La parola interne, in questo senso, non si riferisce soltanto a uno spazio fisico – l’interno della Terra da cui si estraggono le risorse naturali; l’interno del Paese in cui si verificano questi conflitti -, ma corrisponde anche a uno spazio mentale ed emotivo nel quale entrano in gioco necessità e desideri umani come la protezione, il potere, l’ostentazione, il superamento dei nostri limiti.
Il Sudamerica. Non esiste forse alcun luogo in tutto il globo terrestre capace di mostrarsi e di essere raccontato come un universo variegato e multicolore, sospeso com’è tra sogno e realtà, tra una strada sempre impervia verso governi democratici e l’incubo dietro l’angolo di regimi dispotici e dittatoriali, culla di vertici assoluti della letteratura, della musica popolare, dello sport, dell’architettura e dell’arte, di ricchezze inaudite e la povertà e la miseria più spaventose, di utopie e rovinose cadute.
Joseph Zárate, nato a Lima nel 1986, giornalista ed editore, racconta la sua terra, il Perù, attraverso la forma del reportage, tre racconti uniti dal filo comune dello sfruttamento delle risorse naturali, tre materie prime: il legno, l’oro e il petrolio che compongono Guerre Interne, pubblicato in Italia da gran vía edizioni nella collana diagonal – letteratura obliqua.
Sono tre reportage in grado di offrire una prospettiva differente dello sfruttamento delle terre sudamericane – in particolare quelle amazzoniche. Se da un lato, infatti, siamo portati a pensare alle estrazioni minerarie come uno scippo delle potenze occidentali ai danni dei naturali possessori, più raramente ci accorgiamo dell’impatto diretto sulla vita dei cittadini che abitano quelle terre e delle conseguenze sociali di scelte solo apparentemente politico-economiche.
Nella maggior parte dei casi, le vittime di tali dinamiche sono popoli indigeni e comunità rurali per le quali il processo di legalizzazione di un territorio è estremamente complesso, lento e costoso – arrivando a durare anche più di trent’anni – lì dove le grandi compagnie ottengono le concessioni per lo sfruttamento di terre che non appartengono loro in alcun modo in appena trenta giorni. Ed è un dato impressionante perché secondo uno studio del World Resources Institute, tali popoli e tali comunità occupano più della metà delle terre del pianeta ma sono legalmente proprietarie di appena il 10% della terra.
In Perù il 70% della superficie è coperto dalla foresta e da quasi mezzo secolo tutta l’Amazzonia peruviana è divisa in lotti rettangolari dati in concessione alle grandi società estrattive. Tutto lascerebbe pensare che quelle terre siano disabitate e, invece, è esattamente il contrario. Come spiega il cartografo Brian Hurley, quegli “spazi vuoti” sulle carte geografiche sono, in realtà, “silenzi”: informazioni che le mappe deliberatamente nascondono. Non a caso Edwin Chota, il protagonista del primo racconto si dedicò anima e corpo a dotare gli indigeni di una mappa che rendesse conto esatto delle terre che appartenevano loro. Elettricista di Lima, sposato con figli, Chota scelse gli indigeni asháninka come famiglia adottiva, come una nuova comunità in cui esprimere davvero se stesso, facendosi amare e accettare nel tempo come uno di loro. Diventando un combattente “spirituale”, in prima linea contro il disboscamento e il traffico illegale del legno di mogano. E, proprio per difendere la foresta amazzonica, la terra degli asháninka da un traffico – quello del legno – cui meno penseremmo quando si parla di sfruttamento e mercato illegale, che Chota troverà la morte, nel 2014, colpito – molto probabilmente – da sicari assoldati dalle stesse compagnie cui si opponeva.
Nella storia di Chota è racchiuso il segreto del libro: Guerre Interne, infatti, spezza abilmente la materia del reportage per raccontare una storia particolare legata a un nome, a un personaggio, a un protagonista di una storia scelta tra tante possibili dentro la macchina della Storia.
Il secondo capitolo – “Oro” – mette al centro la storia di Máxima Acuña Atalaya, contadina delle Ande, che da anni si oppone strenuamente alla cessione della sua proprietà – Tragadero Grande – all’impresa mineraria Yanacocha con il suo piano di prosciugare la Laguna Azul per cercare un materiale tanto prezioso quanto ormai sempre più scarseggiante. Cajamarca, la regione dove vive, è quella dove si produce più oro ma, al contempo – per questa incredibile contraddizione che attraversa le pagine della Storia come del libro – quella con il maggior numero di poveri di tutto il Paese.
