«I fogli bianchi sono la dismisura dell’anima
e io su questo sapore agrodolce
vorrò un giorno morire,
perché il foglio bianco è violento.
Violento come una bandiera,
una voragine di fuoco,
e così io mi compongo
lettera su lettera all’infinito
[…]»
A. Merini, I fogli bianchi sono la dismisura dell’anima
«Per troppa vita che ho nel sangue
tremo
nel vasto inverno.
E all’improvviso,
come per una fonte che si scioglie
nella steppa,
una ferita che nel sonno
si riapre,
perdutamente nascono pensieri
nel deserto castello della notte.
[…]»
A. Pozzi, Sgorgo
«[…] tutta la vita è arida e deserta,
finché in un punto si raccolga in porto,
di sé stessa in un punto faccia fiamma.»
C. Michelstaedter, Poesie
«[…] come l’ape che troppo miele ha raccolto ho bisogno di mani che si protendano. Vorrei spartire i miei doni, finché i saggi tra gli uomini tornassero a rallegrarsi della loro follia e i poveri della loro ricchezza. […] Benedici il calice, traboccante a far scorrere acqua d’oro, che ovunque porti il riflesso splendente della tua dolcezza! Ecco, il calice vuol tornare vuoto, Zarathustra vuol tornare uomo.»
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Lo Zarathustra di Nietzsche lascia il paese natio per stabilirsi sulle montagne, restarvi dieci anni e poi scendere tra gli uomini per spartire i suoi doni, perché il calice traboccante vuole tornare vuoto – e non può non venire in mente la personalità, l’anima di Antonia Pozzi che vorrebbe sgorgare per donarsi: «Il mio disordine. È in questo: che ogni cosa è per me una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi.»1 Sentirsi stipati di una traboccante “acqua d’oro” e scontrarsi con il mancato accoglimento da parte del mondo può causare spropositata sofferenza, come fa notare Matteo M. Vecchio in una lezione sulla poetessa, pubblicata nel libro Tre imperdonabili,2 dove l’imperdonabilità è intesa come «visceralità» in un compenetrarsi di vita e di pensiero.
“Vita più che vita” è, nella concezione pozziana, la poesia, «attività totalizzante», «lavoro e travaglio in direzione di una vita potenziata nella dinamicità della sua stessa chiarificazione.»3 Vicino ad Antonia che «getta nelle cose» la propria «anima più grande» per perderla in una emorragia sfiancante e priva di compensazioni, Vincent Van Gogh, in una lettera al fratello, testimonia quanto sia doloroso avere un «grande fuoco nell’anima»4 a cui nessuno viene a scaldarsi. Essere colmi di doni o colmi del desiderio di donarsi e non avere nessuno che quei doni li accolga; essere un albero carico di frutti di cui nessuno ha fame, una fonte rigogliosa in un paese senza sete, significa soccombere sotto «l’enorme cumulo / inofferto».5
Ma un eccesso di vita, una sovrabbondanza d’essere, indipendentemente dai muri contro cui si sfascia, per natura propria (per un sistema di bilanciamenti che fa parte degli arrangiamenti della natura), può condurre all’annientamento, al crollo. «La lampada si spegne per mancanza d’olio / io mi spensi per traboccante sovrabbondanza»6 scrive Carlo Michelstaedter che, nella prima pagina dell’autografo della Persuasione e la rettorica, disegna una lampada che si spegne perché l’olio trabocca.
