L’impegno politico in forma di musica e spettacolo | Forse avevamo bisogno di questo tour 2025 dei Massive Attack per ritrovare la nostra umanità
di Francesco Chianese e Chiara di Chio
La grande attesa per il ritorno in Italia dei Massive Attack si consuma in fretta, quando il duo più famoso della scena musicale bristolese, Robert “3D” Del Naja e Grant “Daddy G” Marshall, sale sul palco insieme alla band e lo schermo buio all’improvviso si illumina cominciando a proiettare immagini impressionanti di guerra e propaganda, che sostituendosi a ritmo crescente accompagnano la performance musicale, dando vita al tipico happening che ormai associamo alle loro esibizioni dal vivo e che difficilmente lascia indifferenti. Quattro le date del tour estivo, avviato il 18 giugno al Parco della Musica di Milano, nel contesto di Unaltrofestival, proseguito il 19 giugno a Ferrara, come parte del Ferrara Summer Fest, quindi il 22 giugno all’Arena Flegrea di Napoli, e infine chiuso il 24 giugno a Gorizia, evento cardine tra quelli organizzati nel programma di Go! 2025 per la celebrazione della capitale europea della cultura insieme alla gemella Nova Gorica, nel Piazzale della Casa Rossa. Neanche a farlo apposta, ci siamo trovati a seguire a distanza la prima e l’ultima data di questo quartetto di concerti, spinti da aspettative diverse e attraversando storie diverse, e abbiamo così insistito per scriverne entrambi, perché un solo report non ci è sembrato sufficiente: uno per Milano e uno per Gorizia, uno per Daddy G e uno per Del Naja. Ci dispiace non averne anche uno per Napoli, in cui Del Naja ha avuto l’occasione di esprimere con uno speciale tributo nella data napoletana la sua passione per il Napoli calcistico, poche settimane dopo la vittoria dello scudetto. Mettendo insieme i due pezzi, ci siamo accorti che è stato un po’ come aver visto il concerto insieme: che sia Milano, Napoli o Gorizia, siamo subito trasportati a Bristol, respiriamo l’effervescenza ribelle di questa città di artisti e pirati, il tipico odore di birra, patate fritte e sovversivismo ci investe le narici.

Chiara di Chio, Milano: Un viaggio onirico nella realtà
Al Parco della Musica di Milano, in una calda e afosa serata di giugno, con l’estate arrivata in anticipo, è subito attacco massivo. Non siamo ‘solo’ a un festival – UnAltro Festival – non stiamo assistendo ‘soltanto’ ad un super live e neanche ad un’esibizione pazzesca dei loro pezzi più o meno iconici, quella che i Massive Attack, pionieri del trip hop, attivi sin dal 1987, portano sul palco della nuova area verde novegrese di 70 mila mq, inaugurata proprio in questa occasione, è una vera e propria manifestazione politica, con tanto di bandiere palestinesi. Siamo tutti pronti a prendere letteralmente ceffoni in faccia, polizia sullo sfondo inclusa, (in)consapevolmente, anche perché, parliamoci chiaro, se vai al concerto dei Massive Attack non puoi non sposarne la causa politica.
Da sempre artefici di un linguaggio ipnotico e simbolico, capace di trascinare in atmosfere altre, forse gli unici che ancora incarnano lo spirito autentico del post-punk, Del Naja e Daddy G fanno del loro live l’esempio emblematico di come musica e attivismo politico possano combinarsi perfettamente e sapientemente, smuovendo le coscienze. Insieme ai loro collaboratori di una vita – il giamaicano Horace Andy, che canta uno degli ultimi brani usciti Girl, I Love You, Elizabeth Fraser con la sua attesissima Teardrop, Deborah Miller con due pezzi cult come Safe From Harm e Unfinished Sympathy – i “bristoliani” danno vita a un’esperienza multisensoriale che fonde batteria, basso, chitarra e campionamenti elettronici, unendo musica e visual art. Scritte, numeri, statistiche, big data non sono personaggi secondari, diventano protagonisti, insieme ai suoni, di uno show senza precedenti. Dietro a Del Naja e Daddy G scorrono in loop, su un mega schermo centrale, reportage di bombardamenti, profughi, città rase al suolo, immagini distopiche dalla guerra in Ucraina alle sofferenze del popolo in Congo ai reel generati con l’intelligenza artificiale con Trump, Musk, Netanyahu bersagli principali. ‘Benvenuto nel cyberspazio, nella tua rabbia, i sistemi di feedback estraggono le tue emozioni e le trasformano in denaro’, queste alcune delle scritte giganti che catalizzano l’attenzione dello spettatore, ‘mentre in silenzio i soldi continuano a fluire a Zug’, ed evidenziano la crudeltà dell’umanità contemporanea, un pugno che arriva dritto allo stomaco di ognuno di noi ed anche un modo per la band per mettere in risalto la malattia del presente che viviamo e la disumanizzazione dell’informazione stessa, la distopia informazionale iper-digitalizzata che ci consuma le sinapsi ogni santo giorno.
