Dell’insula non v’è etimo certo – le possibilità di un’isola sono parimente multiformi. È scoperta esotica, ricreazione di una società speculare alla terrestre, limbo e rinascita spirituale, natura incontaminata, confino e prigionia, naufragio, beatitudine del dipartito, feria d’agosto, falsi profeti, raccoglimento monastico, genocidio invisibile, stasi e pellegrinaggio, residenza divina, devastazione ambientale, fuga. In tempo d’apocalisse, ogni isola dovrà scomparire, come i monti dileguarsi[1].
Nel 1998, a seguito d’una estate e un autunno di stanza a Ventotene e Ponza, nonché dirimpetto al carcere borbonico di Santo Stefano, Fabrizia Ramondino pubblicò per Einaudi L’isola riflessa, da anni fuori catalogo – ne uscì una seconda edizione, nella collana Arcipelago, nel 2017 – e consegnato in veste rinnovata al pubblico grazie alla solerzia di Nutrimenti che, entro l’aprile 2025, ne ha curato la riedizione all’interno del progetto Greenwich Extra, fondato da Giulia Caminito, Paolo di Paolo, Mattia Insolia e Loredana Lipperini, inoltre autrice della nuova prefazione.
Se, come ne disse Anna Maria Ortese, stupisce la straordinarietà della rappresentazione che sostituisce e aggiunge al nostro reale[2], la prima isola di Ramondino può esser una o tutte – esse costituiscono, ad oggi, circa il 7% della superficie terrestre del globo – e nessun nome la conchiude, poiché introdotta da una sola immagine di morte: si staglia, al centro della piazza, tuttavia «una piazza d’Italia», il monumento fascista ai caduti con la Patria nel cuore, eretto nel 1932 a partire da una colonna in marmo apuano scoperta a Villa Giulia nel 1926, corredata di capitello ionico e cratere a volute sommitali di fattura moderna. Al funereo indistinto concorre l’esasperazione delle cromie e della geometria degli edifici, assai prossime ai tratti del De Chirico metafisico; è il marmo romano, corrotto dal totalitarismo, a spezzarne l’incanto. In un tale incanto (o nella negazione dello stesso), Ventotene assume, alla stregua della narratrice, una doppia sembianza sia luminosa, o concreta, storica; sia oscura, o immaginifica, di sogno – figure mutate s’adeguano alla primavera stanca che è luogo appartato nel mare e corpo umano al contempo, in specie un corpo imprigionato e un po’ bambino.

Nell’ombra v’è la solitudine della malattia mentale che pare trasfigurare, pur senza la violenza del turista, lo stesso paesaggio, talora indagato con l’acribia del contadino medievale che, vivendo l’inganno delle stagioni, ne coglie le specificità botaniche e l’abbondanza – profumano l’ultimo autunno isolano i cachi e le sorbe appesi alla tettoia e le caldarroste dei vecchi – e talaltra forato perché se ne estragga il fulcro sentimentale, com’è il caso di quella tristezza tutta umana che permea l’elicriso, il cui sentore non può che ricordare il curry stantio chiuso nella casa perché non s’ha nessuno per cui cucinarlo. Paradossalmente, una simile iperbole olfattiva non può che insinuarsi entro coordinate spazio-temporali deformate e ben in linea col non-luogo che è L’isola riflessa: se Ventotene potrebbe essere, per gli specialisti omerici, l’originaria sede del canto rapinoso delle sirene, per la narratrice dapprima suicidaria e poi convalescente si fa luogo d’allucinazione e di fantasmi, dove l’incontro col prossimo non può che aver durata d’una notte ingentilita dalle musiche del teatro-danza. Così, le cinque donne islandesi biancovestite che offrono vino e marijuana scompaiono sottraendo qualsiasi lacerto di realtà, già obnubilata dall’alcol, e cedendo null’altro che nomi fittizi e quasi di muse: Agrippina, Domitilla, Giulia, Ottavia, Scribonia. Tutte e nessuna, come tutte e nessuna sono le voci tedesche della segreteria telefonica che, al rientro in stanza, perseguitano giungendo dalla dimensione altra che è l’entroterra – preclusa al confinato, al pirata e al maniaco depressivo che raccoglie gratuitamente l’immondizia lasciata in spiaggia dai turisti.
«Tu ti ricordi meglio di me di com’ero prima.»