«Sono una vigna, ma troppo concimata»,7 confida Cesare Pavese all’amico Davide Lajolo, e in una poesia giovanile, scritta in epoca liceale, quando già lo tormenta il pensiero del suicidio: «eppur a tratti / mi sento traboccare di una vita / caldissima, potente, che se mai / riuscissi a esprimere, sarebbe colma / tutta la mia esistenza!» In diversi frammenti dello Zibaldone, Giacomo Leopardi riflette sulla corrispondenza tra vitalità e infelicità: siamo tanto più infelici quanto più è intensa in noi la forza vitale dell’animo e dunque il «sentimento dell’esistenza» e il desiderio di una felicità assoluta.8
Nell’universo, sono le stelle più calde e dal più intenso splendore a generare i buchi neri. Esplosiva come stella massiccia, l’anima di Emily Dickinson, nelle fasi di evasione, «scardina tutte le porte / esce come una bomba / e volteggia sopra le ore // come un’ape in delirio».9 Quella della Dickinson è una dismisura che trova la propria libertà nel segreto di una stanza – «silenziosa vita di vulcano»,10 la sua, dove l’incandescenza e la potenza della lava in eruzione confluiscono nella dedizione assoluta e ribelle alla poesia.
Esuberante, invece, la dismisura di Alda Merini, «piccola ape furibonda» condannata a subire le atroci violenze del manicomio, perché la troppa anima può diventare malattia, almeno agli occhi del mondo. Albert Camus fa dire a uno dei personaggi del dramma Caligola: «Come tutti gli esseri senz’anima non potete sopportare chi ne ha troppa. La gente sana detesta i malati. Chi è felice non può vedere chi soffre. Troppa anima! Che seccatura, no? Allora si preferisce chiamarla malattia: e tutti sono in regola, contenti.» Follia, quella di Alda Merini, o troppa anima che diventa malattia nel momento in cui si scontra con i limiti imposti da un mondo creato a misura di una normalità statistica?
«Molta Follia è il più divino Senno –
A un Occhio perspicace –
Molto Senno – la più assoluta Follia
È la Maggioranza
In questo, come in Tutto, a prevalere –
Approva – e sei sano –
Obietta – sei subito pericoloso –
E trattato con Catene –»
Emily Dickinson, 435 (traduzione Giuseppe Ierolli)

Da un punto di vista forse divergente, lo stato di salute mentale è uno stato di quieto delirio, di follia approvata e condivisa. Malattia è il franare dell’illusione e lo scoperchiarsi di un aperto vedere che ha l’ampiezza del grido d’angoscia e del silenzio attonito. La natura ha posto un sistema di scissioni mentali, una stratificazione di velature e fantasmi che si spacciano per traguardi, come rimedio a una coscienza tanto acuminata da minare la sopravvivenza della specie. Dove questa follia di protezione si spezza, subentra quella che gli uomini chiamano malattia e che invece è la massima limpidità di sguardo. Se dunque per salute si intende ciò che favorisce l’adesione a un sistema di finzioni, distrazioni e deviazioni del pensiero che preservano dal confronto con l’assurdità dell’esistenza di coscienze gravide d’infinito che in un batter d’occhio sono cenere, e di tutte le contraddizioni di cui il pensabile si compone, allora la verità non può che stare dalla parte della malattia.
La follia – ci ricorda Eugenio Borgna in uno dei suoi preziosi libri – è la sorella sfortunata della poesia,11 e abita in ciascuno di noi. Alcuni psichiatri sostengono che non esista una linea di demarcazione tra sanità e malattia, ma piuttosto un ampio ventaglio di colori mediani tra le due condizioni, nell’arcobaleno dell’umana instabilità che tutti noi comprende.
Conobbero il manicomio, tra gli altri, anche Antonin Artaud – secondo cui il vero artista dovrebbe sentirsi come un condannato al rogo che faccia segni tra le fiamme e il teatro è «una malattia che fa cadere le maschere e mette a nudo la menzogna» – e Dino Campana, nelle cui “tempeste emotive”12 «le idee brillavano della più pura luce stellare» e i drammi più meravigliosi dell’anima umana «palpitavano e si rispondevano a traverso le costellazioni…»
«Tutto palpita e si corrisponde» scrive Marco Ercolani, nello stato meraviglioso e “pànico” in cui l’io si abbandona «all’insorgere dei suoi demoni creativi.»
