È difficile rapportarsi alla scrittura di un pezzo riguardante un film che ti ha talmente riempito da far traboccare il vaso intimo delle emozioni. E giù con le lacrime, a ricordarti che il tempo al cinema non è mai sprecato, soprattutto quando davanti si ritrovano 98 minuti custodi della limpida bellezza de L’altro volto della speranza. Ultima opera del regista finlandese Aki Kaurismäki, il cui ammirevole lavoro dietro la macchina da presa è stato riconosciuto con l’Orso d’argento nell’ultima edizione del Festival di Berlino.
L’altro volto della speranza presenta senza troppi giri di parole i due protagonisti con l’immediatezza secca delle immagini che non necessitano di superflue spiegazioni. Khaled è un viso sporco di nero nascosto all’interno della stiva di una nave appena approdata a Helsinki, dove lo vediamo vagare poco dopo; Waldemar Wilkstrom un uomo che si abbottona la camicia prima di abbandonare una casa e una fede nuziale sul tavolo. Due individui figli del loro tempo, del nostro tempo. Negli ambienti color pastello di una Helsinki che si rivela più come lo scenario perfetto per un racconto da destinare ai bambini che ennesimo palcoscenico di un vivere precario a cui nessuna declinazione della popolazione media europea riesce a sottrarsi.
Kaurismaki riprende l’attualissima questione dell’immigrazione, in una linea tematica continua e calorosamente familiare e realizza un’opera garbata e delicata che si muove con genuina levità sui fragilissimi confini che separano tragedia e riscoperta, odio e amore, guerre e fughe.
In un territorio nuovo, sconosciuto, ostile e chiuso nella sua burocrazia e nell’assenza totale di giudizio di skinhead omologati, il giovane siriano affronta il nuovo mondo grazie al proprio temperamento deciso. Ma nei momenti campali – e qui emerge la filosofia del maestro finlandese – a fare la differenza è esclusivamente l’aiuto disinteressato di gente qualunque.
Come Wilkstrom, il cui rapporto con Khaled nasce letteralmente da una scazzottata, a cui però viene lasciato solo il tempo di rientrare nei locali del ristorante che l’uomo sta cercando di riportare in vita.
La morale non rischia di essere fraintesa: se qualcuno ha bisogno di aiuto, lo si aiuta. Come si può. Il vero atto di forza non risiede in azioni violente o dichiaratamente eversive verso il modus operandi dei governi, quanto più nella sincera generosità che ognuno di noi può far emergere verso l’altro in ogni contesto, anche quelli in cui ci muoviamo d’abitudine.
La potenza di questa pellicola sta proprio nella naturalezza quasi spiazzante in cui il tutto avviene. Nonostante i tratti fiabeschi, l’universo ritratto non perde mai connotazione realistica, né viene animato esclusivamente da eroi. Ognuno si barcamena tra le sue crisi familiari e lavorative, si ingegna e progetta un nuovo futuro ripartendo da una tabula rasa, si scontra con altri individui pronti a mettere più di qualche bastone fra le ruote. Eppure, è sempre possibile ritrovare un gesto di umanità, anche da chi non ti aspetteresti. Ed è quello a cambiare il corso di un destino apparentemente già scritto.
Il tutto senza il triste intento di suscitare compassione o architettare banali platealità, ma, anzi, in un’altalena tra scene drammatiche e momenti surreali quanto divertenti, facilmente si ci ritrova a ridere di cuore.
E il cinema di Kaurismaki ne ha tanto, di cuore. L’altro volto della speranza è un commovente ritorno all’essenziale, alle cose che prima di essere terribilmente belle, sono giuste, a verità non sussurrate, ma mostrate senza vane velleità e presunzioni. Con immancabili frangenti di sana ironia e denso lirismo, a suggerire dolcemente una grande fiducia nell’umanità di cui dobbiamo ancora essere capaci.