In Oro, Zárate ci ricorda, usando l’insegnamento del francese Paul Virilio, che “la politica moderna consiste nell’amministrazione pubblica della paura”. Ecco allora che quando si parla del progetto denominato Conga, la paura diventa un rosario d’invocazioni distanti tra loro: quelle di chi teme l’inquinamento dell’acqua e della terra (l’estrazione dell’oro utilizza il cianuro), quelle degli altri – che detengono il potere politico – che le proteste e le manifestazioni mettano in fuga gli investitori. Come scrive, a giusta ragione, Zárate: “le metafore del progresso – e dei suoi nemici – cambiano a seconda di chi le pronuncia” innestando una fuga sul discorso del progresso e dello sviluppo di pasoliniana memoria, sempre attuale ovunque ci si accosti – almeno per demeriti tutti umani – alla dinamica distorta che è messa in moto dal cambiamento in paesi in via di sviluppo.
Alcuni indigeni assoldati dalla Petroperù avevano improvvisato una barriera di tronchi e teli di plastica che era riuscita a contenere il greggio per qualche giorno, ma nessuno aveva calcolato che la violenza di un temporale lo avrebbe fatto tracimare all’alba giù per il fiume, spargendolo come un catarro nero che al suo passaggio inghiottiva insetti, radici d’albero, canoe, piantagioni di platani, cacao e arachidi. Gli animali fuggivano dalla corrente. Le madri si lamentavano guardando i campi andati in rovina, sull’acqua scura galleggiavano cadaveri di pesci.
Ma è soprattutto con il terzo racconto, dedicato al Petrolio che Zárate intreccia alla storia una serie di riflessioni importanti non solo sullo sfruttamento ma su tutto quello che ne consegue, cui, spesso colpevolmente, non pensiamo. Protagonista è un bambino awajún di appena undici anni – Osman Cuñachí, “magro come uno spaghetto”, che si ritrovò insieme ai suoi amichetti e a gran parte del villaggio di Nazareth a tuffarsi nel fiume dove l’Oleodotto Nordperuviano – “un serpente d’acciaio che trasporta petrolio dalla foresta alla costa per più di ottocento chilometri” – aveva sversato ingenti quantità di greggio, per recuperarne quanto più possibile in cambio di ricche ricompense da parte della compagnia. Se da un lato la storia si concentra sui danni causati dal contatto e dall’esposizione al petrolio – danni epidermici ma anche renali, epatici, neurologici e potenzialmente cancerogeni – dall’altro Zárate ci mostra come il disastro di per sé diventa suscettibile di diverse letture. Infatti i pagamenti della Petroperù divennero un forte incentivo per gli abitanti dei villaggi fluviali che – non consapevoli o disinteressati al rischio sanitario – lo colsero come possibilità di arricchimento personale. Allo stesso tempo, l’improvvisa comparsa di così tanto denaro liquido comportò l’arrivo dell’Aids in una comunità fino a quel momento immune per l’andirivieni verso i bordelli della capitale degli uomini più giovani del villaggio, distorsione atroce che Zárate ci mostra attraverso un ritratto – che, abbandonando lo stile del reportage si fa quasi poetico – di una donna magrissima e debilitata dalla malattia che mette al mondo suo figlio.
Guerre interne è un ritratto originale di un paese fotografato attraverso il suo ormai perenne tentativo di sviluppo, schiavo di progetti che dovrebbero farlo entrare nel Primo Mondo, la “solita promessa di sempre”. Un paese diviso in due tra la modernità della capitale Lima e la ruralità di tutta l’area circostante. È un libro in grado di cogliere non solo l’aspetto delle prevaricazioni e delle violenze che si perpetuano in un’indifferenza quasi generale ma soprattutto in grado di sollevare domande.
“Con il tempo, i viaggi e le letture – scrive Zárate – ho capito che scrivendo sui conflitti per la terra, su chi abita e difende le montagne e le foreste, non stavo soltanto “dando una voce” a quelle persone. La stavo dando a me. Avevo raccontato, senza essermelo proposto, il luogo dove veniva la mia famiglia”. Nello scrivere Guerre Interne, ecco che lo scrittore e giornalista risale alle radici indigene (kukama kukamiria) da parte di sua nonna materna, dando un nuovo e definitivo senso a quell’aggettivo interne. Che diventa, così, non solo espressione della natura nascosta delle materie prime e della loro collocazione geografica nel cuore verde del continente, ma soprattutto di un conflitto interno a tutti i soggetti coinvolti: gli esseri umani che devono scegliere con dignità da che parte stare, e gli Stati che devono scegliere, con coscienza, quale futuro immaginare per il proprio paese e per tutti coloro che poggiano i piedi sulla loro terra.