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A piedi nudi nel Parco

Anche l’Italia ha avuto il suo Woodstock, ma fu un disastro. Il 26 Giugno del 1976 a Milano, al Parco Lambro, va in scena, il Festival del Proletariato Giovanile lanciato qualche anno prima dalla rivista Re Nudo. Le precedenti edizioni si erano sempre svolte in piccoli centri, focalizzando l’attenzione intorno all’evento musicale. A metà anni Settanta si pensò a Milano, al cuore di Milano, per avere maggiore attenzione, allargando il numero dei potenziali partecipanti, e allo stesso tempo scegliendo di politicizzare molto di più la manifestazione, con il coinvolgimento dei gruppi della sinistra estrema. Le speranze che avevano accompagnato le assemblee preparatorie si sintetizzavano nel sogno di unire la parte hippy del movimento con quella più politicamente attiva. Nel riportare le vicende, una parte di osservatori, organizzatori e protagonisti, giudica quelle giornate, come molto caotiche e finite con un’occasione persa, un’altra parte invece pensa che fu semplicemente un disastro.

Significativi, sin da subito, i titoli di reportage, libri e approfondimenti che documentarono l’evento. Si va da “Un disastro annunciato”, titolo del libro di Matteo Guarnaccia, al docufilm “Nudi verso la follia”. Identificare tutte le cause è questione complessa, collocare musicalmente e storicamente i fatti però può essere una traccia e una cornice utile. Anche se brevemente cercheremo di farlo andando un po’ oltre i tre/quattro giorni del Festival, che da soli non spiegano un esito così negativo.

Alla ricerca di Woodstock

Per ammissione stessa degli organizzatori, l’idea del Festival, è quella di creare momenti di aggregazione collettiva in scia con i grandi raduni partiti da Stati Uniti e Inghilterra che stavano scuotendo le coscienze, opponendosi alle guerre, lottando per i diritti civili e mettendo sul palco il meglio che quella generazione stava esprimendo in campo artistico. Per carità, neanche lì tutto filava sempre liscio, ma comunque prevaleva spesso un importante anelito alla liberazione, al pensiero del futuro da protagonisti. Era visibilmente una generazione in marcia più o meno consapevolmente sin dall fine del conflitto mondiale. Dal dopoguerra, passo dopo passo, i giovani si prendono gli spazi vitali lottando e imponendosi, sempre più, come la novità sociale più rilevante della metà del secolo. Il rock’n’roll ne è la colonna sonora generazionale. Dal primigenio battito afroamericano del jazz, con tutte le trasformazioni, anche radicali, si diffonde una musica, che, almeno come indole, si ribella al potere, rompendo gli schemi e tatuandosi nell’anima dei teenagers.

Questo fenomeno musicale planetario, in Italia viene filtrato e diffuso in gran parte dalle grosse etichette che ne annacquano il germe della ribellione, proponendo cover delle canzoni originali molto più accomodanti. Con qualche eccezione, come per esempio Napoli, che beneficia dell’essere una città di mare, e grazie al porto, vive un’atmosfera musicale un po’ diversa e la diffusione dei dischi direttamente dalle mani dei soldati americani di stanza alle falde del Vesuvio, senza troppe mediazioni dall’alto (un po’ come era avvenuto per la Gemania con Amburgo e per l’Inghilterra con Liverpool). Ma le eccezioni non cambiano di molto il quadro generale, basti pensare che nel picco della Beatlemania mondiale, i Fab Four faranno sold out in tutto il globo terracqueo, tranne che in qualche tappa italiana, dove rimarranno dei biglietti invenduti, snobbati anche dalla Rai che non riterrà l’evento nemmeno degno di riprese (le uniche immagini di quei concerti italiani che resteranno impresse su pellicola si devono all’iniziativa personale di Peppino Di Capri, sotto i riflettori con i Rockers).

