C’è una canzone, che chiude l’album di Dente Hotel Souvenir, intitolata “Il mondo con gli occhi di un bambino” – ed è esattamente il punto di vista che adotta Giuseppe Zucco nel suo ultimo libro, Il signore delle acque (uscito per Nutrimenti), in cui il mondo improvvisamente è destinato a finire.
Per chi ha già avuto modo di leggere Zucco, le atmosfere di questo libro suoneranno subito familiari. La sua scrittura, infatti, si contraddistingue per la capacità di sottrarsi al tempo, il presente lo si vede sempre chiaramente, ma la narrazione è sempre sospesa in un tempo parallelo, basta ripensare a Il cuore è un cane senza nome (minimum fax 2017) e I poteri forti (NN 2021). In questo caso siamo al cospetto di un evento catastrofico che preannuncia la fine del mondo per come lo conosciamo. Non piove più e tutta l’acqua che dovrebbe dare linfa vitale al nostro pianeta si condensa in cielo formando un blocco uniforme che incombe sempre più pesantemente sulle teste e sugli animi dei protagonisti della storia.
Questa apocalisse il lettore la vive tramite gli occhi di un bambino, e tramite il suo racconto si trova in questa dimensione di smarrimento. Ben presto la vita quotidiana viene soppiantata da uno stato di natura in cui vige la dittatura del più forte, del più prepotente, del più allucinato. In tutta la parte centrale, in cui il bambino si trova a saggiare la realtà della strada, sembra di essere nelle pagine di Cecità di Saramago, dove lo stato di diritto non esiste più e la società per come la conosciamo si è velocemente dissolta per lasciare spazio allo stato di natura. Homo homini lupus quindi, ma anche nichilismo e senso di predestinazione.
Tra i vari personaggi che il protagonista incontra nella sua fuga nel mondo super-reale, troviamo persone che si abbandonano al loro destino, che hanno ormai abbandonato ogni forma di resistenza sia logica che fisica e che si lasciano completamente andare. Incontriamo inoltre una vasta galleria di prototipi dell’umano sentire, allegoria della realtà che ci circonda. Il gruppo dei compagni di scuola, infine, ricostruisce il senso della comunità ricostituita sui nuovi rapporti di forza e di prepotenza. Una sensazione che sfocerà in una sorta di sindrome di Stoccolma.

In un ambiente apparentemente protetto invece troviamo la narrazione delle dinamiche familiari, inizio e fine del racconto. I genitori del protagonista vivono la doppia dimensione dello smarrimento nei confronti di un fenomeno sconosciuto a cui non sanno come far fronte e al contempo la responsabilità di filtrare quelle sensazioni di paura e impotenza per provare a preservare la vita di loro figlio. La casa oscilla continuamente tra i suoi opposti ovvero rifugio e prigione. I genitori sono prima di tutto esseri umani e in questa dimensione profondamente umana vivono lo scoramento e lo smarrimento proprio di tutti coloro i quali si trovano di fronte a eventi più grandi di loro.
Viene, in qualche modo automatico, provare a portare questo testo immaginifico a tinte scure agli anni della pandemia che abbiamo vissuto di recente. Basta fare uno sforzo di memoria per trovare attorno a noi esempi molto simili a quelli portati all’estremo nelle pagine de Il signore delle acque. Tutte le storie, infatti, anche quelle più estreme quando affondano le loro radici nell’animo umano possono parlare a tutti noi. Questo è il caso dell’ultimo libro di Giuseppe Zucco che tramite un senso di predestinazione, che incombe più che mai sulle nostre vite in questi anni, ci porta a riflettere su come ci si avvicina alla fine.
Uno dei capitoli terminali del libro si apre con una frase emblematica pronunciata dal protagonista secondo cui la fine del mondo non è mai stata così noiosa. Ciò mi ha riportato al celebre esempio del film L’odio, in cui l’uomo che si butta dal balcone si ripete a ogni piano fino a qui tutto bene. E lo stesso sembriamo dirci noi che ci barcameniamo tra la perdita di diritti sociali, l’avvento di nuovi stati autoritari, la negazione dell’emergenza climatica e il progressivo restringimento delle agibilità democratiche attorno a noi. Fino a qui tutto bene, ma il problema resta l’atterraggio.