralmente metteva in guardia l’allievo, che ne sembrava in un primo momento attratto, dal ricorrervi, non senza incoraggiarlo ad attendere il giusto tempo della fama e a frequentare il più possibile persone, insomma, a vivere:
“Supponiamo pure che lei acceda alla prassi della pubblicazione a pagamento. Che cosa ne ricava? Ma certo, si è dato il caso di gente che ha fatto così e che poi ha sfondato in un senso o nell’altro. Ma qui le eccezioni non confermano la regola: un caso isolato non autorizza a pensare che questa sia la strada giusta e la regola, se esiste, è di dar tempo al tempo e di lasciare che maturi un’occasione per pubblicare e per cominciare a riscuotere interesse anche da una sola persona. E poi creda a me: oggi è più facile entrare in un gruppo che tiene viva o ha avviato una discussione intorno a determinati tipi di interesse che non essere cooptati per quanto singolarmente, individualmente si scrive. Legga e studi, cerchi di individuare un piano di interessi attuali, conosca gente, si renda conto di ciò che si muove intorno a lei, quali sono i tasti cui sono più sensibili i suoi coetanei. La pubblicazione delle poesie non risolve niente per sé stessa neppure in senso mondano. Si liberi una volta per tutte del mito del giovane che si fa strada e vedrà che tutto le riuscirà più facile e che soffrirà meno del fatto di essere inedito. Tanto, quando non lo sarà più, proverà un senso di vuoto e arriverà al punto in cui pubblicare è la cosa più facile e anche più routinière di questo mondo – e la meno appetibile. Insomma l’importante non è pubblicare e se alla sua età sembra che lo sia se non altro perché al primo momento non ci si riesce, stia attento a non pubblicare dove capita e si domandi bene prima chi pubblica le sue cose e quali colleghi lei ha scelto. Tanto per cominciare scarti la pubblicazione a pagamento che non le servirà nemmeno a farsi conoscere o la farà incappare in pessimi padroni e compagni di strada. Io la terrò d’occhio e sarò io ad aiutarla se ne avrò modo e se avrò modo di non farlo a vuoto. Sin qui il modo non c’è stato, ma prima o poi lo troveremo e intanto lei avrà fatto altre cose. Chi sono le persone con cui ha parlato nel frattempo, di chi e cosa si interessano, in che zona operano? Anche questo andrebbe esaminato”

Il valore che rivesta la poesia per l’allievo è piuttosto evidente da un’altra missiva con la quale mette a conoscenza l’interlocutore:
(…) È veramente di grande conforto per me sapere che almeno Lei mi stima capace di scrivere poesia. Lei conosce bene le mie reazioni: forse più non sa che la mia impazienza di una volta è limitata ora in qualcosa di pericolosamente fatalistico ed amaro, qualcosa come una coscienza di sé ferita. La mia poesia da dieci anni – Lei ha assistito a questo farsi – è la costante e continua verifica di me con me e di me con gli altri. E il fatto che non scrivo altro che poesia è un’ulteriore prova dell’assoluto che essa costituisce per me(…)
Il rapporto epistolare che acquisisce sempre più la forma di un’iniziazione culturale e professionale è spesso contenitore di confessioni, commenti, suggerimenti, richiami alle rispettive esperienze personali e familiari: i due, del resto, frequentavano assiduamente, appena il lavoro glielo consentiva, la piccola località ligure di Bocca di Magra, buen retiro per larga parte del Novecento di poeti e letterari non solo italiani e dove Pazzi svernava nella casa dei parenti materni, proprio vicino a quella di Sereni che non a caso dedicò a questo borgo, frazione della spezzina città di Ameglia, il poemetto “Un posto di vacanza” apparso nel 1971. È proprio dalle divagazioni fuori dall’ambito strettamente letterario che Pazzi confessa la propria scelta in fin dei conti di restare a dimorare in una città di provincia, Ferrara, non seguendo quindi altri illustri concittadini come Michelangelo Antonioni, Giorgio Bassani e Lanfranco Caretti che fecero invece fortuna nelle metropoli. Così scrive lo stesso Pazzi in una lettera dell’aprile 1978, al tempo in cui era docente presso la scuola secondaria di secondo grado:
“Come mi piacere cambiare aria, lavoro, città! Come dire “cambiare pelle, come confessare che vedo i “muri” cresciuti intorno a me senza che me ne accorgessi, ma nelle grandi città ci sto male, non so fare a viverci bene, quel poco che ho conosciuto dei loro ambienti letterari mi ha fatto rimpiangere la solitudine della provincia”.
Sereni, se fu l’artefice del successo da esordiente di Pazzi nella poesia, non avrà modo di assistere ai progressi compiuti nella narrativa: morirà infatti nel febbraio 1983, due anni prima dell’uscita di “Cercando l’Imperatore” che valse al suo autore oltre all’illustre prefazione di Giovanni Raboni diversi premi tra cui il Selezione Campiello e una pressoché unanime considerazione positiva tra il pubblico e i critici letterari. Tuttavia il manoscritto originale intitolato ”Nicola e Dio”, abbozzato già a partire dal 1980, fu visionato dal poeta di Luino che vi trovò originalità non comuni. L’epistolario è introdotto da un’intervista che realizzai a Pazzi nella quale questi non lesinò ringraziamenti a Sereni:
“Se mi sento debitore? Sì, soprattutto di una cosa: puntare sulla poesia per una rivincita o un risarcimento sociale, per una specie di ambizione, per la pretesa di uno status di scrittore. (…) Ma gli sono soprattutto debitore della non scelta, del non schierarmi partiticamente(…)
A Vittorio Sereni
Per otto anni il mio orologio
ritardava un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Poi una mano lo aprì, e ora
anticipa di un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Risanato cammino, operato
invece che al cuore al tempo.
È una convalescenza da tutti
i ritardi sommati nelle mie arterie,
gli antipodi forse camminano così.
È spostato l’asse celeste del
cervello, di qualche grado in meno
inclinato sul piano della morte,
gioca con orbite di stelle più lontane.
Per fare i conti di quanto
debbo restituire di anni rubati
scrivo queste operazioni.
(Da una lettera inviata da Roberto Pazzi a Vittorio Sereni datata 8 novembre 1981)