Nonostante ciò il battito del rock provava ad attecchire già qualche tempo prima quando le forze dell’ordine, per la prima volta in Italia, nel 1957 al Palazzo del Ghiaccio, si trovano a dover fronteggiare orde di giovanissimi fans indiavolati, in occasione delle presentazione del brano “Ciao ti dirò” de I Rock Boys (Celentano, Gaber, Tenco e Jannacci). Celentano è il primo ad essere riconosciuto come “portatore” di rock’n’roll, subendo anche qualche censura televisiva, soprattutto a causa dei suoi movimenti di bacino alla Elvis o al suo voltare le spalle alla telecamera. Questo nuovo prodotto del capitalismo, porta con sé una contraddizione non da poco per il sistema stesso: incita alla ribellione ma allo stesso tempo comincia a fatturare numeri da capogiro, avendo individuato nei giovani una fetta di mercato nuova, illibata e promettente. E mentre l’industria discografica cresce a dismisura commercializzando tutta quella musica e traendone profitto, i grossi raduni rock vengono vissuti sempre di più, come spazi di liberazione e aggregazione necessaria.

Gli anni Sessanta, quelli dell’Utopia, del Peace & Love, cominciano a vivere un riflusso già al loro crepuscolo, e la disgregazione porta a sperimentare audaci e discutibili stili di vita alternativi. Gli anni Settanta, nonostante qualche sussulto, segnano la fine di tutto. In Italia, se a livello musicale le pulsazioni, come detto, sono stemperate ad arte, la situazione a livello politico è ben diversa che altrove, con il “Partito comunista più grosso d’Europa”, e la presenza di molte organizzazioni extraparlamentari dell’estrema sinistra: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Pdup (partito di Unità Proletaria), Autonomia Operaia e tante altre, che nonostante i tentativi, non creano mai un terreno comune, anzi a volte si osteggiano apertamente. Queste premesse storiche, musicali e politiche sono necessarie per comprendere meglio il disastro dell’edizione del Festival del ‘76.

Verso Parco Lambro

Alla fine del 1970, Andrea Valcarenghi, noto per essere stato il primo obiettore di coscienza a rifiutare la divisa militare, fonda, e manda in edicola, la rivista Re Nudo, con l’intento di diventare punto di riferimento controculturale di tutta la sinistra, da quella istituzionale giovanile, a quella più estrema, fino ai pacifisti, mettendo in conto, sin da subito, che questo confronto, tra le differenti anime, potesse diventare anche molto feroce. In questo contesto nasce l’idea di un festival, a cui si comincia subito a lavorare. Nel 1971 la prima edizione ha luogo a Ballabio, vicino Lecco. Tante ore di musica. Sul palco, Claudio Rocchi, Il Pacco (Eugenio Finardi e Alberto Camerini), Garybaldi e Stormy Six. Alcune migliaia i partecipanti. Il festival funziona. L’anno dopo, nei pressi di Pavia, a Zerbo , la seconda edizione raddoppia il numero dei presenti, arrivando a sfiorare i ventimila. Sul palco, si aggiungono Giovanna Marini, Donatella Bardi e i francesi Opyum. Timidamente la stampa comincia a parlarne, qualcuno anche criticamente (Famiglia Cristiana). Nel 1973 i primi divieti. Il sindaco socialista di Alpe di Vicerè, nei boschi comaschi, nega corrente elettrica e acqua. Nonostante l’invito di Re Nudo a non andare, si ritrovano lì migliaia di ragazzi, con un giovanissimo Franco Battiato che si presenta armato di un proprio generatore di corrente.

È con il 1974 che comincia a cambiare la prospettiva. Si punta Milano. Cresce la voglia di essere al centro di una grande città, di coinvolgere molta più gente. Si coglie l’occasione dello spostamento per trasformare anche il nome dell’evento in “Festival del Proletariato Giovanile”. Politicamente va segnalata l’adesione di Lotta Continua, musicalmente il cartellone cresce di qualità con Alan Sorrenti, Premiata Forneria Marconi, Demetrio Stratos, Biglietto per l’Inferno, Adriano Pappalardo, Angelo Branduardi, Pino Daniele e Canzoniere del Lazio. Centomila persone, nessun problema. Per l’edizione successiva ovviamente si conferma il luogo e sebbene non ci sono grossi problemi, si inizia a percepire una “tensione” e un clima diverso. Sul fronte politico si aggiungono le partecipazioni di Avanguardia Operaia e PDUP (Partito di Unità Proletaria), con Lotta Continua che prende possesso del servizio d’ordine. Sul palco salgono Ivan Cattaneo, Franco Battiato, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Napoli Centrale, Lucio Dalla, Area e Giorgio Gaber. Arrivano, tra tanti applausi, anche i primi fischi, preludio al clima dell’anno successivo.

