“Euforia”, scritto da l’autrice svedese Elin Cullhed al suo esordio nella letteratura, non è una biografia, ma un romanzo la cui protagonista è una versione più o meno attendibile della poetessa Sylvia Plath, un personaggio frutto di studio, ossessione e sensibilità di Cullhed stessa. Perché, allora, chiamarla Sylvia Plath? Forse perché nella vicenda personale della poetessa statunitense c’è un ciclo vitale completo fatto di esperienze “femminili” ignorate e minimizzate da sempre anche in questa contemporaneità che si dichiara moderna; la vita di Plath, allora, risuona come un archetipo nelle teste di chi legge. I suoi “Diari” sono ancora adesso un viaggio letterario complesso e ripido nella mente di una delle più grandi, anche se Plath a suo tempo ancora non lo sapeva. In “Euforia”, in Italia pubblicato da Mondadori nella traduzione di Monica Corbetta, non serve cercare accuratezza storica o letteraria perché c’è già quello che serve: Sylvia, la protagonista, Ted Hughes, il marito poeta, i loro due figli, Frieda e Nick, e il periodo nel Devon, Inghilterra, tra il 1961 e il 1962. Ma oltre ai protagonisti ci sono anche Adrianne Rich, poetessa rivale amata da Plath, i vicini di casa e la levatrice descritti già nei “Diari” e, infine, tutta la furia creativa e distruttiva di cui Plath è capace, tra depressione con due figli a carico, un marito infedele e la ricerca continua di ispirazione e parole.
“Euforia” si apre con una lista, “Sette ragioni per non morire”, datata 7 dicembre 1962, una beffa o una furberia dell’autrice, sta a chi legge stabilirlo, che porta subito il pensiero alla fine della vicenda Plath, suicida pochi mesi dopo quella data, nella casa di Londra in cui abitava dopo il divorzio. Il romanzo inizia subito dopo, come se nulla fosse, nel dicembre del ’62. Ted sta lavorando, Sylvia non riesce a scrivere, invece, perché incinta di Nick e con la piccola Frieda da accudire, urgenza che riguarda solo lei, mentre Hughes è preso dal sacro fuoco dell’arte. Cullhed si immerge fin da subito nel profondo senso di ingiustizia che pervade l’intera vicenda di Plath e che attualizza rendendola ancora più contemporanea ora che il dialogo sulle responsabilità perenni delle donne, quelle che non si estinguano mai, sembra prendere più piede. E con il peso della gravidanza, voluta da Plath, che ci si affaccia sul precipizio mentale del personaggio.
In una lettera avevo scritto alla mamma che d’un tratto mi piaceva cucire e dedicarmi ai lavori manuali; ecco cosa mi aveva fatto la gravidanza: mi aveva resa pigra e amabile. Volevo sfogliare riviste femminili e non essere impegnata in attività intellettuali.
Sylvia sta mentendo a se stessa e a sua madre, rimasta negli Stati Uniti, ma stringe i denti per compiacere Ted e soddisfare lo stereotipo della madre che rinuncia a tutto per accudire i suoi figli, l’unica cosa davvero importante. E cosa rimane dell’incredibile talento di Sylvia? Le briciole, il resto sarebbe venuto solo dopo la sua scomparsa. «Sii felice! Ero la moglie di un marito scrittore, non era quello che volevo?»; si fa forza da sola, sperando che così si sarebbe convinta che aveva già tutto ciò che le serviva: una figlia adorabile, una casa nella campagna inglese, un marito amato, affascinate, geniale. E mentre tenta di convincersi fino allo sfinimento, marcisce dentro.