«Tutto batta, palpiti, commuova»13 è il titolo di un saggio che Matteo M. Vecchio ha dedicato alla tesi di Antonia Pozzi su Gustave Flaubert, opera caratterizzata, secondo Vecchio, da «incandescenza vitale» e «osmotica e viscerale radicalità tra vita e lavoro analitico.» Radicalità e incandescenza: tratti comuni di chi si frantuma in volo come l’onda che si schianta contro la roccia e sale, come di chi cade a terra sfinito dall’impossibilità di non accogliere. Si può crollare per troppa forza del sentire. Flaubert, a cui fu diagnosticata una “malattia nervosa”, si definisce «dotato di una sensibilità assurda: quel che produce in altri una graffiatura, in me produce una lacerazione.»
Per le persone definite “altamente sensibili”14 è troppo ciò che per una maggioranza costituente la norma è quasi niente: troppo violente le luci, i rumori; troppi gli sciami di onde (emozioni, percezioni, pensieri diramanti) sferrate da ogni incontro, ogni minimo evento, ogni scossa d’ascolto; troppa la ricchezza di ogni briciola di vita per poterla elaborare in tempi brevi; troppo fondo ogni tormento, troppo alta la gioia – vertiginosa, qualche volta, fino all’estasi di cui Emily Dickinson afferma di non poter fare a meno15; troppo intollerabile ciò che è ingiusto – fino alla furia e alla rivolta. Troppo teso, come in un perenne tremore di migliaia di corde sottili, l’essere intero – fino alla disfatta.
Pare incorra più facilmente in patologie umorali, disordini neurovegetativi, disturbi alimentari e altro (specie in una società incapace di supportare le differenze nel loro valore), chi ha una smodata attitudine a vibrare per un soffio di foglia che cade; chi non riesce ad agire senza scopo, a studiare senza piacere, chi non è capace di rassegnarsi al vuoto di senso; chi di fronte ai mali universali sta con le palpebre strappate; chi proprio non ce la fa ad adagiarsi in una normalizzata sopportazione dell’infelicità, dell’oblio, del niente condiviso senza morirne.

“Troppa vita nel sangue”, troppo cielo nella carne (spesso una spiritualità troppo accesa e nessun credo), significa non sapersi rassegnare a vivere piegati all’indifferenza, alla superficialità, all’ingiustizia. E significa anche non potere fare a meno di superare sé stessi continuando a spezzare i propri volti, come si fosse vincolati ad andare sempre oltre, anche oltre il fondo terminale, spaventoso, della piena consapevolezza della realtà, dove pensiero e parola si separano, dove non c’è più niente da dire e rimane tra le costole un grido incavato che contiene tutte le grida della Terra. Ma quando si è incatenati ad andare oltre, la disperazione può diventare lo strappo che ribalta vertiginosamente la prospettiva. È malattia o verità ulteriore la percezione di una segreta trama delle cose, di una misteriosa complessità? E sentire l’infinito nella luce del sole? O forse una malattia è un cunicolo privilegiato per accedere all’infinito?
Non vedo del resto perché una patologia che stravolge o squilibra la mente non possa rappresentare un modo per sfondare la gabbia dei pensieri convenzionali, degli autoinganni a cui siamo assuefatti. Lo stesso fa la poesia con il linguaggio – lo scompagina, lo fa saltare in aria. È un disequilibrio di forze a far sì che una nebulosa inizi il collasso e da essa possa nascere una stella. Altro esempio della valenza creatrice dello squilibrio lo mostrano i cristalli: «La velocità di crescita dei cristalli dipende dal disequilibrio, descritto dalla differenza di potenziale chimico tra il fluido e il solido. In particolari condizioni di instabilità fisico-chimica i cristalli crescono assumendo forme complesse, ramificate.»
