“Così a Napoli ci si assicura per la ‘festa nazionale’ come, da noi, ci si
assicura sulla vecchiaia e sugli infortuni”
– Benjamin
È stata la mano di Sorrentino. L’attesa, di una tragedia incombente o della pazza gioia improvvisa, vissuta dai napoletani e non solo, è la stessa che regna nel film di formazione del regista. La partita di una vita, la sua, ma anche quella di Napoli che non ha storia ma solo e sempre vita.
Il film è scandito dalla notizia dell’acquisto da parte del Napoli del già leggendario calciatore argentino: una specie di adozione che darà una nuova immensa famiglia a quel bambino meticcio nato in uno slum di Buenos Aires. Un destino speculare alle sue origini, come se il destino di ciascuno di noi fosse iscritto nel passato e si proiettasse nel futuro come la luce della cinepresa che rende visibile un’immagine inafferrabile, un miraggio. Poi il gol di mano, ai quarti di finale dei Mondiali dell’86, che passa alla storia come la mano di dio: un atto politico (a dirlo è il personaggio di zio Alfredo), una rivoluzione, il riscatto del popolo argentino contro l’imperialismo britannico. Infine una partita che salva la vita, che sottrae e strappa Fabietto (alter ego di Sorrentino) alla morte per consegnarlo alla vita con la stessa brutalità, cioè abbandonandolo al suo destino di orfano e cineasta in cerca di un’idea che nasca dal suo dolore.
“Ma è mai possibile che ‘sta città nun te fa veni’ in mente niente ‘a raccuntà?”
Come Maradona, Fabietto diventa figlio di Napoli e delle sue creature, figure iniziatiche che incarnano e indicano al giovane il mistero sacro e profano della vita, che è sempre una processione e una parata al medesimo tempo.

“Il mistero e l’odio per il mistero”: è questa la contraddizione più vitale di Napoli, dove il mistero viene esibito senza mai essere svelato né decifrato, dove esso si fa spettacolo e diviene visibile senza perdere la sua intima condizione d’essere che è l’invisibilità, unita alla imperscrutabilità. Solo il trionfo finale del mistero si attende: a questo assomiglia la vittoria del Napoli.
Di ricordi, idoli e simulacri si popola il film e il destino di Fabietto. Chi ci protegge, come fanno i morti, sono i nostri idoli, è Maradona, sono le mani delle immagini e delle figure che hanno aggiunto pellicole al nostro sguardo spoglio e al contempo le hanno tolte; le immagini che hanno presagito chi saremmo diventati. Non a caso il termine greco eidolon, da cui “idolo” deriva, significa immagine. Ci proteggono le leggende, private e non, che tramano di magia e mistero e reggono, invisibili, le nostre esistenze.
A Napoli esistere è una faccenda collettiva, non solo perché la vita privata viene inondata, a fiotti, dalla vita comunitaria, come scriveva Walter Benjamin, ma anche in un altro senso per Sorrentino: siamo fatti di ricordi lasciati da altri, i ricordi di gesti compiuti da altri. La madre che, in cucina, si improvvisava giocoliera con le arance, le caramelle Rossana la cui carta sfrega e suona tra le mani e, messa davanti agli occhi, fa vedere il mondo di un altro colore: “La prima prova di regia di un ragazzino” (Sorrentino).
Il mistero e l’odio per il mistero, il privato che si fa pubblico, il pubblico che finisce per assomigliare al privato, la strada che è casa e la casa che è strada, ciò che rende possibile questa compenetrazione, questo travisamento continuo di pozioni contrarie, questo traboccare di forme di vita metamorfiche, mai cristallizzate e definitive, questo ingorgo con sbocco sul mare, è la porosità della pietra di Napoli e di tutta la sua architettura urbana. Essa viene dilatata dal fuoco e condensata dall’acqua, due forze arcaiche e magiche che non hanno requie nel ventre di Napoli. Un ventre che si chiude nel mistero di Parthenopis (la Giovinezza e la Verginità della città) e si sventra per aprirsi, mostrarsi, farsi toccare senza più pudore, con Althelopis (la Vecchiezza), la vecchia baronessa che inizia Fabietto al mistero del sesso, introducendolo nella “grande fessa”, nella “spaccatura”, quella che Gustave Courbet ha chiamato l’origine del mondo.
A proposito di Courbet, sempre Benjamin, con la sua potenza di intuizione analogica, accosta e contrappone Parigi e Napoli, due città in cui le forze della storia e la dialettica dei contrasti si fanno visibili, in cui si forma un’immagine fantasmagorica del tempo della modernità e l’immaginario non è più scindibile dalla storia; due città che condividono il mistero del labirinto e la memoria del sottosuolo, ma ciò che a Parigi rimane nascosto nei suoi passages, a Napoli diventa festa, processione, gioco e inganno nei suoi vicoli. Ma soprattutto Parigi è la trasposizione sociale e politica del Vesuvio: un serbatoio di fuoco e rivoluzione, sempre quiescente. Sono città che hanno preso la forma del nostro tempo, anzi del nostro destino.
Ma cos’è il destino? Forse qualcosa che può esistere solo nel cinema, a Napoli o a Parigi. Non la storia, non l’autobiografia, quello che succede a Napoli può essere solo vissuto e visto sempre una sola volta, come i miracoli. E bisogna crederci. Se lo racconti potrebbe non crederci nessuno ma vale la pena raccontarlo. Per vedere bene questa città devi avere altri occhi, suggestionati, accecati dalla troppa luce o dal troppo buio dei vicoli. È un sogno strano.
Articolo a cura di Lucrezia Ceglie
Foto di copertina, Robbie McIntosh