«[…] avevo deciso che le giornate a casa come moglie di Ted dovevano essere così»; tutta Sylvia Plath, o meglio, il personaggio Plath ideato da Cullhed, è in quel “avevo deciso”, che comunica l’intenzione di imporsi una vita che la opprime nel vano tentativo di modellarsi a piacimento di Ted. Ma in questa vita Sylvia scoppierà. E mentre Ted scrive e compone, relativamente ignaro, nella mente di Sylvia tutto decade fino a farla ritornare in una spirale ossessiva e depressiva già provata in passato, ma questa volta viziata da nuovi sensi di colpa, enormi, nuova inquietudine, devastante, e infinito senso di inadeguatezza, anche se “La campana di vetro”, il suo unico romanzo, è pronto e uscirà solo qualche mese dopo in Inghilterra. Se lo ripete spesso, il personaggio Sylvia, che il romanzo è pronto, che la borsa di studio per la sua pubblicazione è stata meritata, come a volere legittimare il suo essere scrittrice, verità che vacilla costantemente. Colpa della sua identità divisa tra scrittrice, madre, moglie e amante; scrittrice era quello che era per vocazione, il resto era tutto ciò che si aspettavano da lei, Ted e gli altri.
«Sapevo che tutti erano felici quando la mia scrittura taceva, perché allora anche il lupo taceva (il più delle volte)». Ma gli occhi di questo lupo «brillavano nel suo inconscio» e riemergono feroci a ogni rifiuto editoriale e incomprensione coniugale. Solo Frieda e Nick si salvano in questa furia distruttiva fatta di risentimento e insoddisfazione.
Dovevo essere brava – dovevo essere istruita – dovevo avere una laurea e allo stesso tempo dovevo essere quella donna libera che lei [la madre], prigioniera della sua generazione, non avrebbe mai potuto diventare del tutto. Dovevo essere famosa (il giusto), dovevo partire per posti lontani e raggiungere la competenza professionale – la scrittura – di cui lei non aveva mai potuto fregiarsi […].
Una e molteplice Sylvia, preoccupata di accontentare chi può, ossessionata dalla ricerca della felicità, un valore assoluto e indefinito senza il quale, però, non è “brava”, né amabile , soprattutto agli occhi di Ted. L’amore e la gelosia per Ted Hughes, del resto, sono gli altri temi portanti di “Euforia”, così come lo scontro quotidiano e dirompente fra i due, con Ted che la delude, la incolpa e poi, infine, la tradisce con Assia Wevill. Anche Assia avrà una figlia con Hughes, nella vita oltre questo romanzo, anche lei si suiciderà poco più avanti, nel 1969.
La Plath scritta da Cullhed è una donna resa infelice dal marito, ma anche da se stessa e dalla depressione che le ha funestato l’esistenza intera, malattia più volte diagnosticata e curata con strumenti all’avanguardia per una donna di quel tempo, si pensi al rapporto strettissimo tra la Plath reale e la sua psichiatra, Ruth Tiffany Barnhouse Beuscher. Cullhed riesce a riprodurre la claustrofobia della malattia mentale e a declinarla nei monologhi interiori, nel perenne rimuginare sui rapporti e le persone, nella passione infinita per l’arte e la letteratura, vero talento di Plath. Per questo “Euforia” è un romanzo emotivamente faticoso, scritto alla maniera di Plath per esserle fedele quanto possibile e far dimenticare le libertà “storiche” della biografia, furbo in certi punti, scontato in altri quando ritrae una Plath troppo letteraria per essere vera e tradisce l’intento di raccontare una donna tridimensionale. Ma la tensione emotiva cresce con rapidità, fino a quando tutto si rompe: Ted va via lasciando il carico di colpe e responsabilità a Sylvia; lei, allora, in preda a una felicità isterica che ostenta, soprattutto, alla madre, si trasferisce a Londra nella casa di Yeats, poeta amatissimo. In questa felicità isterica comporrà le poesie di “Ariel”, raccolta capolavoro uscita postuma nel 1965.
Nei “Diari”, precisamente il 25 febbraio del 1956, Sylvia Plath scriveva: «Probabilmente sono stata troppo intensa con tutti loro» riferendosi alle frequentazioni avute fino a quel momento. Ha incontrato per la prima volta Ted Hughes proprio in quel 25 febbraio, e l’intensità menzionata è destinata solo ad aumentare. I “Diari” di Sylvia Plath si fermano al 16 maggio 1962, è in questo vuoto che si inserisce il romanzare libero di Elin Cullhed che ha il merito di dettagliare come si tramonta un’esistenza infinita come il genio di Plath, ma erosa pezzo dopo pezzo fino all’euforia prima dell’addio definitivo.