Il Festival

Per l’edizione di Giugno del 1976 si prevedono novità, la musica non sarà l’unico motivo di aggregazione, perde un po’ di centralità, viene annunciato maggiore spazio a yoga, macrobiotica, mistica orientale, respirazione psicofisica e metodi alternativi importati da mondi lontani, “comunicazioni fisiche e mentali alternative”. Le cose andranno diversamente. Sul palco sono previsti esponenti dei movimenti come Finardi e Camerini, con la chiusura affidata agli Area. Perché si parlerà di caos, di disastro, di fine di un sogno? Che cosa non funzionerà e perché? Le critiche maggiori saranno per il servizio d’ordine e per l’organizzazione, il primo accusato di condotta autoritaria e militaresca, “non accettavamo che il servizio d’ordine fosse una nuova polizia”, obietteranno in tantissimi, e la seconda, l’organizzazione, per il caos totale, che permetterà la pratica del profitto e della commercializzazione, nella vendita di cibo e bevande, con prezzi ritenuti molto alti, riproponendo le logiche del profitto che si volevano combattere, “trovammo l’inizio di una fase commerciale”, fu il giudizio quasi unanime.

Questi aspetti non sono solo dibattuti ma portano a scontri fisici all’interno di Parco Lambro. Assurdi e immotivati divieti portano alla negazione di spazi autogestiti a omosessuali e femministe sempre con fare autoritario, e di fatto si ripropone il metodo presente nelle piazze e nelle organizzazioni che compongono l’arcipelago della sinistra estrema, soffocando anche in questa occasione, gli aneliti più libertari. La massiccia presenza di eroina, su cui evidentemente le discussioni non bastarono, e addirittura la comparsa di qualche pistola, completano il quadro della situazione ormai degenerata. Ci sono tante testimonianze illustri a tal proposito, ma è particolarmente illuminante quella del fotografo Dino Fracchia, testimone oculare, che ha “salvato” e riportato, con le sue istantanee, tanti momenti di quei giorni:

“ogni cosa doveva essere discussa e messa ai voti, si facevano processi pubblici e tutto poi è sfociato nel famoso assalto ai camion dei polli al grido di: “Vogliamo tutto e subito!”. Quello è stato il primo caso di esproprio proletario. Subito dopo sono nati anche i primi tafferugli ai concerti rock… per le autoriduzioni, la musica doveva essere gratis. De Gregori per dieci anni non ha più fatto concerti perché è rimasto traumatizzato da questa situazione. Le band straniere, nelle loro tourné, non passavano più dall’Italia, perché ogni volta capitavano disordini. E poi, diciamo pure che i primi sintomi della lotta armata sono incominciati lì… Arrivavano persone che con la forza s’impadronivano del palco perché avevano delle cose da dire o da recriminare o da rivendicare. Su quel palco non c’è musica, ma solo gente incazzata sopra e gente incazzata sotto.”

In questo clima, una delle immagini che resta, è proprio quella del “caos artistico”, creato in chiusura di Festival dagli Area, che sperimentano, con la partecipazione del pubblico, la ricerca della musica collettiva.

“L’intuizione di Paolo Tofani è quella di collegare due lunghi fili a due rispettivi oscillatori del sintetizzatore, così che la termodinamica corporea degli spettatori modifichi l’intensità e la frequenza dei suoni programmati. Si compie così l’idea di una musica collettiva creata dal contatto fisico tra gli spettatori”.

La manifestazione si conclude all’alba con gli Area sul palco a suonare una versione “prog-sperimentale” dell’Internazionale che farà storia. Non ci saranno repliche o edizioni successive. Il Festival finisce in quelle note, e molte delle cose, nel bene e nel male, che si troveranno nelle piazze e nelle strade nel ’77, fanno capolino già in quel parco. Saranno anni duri, di piombo. Nessuno ripenserà volentieri a quel Festival, si proverà a capire il perché di “un disastro annunciato”.

Certo è che i problemi sono cominciati quando, paradossalmente, proprio la musica, cuore pulsante di un festival, ha perso il centro della scena, è stata butatta giù dal palco e ha smesso di battere, diventando solo un paravento per ben altri scopi. In quel parco, almeno per quanto riguarda l’Italia, si buttò via tutto, non solo i vestiti, le scarpe e le sovrastrutture sociali, ma anche la musica e quella possibilità di futuro differente che proprio la musica aveva contribuito ad accendere in quella generazione.