Benché ci si possa ammalare a causa di una abnorme tensione vitale, o, come suggerisce Cristina Campo, di uno «sguardo troppo chiaro»,16 anche il pensiero è corpo: di reazioni chimiche, impulsi elettrici, interazioni ormonali sono costituiti pensieri, emozioni, visioni del mondo. Tutte le malattie sono malattie del corpo; la psiche non può davvero ammalarsi: è un’entità indefinibile e sfuggente che esorbita dai confini della materia così come la luce di una lampadina si espande al di là del vetro. La luce di una lampadina è generata dai circuiti, e i circuiti possono avere un difetto che rende la luce instabile, ma nessuno direbbe mai che è la luce a essere difettosa, o malata. Allo stesso modo forse non è corretto affermare che una psiche, e dunque un’anima (secondo l’etimologia), può ammalarsi poiché essa è sfuggente come un raggio di luce (insieme particella e onda, di inarrivabile velocità).
Se è gravemente rischioso patologizzare le forme di sofferenza e le stranezze comportamentali che valicano gli immaginari confini della sanità, come ogni grido di rivolta e manifestazione di una impossibilità di adeguarsi alle regole dettate dalla maggioranza, esistono tuttavia mali, catastrofi, inferni interiori che meritano la definizione di malattia e, anzi, ne hanno necessità, innanzitutto per ottenere il riconoscimento della loro serietà.
In una cultura della forza, dell’efficienza, della competitività, che insegna a marciare agguerriti e sicuri di sé verso un trofeo vestito di slogan, ogni soffrire annichilente, se non rientra nella recinzione protettiva o ghettizzante della patologia, rischia di venire colpevolizzato.17 Quando si ha a che fare con l’unicità di una mente, le diagnosi sono scatole imperfette, spesso arbitrarie, lontane dalla ricchezza di sfumature del vissuto individuale, ma chi le riceve, magari dopo anni di crocefissioni invisibili e incomunicabili, prova sollievo e ritrova un indefinito sperare. Abbiamo bisogno di nomi per racchiudere, di forme per creare ordine, di illusori confini per dimenticare di essere smarriti; vivere è un’ancestrale guerra persa dell’ordine contro il caos (fisica termodinamica e mitologia universale qui si incontrano).
È tuttavia un bisogno parimenti vitale quello di dissolvere nomi e forme per restituire l’essere a una oceanica fluidità, come sa fare ad esempio la musica. L’utilità di un nome, di una definizione, consiste anche nel suo sbriciolarsi quando musica, arte, poesia, risvegliano l’intatto tesissimo tendere di quel qualcosa che ci viene spontaneo chiamare “anima”, una disperata intensità che nessuna forma racchiude, che nessun nome frange.
Consanguinea della «disperata vitalità» di Pasolini, una disperata intensità è ciò che sentiamo di noi vivo anche nel morire e infinito pur nella morsa dei limiti, delle contingenze, delle malattie (di qualunque genere esse siano, quelle psichiatriche non meno serie e degne di rispetto delle altre).
È radicata alla dismisura verticale dello slancio («dirigere i propri passi solo verso l’alto, la direzione in cui è impossibile andare»18), la visione che della follia ha la tradizione mistica (occidentale, ma non solo), dove la figura del “folle di Dio” è accostabile a quella del santo. San Francesco era un folle di Dio.19 E Simone Weil così definisce la follia d’amore, che spinge ad amare tutti in ugual modo, anche il nemico: «È veramente una follia. Getta in pericoli che non si possono correre se si è accordato il proprio cuore a qualcosa che appartiene a questo mondo […] Il risultato a cui la follia d’amore ha condotto il Cristo, dopo tutto, non è una buona referenza per essa.» Inoltre, in una lettera ai genitori scritta poco prima di morire, Simone si paragona ai folli di Shakespeare, che dicono la verità ma non vengono capiti.
Aprire gli occhi, i molteplici occhi del nostro essere corpo-mente – occhi dei sensi, dell’intelletto, dell’intuizione, dell’empatia, della memoria, legati l’uno all’altro da una fittissima trama elettrica come cellule di un unico organico vedere – significa trovarsi di fronte all’insolubile e all’incomprensibile.