Nonostante che gli stati maniacali o ciclotimici abbiano le potenzialità del carnefice, tra le cui mani un corpo non può che uscir frastagliato, Ramondino non s’abbandona al languore del sintomo ma mantiene la mordacia dell’occhio il quale, pur vedendo e riconoscendo «solo quanto gli è familiare», palesa, condividendone gli estremi e le tenerezze, l’umanità della parola e la minaccia dell’integrità, per definizione non concessa a chi vive d’un prima, o la presunta sanità, e d’un dopo, o la malattia. E una tale frammentarietà permea l’estate tutta – costituisce, questa, la prima sezione dell’opera – e l’isola, nella quale la protagonista va cercando l’albero a cui s’appese Alexander Langer, uccisosi tuttavia a Pian dei Giullari e sotto le albicocche; nonché l’amico Adriano Sofri, inviato al tempo a Sarajevo, ma che ella scorge tra i tavolini del bar e le carte da gioco. Non solo morti, bensì spiriti attivano la dipendenza, da Settembrini (spezzato tra la Zauberberg di Davos e l’onirica Ventotene) a Pellico, da Bini a Pertini, trascorrendo nella monumentale proiezione delle prigionie di Altiero Spinelli, che sull’isola coltivò patate, ed Ernesto Rossi – nell’antica Pandataria, il cui nome fu poi mutato con l’incalzare del vento, essi condividono il destino coi pirati, gli eremiti e colei che, quadernetto alla mano e raccolta una manciata di sonniferi, s’adagia trascinata dalle onde.
Alla luce – modula essa le spigolosità metafisiche della piazza e le tracce di prosperità che s’accompagnano alla canicola – compare invece il volume pieno e concreto della Storia, entro la quale Ventotene pare non potersi sottrarre al sovraffollamento turistico, da una decina d’anni globalmente noto come overtourism, del quale, già alla fine degli Anni Novanta, Ramondino delineò le aberrazioni. Alla scomparsa delle forme di sussistenza anticamente condivise, tra cui figurano la coltivazione della fava e della lenticchia, e al sentimentalismo borghese di cui s’ammantarono al tempo d’una prosperità parziale, si giustappongono la progressiva depersonalizzazione dell’originario confino e la perdita della bucolica «successione delle opere e dei giorni», sostituita dall’appressarsi periodico del turista più o meno temibile. Non mancano dunque, al fianco delle conversazioni fantasmatiche, registrazioni documentarie sulla costruzione d’un porto nuovo e adibito a punto d’ormeggio degli yatch moderni che, promettendo ricchezza, inquinano i mari e le spiagge, subitamente colme della plastica riversata dai forestieri. E assai paradigmatica è la menzione degli ormai infestanti affitti brevi, causa della definitiva alterazione del paesaggio naturale, urbano e comunitario – s’imbellettano le case, restaurate e ampliate illegalmente, e s’estirpano le pianticelle spontanee e autoctone; s’accoglie una quantità di nuovi arrivati tale da vanificare qualsiasi precauzione che garantisca tutela e valorizzazione del bene pubblico; con gaudio, s’ammicca ai fasti della cementificazione. Così se ne dice inoltre, da un lato, circa la rapida polarizzazione che scompone litorale ed entroterra, abbandono e desertificazione del quale non segue che la convergenza inevitabile di capitale, destinato alla festa e all’abbronzatura feriale; dall’altro, circa l’assedio tardo dei cacciatori di frodo, che convertono il convivio forzato d’Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann in una strage divertita, insensibile al ritmo sincero dell’esistenza isolana.
“È diventata un luogo qualsiasi. Penso a chi, nonostante tutto, l’ha amata, al punto da non volerla contaminare con il proprio cadavere e ha voluto che le proprie ceneri fossero disperse nel mare che la circonda.”
Ciò che, come logico, non ha evenienza entro un siffatto sistema di sfruttamento e mercificazione è la stessa morte consegnata in apertura, poiché nulla d’esteticamente edulcorato può giungere dalla tomba del confinato né dalla memoria delle grida dei prigionieri politici – il turismo di massa esige per assurdo la piena vitalità spogliata del proprio imprescindibile contrario. Contro il nascondimento delle vittime e delle loro tombe, da cui la probabilità d’altrettante vittime e tombe future, sostanziali divengono la testimonianza letteraria e la denuncia lucida di Ramondino, il censimento di frammenti ricordati che, alla stregua d’ecfrasi, segnalano la permanenza, sull’isola, dei perenni marchi d’infamia, com’è il caso delle punte recise dell’agave, invise al natante stagionale.

Se la sussistenza di una dicotomia tale, in aggiunta al tacito procedere della malattia, preclude all’autrice la comunicazione a una collettività ampia (quasi che in queste condizioni, impiccolendosi il corpo, resti la sola possibilità d’integrarsi in una cellula bizzarra di vivi e non vivi), L’isola riflessa racchiude tuttavia in sé l’essenza prima dei legami umani, dall’educazione dei figli sino alla riproposizione di schemi patriarcali all’interno d’architetture che paiono legittimarli; dall’istruzione delle ragazze madri alla discrasia tra viaggiatori benestanti e boat-people, incarnate nelle moderne persone migranti sovente vittime del Mediterraneo e dei crimini di respingimento. Non ne scapitano, nel profluvio argomentativo e d’avvicendamenti storici, ritmo e tono intensamente caratterizzati della produzione di Ramondino, tra cui la singola parola, sia essa afferente alla fitologia o allo squisito lessico familiare, s’assesta minuziosa come la tessera smeraldina di tarsia, porzione d’una più piccola isola demi-privata nella quale rifugiarsi alla bisogna, quando la restante terraferma, sommersa dal dolore, non può che figurare ostilmente esclusiva. Ed è in questa più piccola isola cartacea che può cogliersi la responsabilità d’accarezzare anche il serpente, retaggio d’un primigenio eremitismo.
[1] Ap 16:20.
[2] Intervista all’autrice a cura di Dario Bellezza, 1977, in Anna Maria Ortese, L’iguana, Adelphi, Milano 1986, p. 189.