Latinoamericando è uno spazio a cura di Barbara Flak Stizzoli
Il racconto Horacio Kalibang o los autómatas, pubblicato nel 1879 da Eduardo Ladislao Holmberg, rappresenta una pietra miliare della narrativa scientifico-fantastica latinoamericana, non soltanto per la sua precocità cronologica ma soprattutto per la profondità tematica con cui affronta questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito filosofico e tecnologico. Holmberg, naturalista, medico e scrittore, riesce con quest’opera a superare l’aneddotica superficiale tipica della letteratura di intrattenimento dell’epoca, costruendo un racconto che interroga con lucidità il rapporto tra l’uomo, la scienza e le sue derive.
La vicenda prende avvio nei pressi di Berlino, durante una festa in casa del borgomastro Hipknock, dove compare uno strano personaggio: Horacio Kalibang. Fin da subito il suo comportamento suscita sospetti, inquietudine e un senso di spaesamento. Le sue movenze sono troppo rigide, il suo linguaggio troppo calibrato. Il dubbio che non si tratti di un essere umano si fa strada nei presenti. L’evento porta Hipknock e sua figlia Luisa a conoscere Oscar Baum, il misterioso costruttore di Kalibang, il quale rivela la sua capacità di fabbricare automi indistinguibili dagli uomini, tanto da farli convivere senza che nessuno se ne accorga. Baum li conduce nel suo laboratorio sotterraneo dove, in una scena altamente teatrale, mette in scena una sorta di spettacolo meccanico, una pantomima in cui gli automi suonano strumenti, combattono a duello e interpretano scene quotidiane. In una sorta di climax tragico-grottesco, la rappresentazione culmina con la “morte” violenta dell’automa raffigurante lo stesso Hipknock. È in quel momento che l’equilibrio tra realtà e finzione si spezza: la rappresentazione meccanica dell’umano finisce per destabilizzare l’identità stessa dei personaggi, che iniziano a dubitare della natura delle persone intorno a loro – e persino della propria.
Questa inquietudine è il nucleo tematico più profondo del racconto. Holmberg non si limita a presentare una trovata ingegnosa, ma si interroga su cosa significhi essere umani. Se una macchina può apprendere, eseguire gesti sociali, emozionare o persino ispirare paura e rispetto, allora cosa resta dell’essenza umana? L’autore, influenzato dalle correnti positiviste e darwiniste della sua epoca, ma non per questo privo di uno sguardo critico, affronta le conseguenze di una razionalità spinta all’estremo, che rischia di produrre – sotto le sembianze del progresso – un mondo completamente disumanizzato.
Va notato che il racconto si apre con un dialogo filosofico tra Hipknock, fervente materialista, e suo nipote Hermann, più aperto a concezioni metafisiche o spiritualiste. Questo scambio di idee, tutt’altro che marginale, fornisce la chiave di lettura dell’intero testo: la realtà può essere spiegata solo con strumenti razionali? E se anche le manifestazioni più misteriose – come l’anima o l’intelligenza – potessero essere replicate artificialmente, ciò le renderebbe meno reali? Holmberg sembra dire di no, o perlomeno suggerisce che l’apparenza del meccanico può essere talmente perfetta da diventare indistinguibile dal naturale. Non è difficile intravedere in questa tensione narrativa un’anticipazione delle tematiche moderne legate all’intelligenza artificiale, al deep learning, e persino al fenomeno dell’uncanny valley, teorizzato solo decenni dopo dal roboticista giapponese Masahiro Mori.
Ma Holmberg è anche figlio del suo tempo e della sua terra. Dietro l’apparente ambientazione tedesca si cela un messaggio molto più legato all’Argentina post-unitaria, attraversata da massicci processi migratori e da un forte dibattito sull’educazione e la nazionalizzazione delle masse popolari. L’automa Kalibang, infatti, viene infine presentato da Baum non come una minaccia, ma come un dono per Luisa: uno strumento educativo perfetto, un precettore meccanico destinato ai futuri figli della coppia. In questa visione si intravede un’allusione ironica – o forse critica – all’ideologia pedagogica dell’epoca, che tendeva a trattare le persone, specialmente gli immigrati o le classi popolari, come materia da plasmare meccanicamente. Kalibang non è soltanto un essere artificiale, è anche una metafora dell’istruzione come standardizzazione, come replica seriale dell’identità nazionale desiderata.
Non a caso, Sandra Gasparini – studiosa di letterature fantastiche argentine – ha notato che l’automa nel racconto rappresenta una figura ambigua: tanto simbolo dell’efficienza positivista, quanto fantasma delle paure borghesi verso la perdita di controllo. Holmberg gioca su questa ambivalenza, lasciando il lettore sospeso tra fascino e terrore, tra utopia e distopia. Il racconto si conclude con un finale aperto, quasi una mise en abyme dell’identità: chi sono gli altri? E io stesso, sono certo di non essere un automa?
Horacio Kalibang o los autómatas non è solo una curiosità letteraria ottocentesca: è un testo che, se riletto oggi, parla direttamente alle nostre ansie contemporanee. La sua attualità non sta tanto nella presenza di macchine intelligenti, quanto nell’angoscia sottile che esse generano: la paura che l’umanità possa essere sostituita, replicata, programmata – senza che nessuno se ne accorga. Holmberg non fornisce risposte, ma costruisce con precisione chirurgica un dispositivo narrativo che ci costringe a porci domande scomode, mettendo in crisi le nostre certezze su ciò che siamo, su ciò che pensiamo, su ciò che chiamiamo “coscienza”.
In definitiva, l’opera di Holmberg rappresenta una delle prime incursioni letterarie in un terreno che oggi è familiare a lettori di Asimov o Philip K. Dick. Ma proprio per questo, va riscoperta come opera fondativa, capace di anticipare la grande stagione della fantascienza filosofica con una sorprendente lucidità e profondità. Chi voglia comprendere le radici sudamericane della narrativa speculativa, o più in generale riflettere sulle conseguenze della meccanizzazione della vita, non può che partire da qui. Holmberg ci ha lasciato un racconto breve, ma le sue implicazioni sono infinite.