«Il pensiero urta contro il dolore fisico, contro la sventura, come la mosca contro il vetro, senza poter progredire in alcun modo né scoprirvi nulla di nuovo, e senza potersi impedire di tornarvi. Così si esercita e sviluppa la facoltà intuitiva» scrive Simone Weil in uno dei quaderni, e ciò vale anche per certe forme di sofferenza psichica. Il pensiero si affina muovendosi tra impossibilità. Quanto più si misura con l’insolubile, tanto più crescono i suoi muscoli di scavo, soprattutto se a lungo scava a vuoto, nella cieca disperazione. Ma il vertice della sua maturazione consiste nell’imparare a cedere, a rovesciarsi all’indietro nell’intuizione, nella poesia. Annota Simone Weil: «Una poesia è bella nella misura esatta in cui l’attenzione, nel comporla, è stata orientata verso l’inesprimibile.»20
Attenzione tesa all’inesprimibile, a ciò che non può essere pensato, a una luce intravista che continuamente sfugge, la poesia sfiora – e ci permette di sfiorare (come lettori o scrittori) – una verità che scardina la verità considerata ultima e terminale. Se lo svelamento primo è quello del pensiero che strappa via le tende, lo svelamento secondo lo produce la poesia (l’arte in tutte le sue forme) nel momento in cui si abbandona alla ricezione di un fondo dell’essere, di un retro delle cose a cui il linguaggio discorsivo non arriva.
“I fogli bianchi sono la dismisura dell’anima”. Certi stati alterati della mente ci avvicinano a verità più profonde di quelle intellegibili proprio perché ci allontanano dalle parole. In giorni senza lingua, vuoti come un vaso di vetro sul davanzale del silenzio, mentre una debole luce ci attraversa anche se è l’ora del tramonto e ci sono le nuvole, sentiamo che tutto è chiaro pur senza capire e senza poter dire; le parole non potrebbero portare altro che confusione in quel chiarore innominato.
Qualche volta la poesia è un sentire nudo nel vuoto; c’è una poesia che permane anche dove la dismisura è silenzio, dove sono scomparse tutte le parole, e in questa poesia muta, che coinvolge tutto il creato – che è degli alberi, delle formiche, dei gatti, non solo di noi animali scriventi – troviamo la spinta a continuare.
Silvia Giacomini, maggio 2025
Note:
1. A. Pozzi, 4 febbraio 1935, Diari e altri scritti, nuova edizione a cura di O. Dino, note ai testi e postfazione di M. M. Vecchio, Milano, Viennepierre, 2008, p. 39
2. Sulla necessità di Antonia di fare dono di sé riflette Matteo M. Vecchio secondo il quale lo scontro tra slancio del donarsi («se getto nelle cose la mia anima / più grande») e mancato accoglimento da parte dell’altro è una delle più profonde sofferenze della poetessa.
M. M. Vecchio, Tre imperdonabili, Firenze, Le Cáriti, 2022, p. 59
3. M. M. Vecchio, Antonia Pozzi: l’anima delle cose, Firenze, Le Cáriti, 2024, p.147
4. V. Van Gogh, lettera a Theo, giugno 1880.
5. A. Pozzi, I fiori, in Parole, tutte le poesie, a cura di G. Barnabò e O. Dino, Milano, Àncora, 2015, p. 203
6. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Milano, Adelphi, 1984, p. 197.
7. D. Lajolo, Il vizio assurdo, storia di Cesare Pavese, Milano, Mondadori, 1975, p. 10 e p. 67
8. «L’uomo è tanto più infelice, generalmente, quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama animo.» G. Leopardi, Zibaldone, [3922]
