L’annuncio di Facebook della cancellazione di 23 pagine italiane con quasi 2 milioni e mezzo di fan che condividevano fake news e parole d’odio ingiustificato ci mette davanti all’ennesima, e inevitabile, prova del momento critico che sta vivendo la nostra realtà. L’avvento dell’informazione sui social network, la condivisione feroce e disattenta, perfino il meming, ha trasformato la concezione di verità e affidabilità della notizia come mai prima d’ora, fagocitando i media tradizionali e seminando una diffusa incapacità di distinguere il falso dal vero. Non sorprende che sia proprio l’Italia uno dei paesi con la percezione più distorta della realtà, come traspare in un recente sondaggio condotto dal direttore di Ipsos. La manipolazione dell’informazione che tendenzialmente preme per creare un clima di terrore diffuso, quella necessità di deviare il centro del discorso su un altro piano attraverso la creazione di nuovi nemici, non è una tecnica nuova nel linguaggio delle politiche più ostili alla democrazia. La storia, e le più contemporanee campagne di Trump e Bolsonaro, l’esperienza russa o dei paesi del patto di Visegrad, hanno dimostrato quanto sia più semplice penetrare le radici democratiche dall’interno, sfruttando le spaccature di un’opinione pubblica divisa fra schieramenti opposti, per poi affermarsi come difensori delle sue fondamenta più preziose, attraverso il culto della nazione o lo scontro etnico.
Sostituire le pressanti necessità della modernità di oggi, dalla catastrofe ambientale alla crisi del welfare state, con incombenze ricamate per apparire più urgenti, evita a queste forze di compiere scelte impopolari e decisive, di darsi l’immagine di un’alternativa più severa, diversa da tutte le altre, spacciate ora per mondialiste e di un progressismo destinato al fallimento. Piano piano cominciano a inserirsi viscidamente fra i media attraverso l’uso di affermazioni provocatorie, dure con il diverso e compiacenti con se stesse, solleticano l’anima insicura e rancorosa, fino a contaminare il linguaggio comune con incubi medioevali, portando l’ambiente sociale in uno stato di costante allarme. Fra queste pieghe, fra ciò che è e quello che viene messo in discussione continuamente, la realtà assume una doppia lettura, come filtrata in base a una visione preimpostata. Hanno formato prima la rabbia, dando in pasto alle proprie tribune popolari chi si oppone a queste idee di controllo, identificando e marginalizzando attraverso un campionario predefinito di immagini. Usano queste armi dialettiche di basso rango per spostare la conversazione da un piano contenutistico a uno viscerale, che sfrutta l’invidia sociale per opporsi al ragionamento culturale. La ragione di un popolo mai definito piuttosto che quella della discussione. Come tutte le invidie che si generano nel malcontento, quella sociale si tramuta presto in rabbia verso la condizione degli altri piuttosto di porsi in maniera propositiva su come migliorare la propria. Chi soffia su questo fuoco ha mutato e impoverito il proprio linguaggio, alterna momenti di attacco ad altri di spensieratezza infantile. Lo fa con tempistiche ragionate, come seguendo un calendario, a piccole dosi. La foto di un pranzo poi l’attacco a Saviano, una bonifica e un rogo dei libri. Così in fondo che, paradossalmente, i nemici della democrazia diventano proprio quelli che cercano di difenderla e, viceversa, i suoi oppositori i nuovi depositari di un bene comune più importante della libertà. Pensare è stato abilmente trasformato nel privilegio dei pochi, di chi vive scollato dalla realtà. Che non prova la fame, la paura, perché al sicuro in una ricostruzione che lo vede vivere in fantasiose magioni nordamericane. Dal contenuto all’immagine, dalla realtà allo stereotipo. L’invidia sociale è uno dei pennelli più veloci con cui dipingere di nero la storia. Da quando la cultura è diventato il vostro nemico?
