Il 21 Febbraio del 1962 nasceva David Foster Wallace, figura a cui siamo eccezionalmente legati. Per omaggiarlo qui raccogliamo i contenuti che nel tempo abbiamo dedicato allo scrittore statunitense.
Wallace ha scritto racconti, saggi, romanzi, stralci interrotti di cose, ha rilasciato interviste che sono allo stesso livello di ossessione letteraria di tutto il resto: ogni sua parola è un macigno sul Ventunesimo secolo. Eppure stiamo parlando di qualcosa che è anche diventato un fenomeno di costume nel tempo: sarà che non è perfettamente un realista o un romanziere classico, Wallace, sarà che ha stravolto qualsiasi dimensione lineare, temporale, spaziale, sarà il livello profondo di assurdità che si tocca dentro ogni suo romanzo, sarà che è un devoto della scrittura che ha tirato fuori la saggistica persino da un paio di Converse, che mescola una cultura che va dalla piccola cosa della quotidianità perdente, per arrivare alla filologia, a interi trattati di comunicazione che vengono fuori dai suoi personaggi. Ha mescolato il tennis e la matematica, appassionato d’entrambe com’era, ha tirato fuori letteratura furente dalle cosce di Roger Federer, ha fatto della trigonometria, ha raccontato di ragazzette punk o aspiranti tali, ci ha rivelato la televisione, e Wittgenstein.
Impossibile scrivere di David Foster Wallace senza fare cazzate
Doveva fargli molto male, quell’impossibilità di comunicare con chi gli stava accanto, e proprio per quello probabilmente ne capiva più di tutti l’importanza. A quanto ci raccontano, David Foster Wallace non era un gran chiacchierone, parlava sì, di letteratura e di altre cose, ma quasi mai di se stesso. Più che per una questione di umiltà, per una impossibilità di scoprirsi. Un silenzio costretto più che volontario, un muro contro cui sbattere ogni giorno, fino all’ultimo, mentre la civiltà si auto convinceva del proprio post modernismo. Per tanti, come lui, c’è bisogno di un filtro capace di purificare quello che una bocca non può esprimere senza stravolgerne il contenuto. La scrittura è riflessione, una complicata e profonda analisi su quale sia il modo migliore per esprimere un sentimento o un concetto.
Foster Wallace, gli uomini schifosi e quella necessità di tornare a parlarsi
La spiegazione che l’autore di Infinite Jest dà del talento soprannaturale di Federer è soprattutto metafisica, ma non tralascia esercizio, tecnica, intelligenza, racchette e materiali. Nel riconoscere ed elencarne le doti c’è l’esperienza del tennista prima che scrittore dal lessico tentacolare. Ci regala infatti: “senso cinestetico”, a spiegare l’intuizione magica del corpo in grado di prevedere le traiettorie dei colpi dell’avversario, manipolato e irretito in strategie elaborate a velocità impensabili. Il momento Federer si attesta come “bloody-near religious experience”, una maledetta esperienza quasi religiosa, secondo la definizione di un autista delle navette per la stampa. Wallace la adotta volentieri, perché più difficile di sapere se Dio esiste, c’è solo trovare parole in cui tentare di confinarlo.
Il tennis come esperienza di scrittura
David Foster Wallace ha lasciato un gran vuoto. Ammettiamolo, di tanto in tanto ci chiediamo cosa avrebbe detto/scritto/reso in forma di nota o ossessione DFW, come si sarebbe approcciato alla realtà, quali pensieri si sarebbero smossi dentro di lui oggi. Non ci ha dato il tempo di saperlo, perché si è tolto la vita il 12 Settembre 2008, e da allora ci manca una mente originale come la sua, il suo approccio e le sue terribili verità. Lo omaggiamo riproponendo la traduzione di un estratto di un suo celebre discorso per la cerimonia delle lauree al Kenyon college, il 21 maggio 2005 (anche conosciuto come Questa è l’acqua). Gli lasciamo parola, leggetelo e vi accorgerete di quanto sia microscopico l’universo dove noi supponiamo di essere il centro con tutte le nostre impostazioni predefinite, ordinarie ed egocentriche. C’è un mondo lì fuori.
David Foster Wallace — quel vuoto incolmabile e la verità sui pesci
Sul finire degli anni ‘80 il sogno americano sembra così realizzato da rendere impossibile, dall’esterno, vedere ciò che giace appena sotto la superficie. Oltre le staccionate bianche delle villette a schiera, appena al di là della porta di casa, la realtà è infatti ben diversa da come si è ormai abituati a immaginarla. Tutto questo prende forma e concretezza nelle opere di David Foster Wallace che, raccogliendo il testimone di DeLillo e riprendendo la lezione del grande maestro del postmodernismo americano, John Barth, come nessun altro prima e dopo ha saputo rappresentare il disagio di fine millennio. Con un’ironia tagliente e un realismo sempre tangibile, anche nelle più estreme esagerazioni, i suoi libri sono uno strumento fondamentale con cui tradurre il mondo e diventare sempre più self-conscious della propria condizione. Le immagini evocative, il vocabolario spesso inventato e mai troppo immediato collaborano allo smascheramento di una società che di perfetto ha ben poco, capace di illudere e plagiare anche il più convinto dei rivoluzionari. La noia è ora il più temibile dei mostri e divora in silenzio ogni ambizione sostituendola con una felicità venduta sotto forma di macchine sportive e spot televisivi. Tutto questo sfocia in quello che risulta essere il più autentico dei romanzi americani del periodo: Infinite Jest (1996).
Un viaggio chiamato “grande romanzo americano”
Nel saggio E Unibus Pluram: Gli scrittori americani e la televisione, Wallace scrive: “la letteratura americana resta tuttora profondamente influenzata dalla televisione, specialmente quei filoni della narrativa che hanno le loro radici nel postmodernismo, il quale, anche al massimo della sua rivolta, con la metafiction, non è stato tanto una «reazione» alla cultura televisiva, quanto piuttosto una forma di accettazione della stessa tv”. Così la letteratura americana guarda allo specchio se stessa e il proprio sfrenato consumismo culturale, entra dentro le psicosi umane e i contrasti di un Novecento che sembra aver mutato le proprie coordinate. Certo, l’uomo non è granché cambiato dalla Russia di Dostoevskij, eppure l’uomo americano di fine Novecento ha delle ossessioni che nell’uomo russo di fine Ottocento erano diverse. È per questo che nella letteratura americana entrano le sigarette brandizzate, con un Wallace che spingerà fino agli estremi la lente di ingrandimento post-moderna.
DeLillo in Underworld lancia una palla da baseball che arriva fino a Foster Wallace
Wallace resta illuminante nell’affondare nei cuori umani dei suoi contemporanei, nell’afferrare la realtà per piegarla alle parole, nel descrivere quel misto di ossessione catodica e innocenza emotiva, di dipendenza televisiva (ne soffriva pure lui) e sconvolgimento, di straniamento e rigurgiti di fede – patriottica, divina; e ancora di come ci si possa mettere a pregare pur non pregando, di come la vista da casa della signora Thompson coincida con un lontanissimo skyline che si intravede da un salotto del Midwest, e di come lo scrittore americano ritenga sé stesso più responsabile di tutte le signore che lo circordano dentro casa Thompson, perché “qualsiasi fosse l’America che gli uomini su quegli aerei odiavano tanto, era molto di più la mia America (..) che non quella di queste signore”. È confortante leggere un racconto con la sensazione che il tempo non lo abbia fatto invecchiare e che abbia ancora qualcosa da dirci.