C’è qualcosa, nell’ingenutà di Frances, da renderla quasi insopportabile. Le vorresti dire di non inseguire quella snob di Sophie in ogni parte del mondo, perché non la merita, e di rassegnarsi al fatto che non sarà mai una ballerina professionista, che il problema dell’essere indecisi è l’indecisione stessa e di smetterla di credere nella favole perché New York non è più la città di Duke Ellington al Savoy, ma al massimo quella dei Diiv in un qualche localetto a TriBeCa. Forse perché sono parole che vorremmo dire a noi stessi e, per capirlo, abbiamo bisogno di vederlo rappresentato su uno schermo, o scritto sulle pagine di un libro, per non credere di essere soltanto noi quelli immobili e complessi. Fra genitori mai davvero cresciuti, quarantenni che non hanno accettato il passare del tempo e giovani che non sanno prenderselo, il cinema di Noah Baumbach può rappresentare le tante pieghe del nostro mondo, indipendentemente a quale di queste si appartenga, e di raccontarle ognuna nelle sue peculiarità. Non sono temi e idee rivoluzionarie, poco più di didascalie di un’epoca che ancora non può comprendersi, ma che si attaccano profondamente al tempo che vivono. È l’idea di una mitologia di un periodo che ha perso i suoi eroi e fatica a costruirsene di nuovi perché, forse, non ne ha proprio più bisogno.
I personaggi di Baumbach non sono quasi mai degli sconfitti, non vivono con dolore la loro esperienza anche se non si può dire che condivida il gusto tragicomico dell’amico Wes Anderson. In comune con lui c’è, piuttosto, quella visione della vita in cui il malinconico non è mai un motivo di tristezza e abbandono ma, anzi, una fonte inesauribile di incongruenze e incomprensioni. Entrambi si limitano a rappresentare uno spettro di realtà, lasciando il giudizio a chi li guarda, come in una conversazione fatta al tavolo di un bar, mentre guardi le coppie che non si parlano e giocano col cellulare, o provi a indovinare perché quei due litigavano per strada. Quelle di Baumbach sono storie che involontariamente si autocitano e si rincorrono. In ogni film sembra esserci sempre un indizio che presuppone qualcos’altro, un gesto che ti spinge ad allacciare una corrispondenza fra scene e situazioni completamente diverse. Questo perché è la vita stessa a essere una continua ripetizione di eventi già vissuti e di sensazioni già provate e il cinema è solo uno dei mezzi che ti permette di raggrupparle più facilmente. È possibile, allora, pensare che ne Il matrimonio di mia sorella del 2007 ci sia qualche eco de Il calamaro e la balena di due anni più vecchio, o che Frances Ha possa avere molto in comune con Lo stravagante mondo di Greenberg, e non solo per la presenza della musa Greta Gerwig che, da sola, meriterebbe molte altre parole. Le storie son fatte per ripetersi, dicevamo, i personaggi invece, nelle loro tante somiglianze, hanno sempre qualcosa in più, che si definisce quanto si sfuma, proprio come chi non riusciamo mai a conoscere del tutto.
Baumbach si approccia prevalentemente con le età di transizione e i problemi che questi passaggi comportano. Tutti loro, però, si tratti dell’ingresso nella maggiore età, il diventare adulti o l’accettare un inevitabile invecchiamento, sono fatti di quella grande necessità di accettarsi. Cercare, quindi, l’unico modo per essere parte di qualcosa, o avere valore per qualcuno, nella difficile lotta dell’esistenza che per ognuno è una corsa per non scomparire. Il giovane Walt Berkman che per vincere il talent show della scuola suona un pezzo dei Pink Floyd non è tanto diverso dalla studentessa che va a letto con suo padre o dall’esasperato citazionismo arrivista di Jamie Massey di Giovani si diventa (uscito da poco al cinema), intrappolati nello stesso universo giovanile di Frances Ha. Non c’è spazio per le avventure, la gioventù sembra dividersi sempre in due parti, quelli che hanno la vita già scritta – posto fisso e idee fisse sul proprio futuro – e quelli che non sanno nemmeno in che letto dormiranno fra sei mesi, se avranno uno stipendio o se qualcuno crederà in loro, nel continuo presente in cui si aspetta arrivi, spesso da solo, un cambiamento. È lo spettro di ogni mondo che attualizziamo perché è quello che stiamo vedendo. È il mondo dei più giovani che faticano a trovare un posto riparato in cui poter sviluppare la propria individualità, artistica o meno, e che per le troppe mancanze, di maestri, coraggio e libertà, finiscono per ottenere solo una parte di quello che vogliono, e spesso nemmeno quello, fino all’accontentarsi di ciò che si ha. Baumbach non ci dice quanta sconfitta ci sia in tutto questo, lasciandoci senza finali, ma ci parla dell’importanza di questo percorso che non si conclude, evidentemente, nemmeno con la maturità.
