Nel ripercorrere la genesi di Shore Robin Pecknold racconta di aver sofferto momenti d’ansia, un’ansia che ha sentito evaporare con l’arrivo della pandemia e poi delle proteste negli States: improvvisamente il nuovo album non era più una priorità. Nel suo rifugio newyorkese i mesi andavano avanti, aveva da scrivere i testi, mettere insieme le idee alle canzoni non ancora finite, ma non sentiva più quella fretta ansiogena penetrare le ossa: gli eventi erano dirompenti, paradossalmente gli concedevano pure un po’ di respiro prima di tornare a comporre. Da lì sarebbero cominciati giri in auto a vuoto, odissee nullificanti al solo scopo di fare benzina: è stato tra quei giri, tra i parcheggi desolati, tra i quaderni di appunti, che le cose nel disco hanno cominciato a poco a poco a trovare un senso, una direzione più chiara. Sono arrivati i testi, sono arrivate le parole, e con loro la sensazione illuminata e/o consolatoria che anche se non abbiamo bisogno della musica per vivere, come si fa a vivere senza musica? E del resto in tutti i momenti più menagrami della sua storia l’umanità ha continuato a strepitare i suoi versi, a tirare via lo strazio dai giorni attraverso l’arte, a cantare o dire l’indicibile. Shore stesso è un disco in cui si lascia sentire una prossimità a grandi artisti del passato, che sono poi la serie di ascolti in cui Pecknold si è perduto per arrivare al nuovo album: dal visionario Arthur Russell alla magnificenza di Nina Simone, e poi ancora Curtis Mayfield, Van Morrison, Sam Cook, João Gilberto, un miscuglio di nomi per arrivare a una sintesi complicata e ambiziosa. Quello che ne è venuto fuori è in effetti qualcosa di abbastanza corposo e stratificato a livello di sonorità: a tre anni da Crack-Up, i Fleet Foxes sembrano ormai aver dismesso le lunghe barbe e i vagheggiamenti hippies, il puro folk degli inizi è meno puro, le chitarra hanno intarsi e nascondigli, si mescolano a tastiere e strumenti a fiato, e tra le collaborazioni che troviamo ci sono ospiti come David Rossen e Chris Bear dei Grizzly Bear, il quartetto di fiati Westerlies, l’impronta distintiva di Aaron Dessner dei National, due folletti indie come Kevin Morby e Hamilton Leithauser, e addirittura un sample di Brian Wilson su Cradling Modler, Cradling Woman di cui Pecknold va orgoglioso da vecchio fan dei Beach Boys.

And we’re finally aligning
More than maybe I can choose
Il nuovo album dei Fleet Foxes è arrivato insieme all’autunno, forse per un puro caso o per rispecchiare una vocazione intimista dei suoni, il peregrinare in solitaria tra foglie al vento – o su una spiaggia deserta, come lascia immaginare la copertina – che pare aver guidato Pecknold alla scrittura di Shore. Già dal primo pezzo, Wading In Waist-High Water, il disco ci accoglie come una carezza innamorata dove abbiamo il piacere di fare conoscenza con la voce (che torna pure sulla grizzlybeariana Can I Believe You) di Uwade Akhere che si incastra tra fiati dipanati. La successiva e fresca Sunblind è un’invocazione a Richard Swift come a Berman, a Arthur Russell, Bell e Buckley, dove corrono immagini a instantanea come quelle di una Martin o una Gibson da prendere in prestito. Un omaggio a eroi scomparsi che si tira dietro anche quello dedicato a Victor Jara, il cantautore cileno assassinato dal regime di Pinochet, protagonista della quarta traccia Jara – un ritratto folk che nel rievocare la figura di Victor da un’altra riva immaginaria vuole richiamare alla mente anche i volti amici o ignoti degli attivisti politici che stanno risvegliando movimenteismo con le proteste e le manifestazioni di massa negli States. Il momento centrale del disco è probabilmente anche quello che più si avvicina musicalmente ai primordi dei Fleet Foxes, i cori di voci si incastonano tra melodie con un effetto che per tratti potrebbe ricordare o scomodare i Beach Boys (For A Week Or Two). Un folk melodico che ha anche il tempo per farsi minimale nella ballata di chitarra nostalgica I’m Not My Season.
Fa quasi freddo a volte dentro questo disco, è un freddo in ogni caso ancora autunnale che vibra nei contorni caldi del portoghese di Tim Bernardes sul finale di Going-To-The-Sun Road, è una camminata su una strada desolata colpita da sporadici raggi di sole e un vento che porta visioni, come l’apparizione del quarto di luna della traccia conclusiva o l’allineamento della traccia iniziale, è l’improvvisa intrusione di Wilson e John Prine, è il fiato corto che si mescola ai fiati che suonano. Robin Pecknold ha tirato fuori un disco riflessivo, dall’anima distintiva, che dialoga con vecchi eroi ma già vede in arrivo quelli futuri. Shore è l’album con cui il folk dei Fleet Foxes si lancia nel futuro per trovare una sua versione contemporanea, riarrangiata, con un’ultima ballata che è una pietrificante ululata di lupo. E quello che succede alla fine del disco è la sensazione di avere addosso una singolare nostalgia di futuro.