Costringere gli interlocutori a una doppia lettura, ad abbassare costantemente il livello del discorso a poche – sempre identiche – parole, consente ai comunicatori come Matteo Salvini di circondarsi di una fiducia quasi illimitata. Un culto, buono solo per portare a un’autoincoronazione. Non importa più. Viviamo in uno stato di insonnia, della nebbia bianca che contamina la popolazione portoghese nella Cecità di Saramago. Arrivata apparentemente all’improvviso, ma sedimentata da anni, è impossibile che vada via allo stesso modo. Avvolge, si ingrossa, diventa rabbiosa e si impossessa del potere. Un’emorragia progettata che solo poco prima di arrivare al dissanguamento preme sulla ferita per tamponarla.
Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.
Tutto perde consistenza come se d’improvviso un buon numero di persone si trovino d’accordo nel trovare corretto che due più due possa fare cinque. È ciò che permette a 49 milioni di perdere ogni aspetto legale e simbolico. Alle parole di non assumere più importanza. Alle persone di non avere più vergogna. Il caos in cui un Matteo Salvini può muoversi, prosperare, ormai senza più argini, sfruttando la propria posizione per farsi amico del popolo e creare contemporaneamente nuove forme di repressione selettive, con tutti i mezzi a sua disposizione e la connivenza, questa sì, di una parte delle autorità. Non è casuale che proprio con le prime rimostranze, comizio dopo comizio, il Ministro dell’interno abbia dichiarato di perdere la pazienza, minacciando di utilizzare provvedimenti più severi. L’opinione pubblica che resiste rimane un’incognita per questo percorso, un nemico potenziale per chi cerca di fare affermare qualcosa di diverso dalla democrazia. Metterla in silenzio, con le buone (le minacce) o con le cattive (dalle identificazioni alla violenza più o meno alla luce del giorno), è balzato improvvisamente in cima alla lista come dimostrano alcuni dei nuovi punti che trapelano dalla bozza del decreto sicurezza bis. In certi casi è proprio la doppia lettura l’alleato migliore, quello che permette di circondare gli oppositori e condannarli a uno stato di esilio perenne e di estraneità sociale. Da un lato perseguiti, dall’altro non ascoltati.
La doppia lettura si forma su un’illusione diffusa. L’illusione di doversi sentire al sicuro dalle minacce esterne, fino a utilizzare le proprie mani come nel caso della difesa privata, un altro dei provvedimenti più discutibili approvati da questo governo. Un popolo si legittima nella difesa quando si trova sotto una minaccia evidente, non per degli incubi fomentati da chi gioca al capitano.
Le polemiche attorno al Salone del Libro di Torino e la casa editrice dell’intervista a Salvini – chiunque può comprendere come ogni pubblicazione riguardante un ministro debba passare dalla sua approvazione – hanno mostrato la parte più terribile del nostro tempo. Un Ministro della Repubblica che non si schiera, che non attacca mai direttamente le forze ostili alla democrazia è un fatto grave ma non è l’unico indizio. È l’immagine di una spaccatura interna decisiva che non rendono per forza Salvini un fascista ma evidenziano una sua vicinanza, più o meno di comodo, a forze di questo tipo. Una legittimazione alla violenza, che gli permette di lavarsene le mani e scaricarli non appena sarà il momento. Come accaduto con la Chiesa e il Papa, da chi non meno di quest’estate giurava sul Vangelo dal palco di Pontida. Se i componenti dei centri sociali sono i maleducati figli di papà, attorno alle forze neroverdi, come nel caso dello stupro che vede indagati due componenti di Casa Pound, o la questione dei debiti della sede centrale dei fascisti del terzo millennio, Salvini non si esprime. Mente, come quando dichiara di non aver mai conosciuto l’editore Polacchi in televisione, per poi camuffarsi nel liberale che si oppone alla censura. Contro questo bisogna lottare. Non si può indietreggiare di un passo.
Siamo sotto attacco e non ce ne stiamo rendendo conto perché non siamo più in grado di riconoscere il falso dal vero. Perché non siamo stati in grado di animare le nostre forse di resistenza intellettuale e fisica alla forza e alla convinzione di chi ci vuole togliere tutto. La doppia lettura, che si dà e che si toglie, finché si vede ancora.