Gli adulti, probabilmente per questioni biografiche, sono quelli più presi di mira. Non condividono le speranze e la leggerezza dei loro compagni più giovani, affossati dalle responsabilità e dalle mancanze che si ripercuotono sugli altri e non gli rimangono molte possibilità di riscatto. Le accuse al vecchio Berkman, o l’immaturità di Greenberg e di Josh Schrebnick, entrambi interpretati non a caso da Ben Stiller, sono l’evidenza di una generazione che non è mai cresciuta, in crisi con gli anni, e che non permette nemmeno agli altri di crescere o di farsi da parte. Il seguito naturale, ancora una volta, di quella divisione in due dei generi. Lo scacco però, rimane lo stesso, e il procedere verso il finale dei film non ci fa mai capire se la maturazione sia, poi, davvero una necessità, e quali canoni possa assumere. Non si tratta più di essere eterni ragazzi o di invecchiare precocemente, in questo universo, ma soltanto di seguire la propria direzione. È il loro anticonformismo a renderli più che degli stereotipati personaggi in crisi di mezza età, in una realtà che non premia più le diversità ma che, soprattutto, ha mescolato i confini fra ciò che è giovane e ciò che non lo è più, Baumbach si inserisce portando le sue derive. Non è una critica al sistema, non è certo politica, ma solo una lettura di ciò che stiamo diventando.
Josh: Per la prima volta nella mia vita ho smesso di pensare a me stesso come a un bambino che imita un adulto.
Cornelia: Ti senti così anche tu?(da Giovani si diventa, 2014)
È una commistione di passato e presente, delle esperienze e dei ricordi di tutti. Sono due onde generazionali che si scontrano senza fare rumore e che non si conclude mai. Il gusto hipster, in cui il culto del passato è quello che muove la cinica constatazione che il presente non abbia nulla da offrire dei giovani opposto a un culto quasi spassionato per il nuovo dei più adulti che, quel passato, l’hanno vissuto. Il divario è insanabile, Greenberg, come un moderno Peter Pan, è costretto a crescere, Schrebnick dovrà fare i conti con se stesso e la sua età. Nel più disincantato Il matrimonio di mia sorella diventa chiaro, però, incarnato dalla maniaca del possesso Margot, come ogni idea e concetto che si ha sul mondo, in definitiva, non valga nulla se non per se stessi, e interessi pure poco al susseguirsi delle cose, quindi è inutile struggersi per avere tutto sotto controllo, soprattutto l’esistenza di qualcun altro.
La mitologia dei personaggi di Baumbach, per quanto hipster possa continuare a essere definita (Giovani si diventa è, un po’, quel film manifesto che nessuno guarda e che divide i critici), affonda le radici nel nostro contemporaneo, che anche se non è newyorkese non ne è per niente lontana. Lontana dalle vite splendenti della hollywood che crede ancora negli eroi dei fumetti e si gonfia di sé, sono gli anti-eroi degli Anderson (Wes e Paul Thomas), dei Baumbach e dei Jarmusch, tipi di cinema profondamente diversi, fra i pochi capaci di una delle possibili visioni di qualcosa su di noi.