Entriamo un po’ più nel merito della scaletta, brani storici trasformati in pura grandezza orchestrale come Inertia Creeps, Teardrop con una Liz Fraser angelica e immensa, Angel con la voce un po’ âgé ma pur sempre seducente e suggestiva di Horace Andy, Black Milk e Risingson lacerano di sicuro la GEN X in primis, ma anche tutte le altre Gen. In 90 minuti – dalle 22.10 circa alle 23.40 – il duo di Bristol, che apre e chiude il live con In My Mind, remake moderno de L’Amour Toujours di Gigi D’Agostino, infilandoci nel mezzo cover anche un po’ zarre come Levels di Avicii senza perdere nulla del proprio stile, mette in rilievo il senso più recondito della musica: rimanere fedeli alle proprie origini, ma al contempo elevare le opere prime a veri e propri monumenti, raggiungendo altri e alti livelli, mettendo in atto una trasformazione politica e spirituale. Ogni brano è un mondo a sé, quando Fraser intona Teardrop il tempo si ferma e il fiato si blocca. La sua voce è quella che ci ha stregati trent’anni fa, ma oggi assume quasi i toni di una preghiera, trascinandoci in una sorta di stato di trance o di grazia, pov.
Ci troviamo di fronte a un viaggio onirico, ma al contempo siamo catapultati nella realtà del mondo, assistiamo a un’ascesa e al tempo stesso discesa in un tempo rallentato e inquieto, atteso e sospeso. La musica dei Massive Attack mette in atto la resistenza e anche la resilienza, sì! Di certo non rassicura, piuttosto trascina in un mondo gelido e oscuro, tuttavia necessario per smuovere tutti dall’interno. Si torna a casa disorientati, scossi ma esaltati al tempo stesso, per aver assistito ad uno show dove tutto funziona perfettamente, senza la necessità di dover dimostrare nulla. L’unica speranza è che prima o poi le cose possano cambiare… in meglio! Come leggiamo sullo schermo: “Siamo tutti bambini di Gaza, Palestina libera!”

Francesco Chianese, Gorizia: Ritorno a Bristol Sound
Quando vivevo a Bristol, una decina di anni fa, avevo inaugurato una rubrica dedicata ai gruppi locali per questa webzine, si chiamava Bristol Sound, chiaramente ispirata ai Massive Attack, che però non sono mai riuscito a vedere a Bristol. Infatti, Del Naja e Daddy G hanno snobbato la loro città di origine per oltre dieci anni in segno di protesta contro le amministrazioni che non avevano predisposto uno spazio adeguato per poter accogliere i loro ascoltatori, se non la music hall intitolata allo schiavista Edward Colston. E sono tornati a suonare a Bristol quando il locale è stato rinominato Bristol Beacons, dopo che la statua di Colston è finita nel fiume Avon durante le proteste nel periodo Black Lives Matter, con uno spettacolare concerto tenuto sulla collina dei Downs in occasione del Forward Music Festival. Sembrano chiacchiere un po’ superflue, ma non c’è modo migliore per presentare Del Naja e Daddy G, da sempre stati rappresentativi della loro città irrequieta nelle scelte artistiche come in quelle organizzative, determinate da spirito polemico e sete di giustizia. Quando i Massive Attack sono tornati a Bristol, avevo ormai lasciato la città da anni. Dopo oltre dieci anni di inseguimenti, è stato con sorpresa e sollievo che sono riuscito a vederli per la prima volta nel posto più distante possibile, concettualmente, da Bristol, e in cui non avrei mai immaginato di trovarmi: a Gorizia. Cittadina non troppo conosciuta della Venezia Giulia, metà italiana speculare alla controparte Nova Gorica, ufficialmente in Slovenia, Gorizia è troppo lontana da Trieste ma anche dalle campagne friulane per poter costituire un’attrazione turistica, ma all’improvviso si trova sotto i riflettori, nominata capitale della cultura per il 2025: decisamente una città che custodisce la magia degli incontri.