9. E. Dickinson, The Soul has Bandaged moments, 512
10. E. Dickinson, A still – Volcano – Life –, 601 (Qualcuno traduce still con tranquilla.)
11. E. Borgna, L’attesa e la speranza, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 19
12. M. Ercolani, Dino Campana (Tempesta emotiva) in Galassie Parallele, storie di artisti fuori norma, Genova, Il Canneto Editore, 2019, p.149-155
13. M. M. Vecchio, Tutto batta, palpiti, commuova. Antonia Pozzi e Gustave Flaubert, in Antonia Pozzi: l’anima delle cose, Firenze, Le Cáriti, 2024, p. 187
14. Sull’alta sensibilità si vedano:
E. Aron, Persone altamente sensibili, Milano, Mondadori, 2018
N. Travaini, Tutto, tanto, sempre, Milano, Rizzoli, 2020 (Nuova edizione aggiornata: Independently published, 2024).
(Sebbene la definizione “alta sensibilità” possa apparire vaga per via del largo utilizzo che comunemente si fa del termine “sensibilità”, e gli studi a riguardo non siano purtroppo noti in Italia come invece in altri paesi, è auspicabile che ogni psichiatra e psicoterapeuta sia consapevole che un venti per cento circa degli individui (umani e non) possiede una differente modalità di ricezione ed elaborazione degli stimoli esterni e interni, che potrebbe rientrare in uno spettro ampio di neurodivergenza. Non malattia, dunque, in questo caso: funzionamento, si potrebbe dire, come per l’autismo, o “tratto di personalità”).
15. E. Dickinson, Take all away from me, but leave me Ecstasy, 1640
16. Così Cristina Campo definisce i depressi: «quegli infelici, malati per lo più, come la principessa di Andersen, di uno sguardo troppo chiaro.» C. Campo, Un medico, in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 193
(Benché una condizione depressiva possa rappresentare la nigredo – opera al nero – di un processo di raffinamento della coscienza e della creatività e, come radicale spoliazione di sé, offra una via stretta per entrare in contatto con ciò che vi è di più essenziale nel fondo dell’essere, è importante sottolineare che la depressione clinica è una malattia dei neurotrasmettitori grave, invalidante, qualche volta mortale.)
17. Pare che le patologie psichiatriche siano sempre più stigmatizzate in un’epoca in cui il dilagare di informazioni incomplete diventa divulgazione superficiale se non inesatta. Da una parte c’è chi sottovaluta e disconosce la malattia, gettando in una tremenda frustrazione chi la patisce e spesso sopporta, in aggiunta, effetti collaterali anche severi di cure farmacologiche; dall’altra, c’è chi considera la sofferenza psichica una minorazione a cui non può venire associata, ad esempio, la produzione di significative opere d’arte o di pensiero. Mi è capitato di sentir negare con una tenacia preoccupante (e non mi inquieta il legittimo negare, ma la determinazione con cui lo si fa) che un noto pittore, un noto poeta e una nota scrittrice soffrissero di un disturbo psichiatrico, perché altrimenti non avrebbero potuto scrivere pensieri così lucidi o creare opere così grandi, come se le due condizioni, quella di malato e quella di creatore, fossero incompatibili, come se avere una patologia che riguarda la mente fosse una condizione deprecabile, disonorevole, indegna di un artista, di un poeta, di un grande pensatore.
Tramontata la concezione romantica, idealizzante, della comunione di “genio e follia”, resta una stigmatizzata follia intesa per lo più come offuscamento mentale. Peccato che le persone più lucide e introspettive, sobrie e libere, accade sovente di incontrarle tra coloro che hanno attraversato apocalissi dell’anima.
18. S. Weil, Quaderni, Volume terzo, Milano, Adelphi, 2009, p. 190
19. «“Santo” significa infatti “separato”, e tale separazione esiste anche quando è il mondo a giudicare il santo lontano, diverso, incomprensibile, addirittura “folle” – come fu, appunto, per Francesco. Folle, perché la realtà a cui il santo fa riferimento è quella divina, eterna, che si trova al di là di tutte le opposizioni, nelle quali rimane invece intrappolata la ragione naturale, che perciò, non può raggiungere la “verità tutta intera”.»
S. Moser, Una santità geniale, Simone Weil in dialogo con san Francesco, Firenze, Le Lettere, 2024, p.110
20. S. Weil, Quaderni, Volume terzo, Milano, Adelphi, 2009, p. 179 e p. 83