Abbiamo il piacere di intervistare Emidio Clementi, fondatore e bassista dello storico gruppo rock Massimo Volume. Lo incontriamo a Amsterdam, dove si è esibito sul palco dell’OT301, storico squat della capitale olandese.
Partiamo proprio da questo tour europeo. È la vostra prima volta?
Emidio Clementi: Sì, di un vero e proprio tour in Europa, sì. Anche in passato abbiamo suonato all’estero, a Londra, una volta in Germania, ma si trattava di date secche. Quest’anno, invece, attraversiamo l’Europa: prima Parigi, poi Amsterdam e infine Berlino.
Quindi tre date in tutto per quest’anno di tour europeo?
EC: Sì, concludiamo a Bolzano. Non so se la vogliamo considerare già estero [ride NdR]
Lasciando stare lo statuto di Bolzano, cosa vi aspettate da questo viaggio per l’Europa?
EC: In passato ai nostri concerti fuori dall’Italia, c’è stata una buona risposta di pubblico ma di un pubblico quasi esclusivamente italiano. Ora però si è affermata una nuova tipologia di immigrazione: tanti ragazzi che si trasferiscono in altri paesi perché non trovano un giusto riconoscimento agli anni spesi a studiare qui. Insomma, il nostro pubblico di riferimento abituale. Fa un po’ strano vedere sotto al palco gli stessi volti che vedresti a un concerto in Italia ma alla fine è vero che, anche trasferendoti, ti porti sempre dietro un pezzo d’Italia. Spero, però, si portino dietro anche i loro amici tedeschi, olandesi così tanto per allargare i nostri orizzonti.
Ma i vostri testi sono quasi tutti in italiano. Non rischia di essere uno scoglio insuperabile?
EC: Indubbiamente le nostre canzoni sono in italiano con testi anche molto densi. Quindi la lingua può rappresentare, in effetti, una grande difficoltà per il pubblico straniero, ma non si spaventino. Le canzoni sono sia musica sia parole e poi un amico italiano a cui chiedere c’è sempre.
Il vostro tour europeo arriva dopo l’uscita del vostro ultimo disco “Aspettando i barbari”. Un titolo curioso: ci puoi spiegare da dove è nato e a cosa fa riferimento?
EC: C’è un retroterra letterario in questo titolo: Aspettando i barbari è il titolo sia di una poesia di Kavafis sia di un romanzo di Coetzee. A me è venuto in mente e mi ha intrigato dopo aver visto il quadro di Ryan Mendoza che compare in copertina: ci sono queste due sorelle abbracciate, una che coccola l’altra, ma lo sguardo di una è rivolto verso qualcosa che è entrato dalla porta. E proprio pensando a quel momento di incertezza che il titolo va letto come una metafora di qualcuno o qualcosa che all’improvviso rimescola le carte in tavola. Qualcosa di positivo oppure di spaventoso: l’album si concentra nel descrivere quell’attimo in cui l’esistenza cambia e diventa altro.
E se dovessi utilizzare qualche parola per descrivercelo, come lo descriveresti questo nuovo album?
EC: Per prima cosa c’è stato con questo disco un cambio nelle tecniche di registrazione: si tratta di un lavoro tutto in analogico. Cambia, poi, l’orizzonte verso cui è rivolto questo album: se in quello prima prevalevano i toni e i contenuti intimisti, in questo ci apriamo e ci rivolgiamo con più sicurezza verso l’esterno. Non a caso sono tanti le citazioni e i personaggi storici che compaiono nei testi di questo disco. Insomma è più aperto ma anche più spigoloso rispetto ai precedenti. Chi verrà a sentirci a Amsterdam se ne renderà conto perché lo show, nonostante i venticinque anni già trascorsi sul palco, sarà concentrato sul nuovo album.
E proprio pensando al tempo trascorso, ai quasi venticinque anni sopra i palchi che sono passati dal vostro debutto [nel 1992 con il demo tape Demo nero NdR], com’è cambiato il vostro modo di relazionarsi musicalmente con il mondo intorno a voi?
EC: E’ difficile vedere i cambiamenti nel mondo intorno a te perché noi stessi facciamo parte di quel mondo. Si può dire che a livello banalmente tecnico l’arrivo di internet e del computer ha totalmente modificato il modo di fare musica e di produrla. Però è vero che la scena nostra, quella indipendente italiana, vendendo poche copie prima e ancora meno oggi, ha mantenuto vivo il circuito dei live, dei concerti che tuttora danno soddisfazioni e rappresentano l’unica via per sopravvivere per molti gruppi. Insomma si è creata una sorta di tradizione di musica alternativa italiana che ha segnato, nel bene o nel male, molte generazioni.
Le avete segnate non solo in termini di testi o di canzoni ma anche di gusti musicali. E allora come si sono evolute le vostre sonorità dai primi dischi, quando ancora studiavate all’università, fino a oggi?
EC: All’inizio eravamo delle vere e proprie spugne. Ci affidavamo in toto ai nostri modelli, cercando semplicemente di riadattare al contesto italiano la musica, in particolare la scena post-hardcore americana, e i cantanti stranieri, come Jesus Lizard, che ci affascinavano. Col tempo siamo diventati meno spugne, costruendo il nostro stile peculiare e badando meno ad altre influenze. Ora siamo consapevoli di ciò che siamo ma anche di ciò che non saremo mai in grado di fare.
Uno stile inconfondibile, insomma, sia prima del vostro scioglimento nel 2003 sia dopo la vostra reunion nel 2008. A cosa si deve attribuire questo ritorno sui palchi italiani e ora europei?
EC: Al caso, soprattutto al caso. Nel 2008, infatti, ci hanno chiamato per suonare a un festival torinese e avevamo pensato che tutto sarebbe finito lì. E invece, suonando insieme ancora, ci siamo resi conto che il nostro stile non ci aveva abbandonati e che le nostre canzoni erano ancora sulle labbra di molti quella sera. Abbiamo deciso così di fare un passo un po’ più lungo: perché non buttare giù qualche canzone nuova?
Con il nuovo disco, Cattive Abitudini, dopo lo scioglimento siete tornati a far parte a pieno titolo della scena indipendente, underground italiana. Come la vedi ora, te la sentiresti di consigliare qualche nome della scena nostrana?
EC: Ce ne sono diversi, da Vasco Brondi delle Luci della Centrale Elettrica fino ai Pan del Diavolo. Secondo me, nella scena italiana di cose belle e interessanti, al momento, ce ne sono parecchie. E soprattutto, rispetto a vent’anni fa, non siamo considerati e non ci autodefiniamo più come dei semplici fratelli minori di altre scene sicuramente già affermate.
Non a caso siete in viaggio per un tour europeo. Cosa vuoi dire agli indecisi, a quanti verrebbero a sentirvi ma forse no?
EC: Se uno non si spaventa per la nostra musica spigolosa e se ha voglia di conoscere l’Italia o semplicemente, nel caso di expats. di ricordarla, penso che la nostra musica possa essere un buon viatico per avvicinarsi alla realtà italiana, anche di questi giorni. Siamo a tutti gli effetti un prodotto italiano e un pezzettino del nostro Paese possiamo proporglielo anche noi, nei nostri concerti.
intervista a cura di Alessandro Pirovano