La situazione che ci accoglie non è ideale: siamo costretti a parcheggiare lontanissimo dall’area concerto, che ci appare abbastanza improvvisata, un piazzale un po’ fuori dal centro e poco attrezzato a cui si accede con procedure lente e macchinose, decisamente non adatto ad eventi che fanno questi numeri. Il pubblico si infoltisce gradualmente man mano che ci avviciniamo al palco, intorno a me ci si lamenta per la difficoltà di riuscire a prendere una birra per le code lunghissime formatesi ai due unici stand disponibili, non il massimo in una serata così calda, mentre quello delle cibarie invece è vuoto perché c’è poco da mangiare. Questa è l’atmosfera mentre comincia a scurire, che in tutti i dettagli ricorda una tipica serata bristolese, incluse le immancabili chips annegate nell’olio che mi capitava di mangiare di tanto in tanto rientrando a casa tardi la sera. E come succede a Bristol, ci si dimentica rapidamente di tutto quando il palco si illumina, e Del Naja e Daddy G e il loro entourage, gli stand si svuotano, il pubblico ammutolisce, le casse sparano altissimi i bassi come ci si aspetta in un concerto di trip hop, un genere che coincide praticamente con le poche band che l’hanno introdotto, e che ha mantenuto una sua originalissima freschezza nell’essere sostanzialmente irriproducibile in qualsiasi altro contesto.
Senza ripetere la scaletta, che è la stessa esibita sul palco a Milano (da napoletano, sento di aggiungere che quella di Napoli aveva in più il tributo alla squadra), confermo che l’impatto di un concerto di questo tipo è il medesimo, a Milano e Gorizia, decisamente unico quando si pensa a numeri di questa portata, soprattutto per i modi espliciti di condanna di volti, persone ed avvenimenti che i media generalisti affrontano con atteggiamenti ambigui se non visibilmente ipocriti. Lo spettacolo è imponente, insomma, sia per apparato visivo, sia per l’impegno politico da sempre professato dal gruppo: 90’ di concerto e canzoni di protesta, mentre assistiamo a un bombardamento di immagini di guerra e asservimento alle multinazionali, il tipico argomento che i due portano avanti da anni, che diventa sempre più frenetico davanti ai nostri occhi, e sempre più in profondità riproduce le nostre giornate di sovraesposizione agli schermi. Non so se si può parlare di spettacolarizzazione dell’impegno o del senso di colpa, resta che un gruppo di questo tipo riesce a fare intrattenimento senza abbassarsi alle logiche di alleggerimento professate in questi contesti: si è esposti costantemente al dolore, allo strazio, si partecipa come comunità che riflette e reagisce, ci si arrabbia, si inveisce contro le immagini dei dittatori, ci si sente alla fine svuotati di tanta amarezza e tanto rancore. E in questo modo, regalano al pubblico uno spettacolo che è ben oltre quello offerto da un disco, arrivando anche a giustificare la spesa di un biglietto così caro, seppure allineato ai costi che i concerti di un certo richiamo hanno ormai raggiunto.

Il concerto associa la musica all’insieme di notizie, di dati, di numeri sparati sullo schermo sugli orrori di cui siamo testimoni costantemente, in tempo reale. Molte di queste immagini e di queste informazioni erano dedicate a Gaza ed è con la bandiera palestinese sullo sfondo che si chiude la serata: Bristol è una città che si è sempre distinta, insieme alla sua comunità di artisti, per l’impegno a favore della Palestina. Non c’è mai stato nella storia un momento in cui siamo stati resi partecipi di un genocidio con questa insistenza e queste modalità, grazie ai mezzi tecnologici di cui disponiamo oggi, forse neppure un momento in cui questo orrore ci viene trasmesso con un tale livello di consapevolezza e disumanità. Guardando il concerto ho sentito che faccio troppo poco per Gaza, come tutti. Che l’unica cosa che ci è rimasta è quella di sensibilizzare, testimoniare, raccontare, diffondere: perché non è immaginabile che si possa continuare con questo sterminio rimanendo passivi. E se scrivo Gaza, è perché oggi l’orrore è Gaza, non è detto che domani non succeda in un altro posto. Se scrivo di un concerto, ed è il concerto dei Massive Attack, allora sono felice di poter scrivere di questi argomenti mentre racconto un concerto, come sarebbe giusto fare. Se questa è l’unica arma che ci è rimasta, allora raccontiamo l’orrore coi mezzi che abbiamo, in modo che ogni contesto mostri costantemente una testimonianza dell’orrore.
Così scopriamo che si va a vedere un concerto dei Massive Attack e se ne esce con una diversa consapevolezza del mondo che abbiamo intorno: un concerto grandioso, si potrebbe dire brechtiano, che ti costringe a guardare dentro l’orrore senza poter distogliere lo sguardo. Un concerto forse non per tutti, insomma, sicuramente non per chi ha pensato di passare una bella serata tra amici a ridere e ubriacarsi spensierati. Ma forse è proprio quello di cui avevamo bisogno per ritrovare la nostra umanità, mentre ci recavamo inconsapevoli a sentire l’ultimo concerto del nostro gruppo preferito.
Foto Mafalda Laezza