Questa è la maledetta città di cui ti puoi innamorare follemente anche se non è la tua di città, ma basta osservarla di sfuggita in tutto il suo sincero entusiasmo, in quei pochi momenti in cui le si riserva il lusso di festeggiare qualcosa (ehssì, fosse pure una Coppa Italia), col capofamiglia che fa pace coi suoi vicini di casa pakistani dei vasci (il vascio a Napoli è il piano terra che affaccia direttamente sulla strada), e gli passa tramite un cestino che fa scendere con la corda dal balcone una bottiglia di spumante, con lo scoppio del tappo che torna su verso l’alto quasi a festeggiare un meltin pot di sentimenti. Questa è la maledetta città in cui trovi la sintesi dei vizi carnali e del ventre dell’umanità, avvinghiata nelle sue contraddizioni di bandiera, piena di piccole battaglie interne che non sono solo camorra e lotte di sangue, ma anche guerre tra tribù diverse e sentimenti diversi, tra chi è con Saviano e contro Saviano, tra chi difende Napoli a spada tratta anche quando è difficile da difendere, e chi la attacca solo perché è Napoli, talvolta anche da napoletano, forse perché esisterà sempre un certo stereotipo di che cos’è un napoletano. Insomma, è un piccolo grande caos, difficile da raccontare, e non pretendo di farlo proprio io.
La letteratura su Napoli spesso racconta una certa parte di Napoli, quella invischiata nei traffici della camorra, quasi in maniera automatica. Lo fa spesso anche il giornalismo, probabilmente dopo aver scoperto che può diventare un grande successo raccontare la camorra. Un business nel business, con largo pubblico di lettori. Dal racconto della finale di Coppa Italia, per esempio, il simbolo dell’immagine della vittoria del Napoli sulla Fiorentina è diventato l’ultras ”Genny, figlio di camorrista”, che presumibilmente si dice abbia dato il via alla partita, o trattato, o dir si voglia (evocando milioni di parole in proposito). Gli articoli sul tema delle infiltrazioni camorristiche all’interno della curva del Napoli si sono sprecati, tralasciando forse un pochino il fenomeno a un livello più globale, come potrebbero essere le infiltrazioni fasciste nelle curve della Lazio o dell’Inter. La figura di Daniele De Santis è passata addirittura in secondo piano rispetto a Genny, e De Santis sarebbe l’ultrà della Roma che ha sparato sette colpi di pistola colpendo Ciro Esposito prima dell’inizio della partita. Non solo, tutta la dinamica che ha portato alla sparatoria non è ancora chiarissima, a dimostrazione dei video che stanno uscendo fuori nelle ultime ore, e che dimostrano come il problema sia meno ‘tipico’ di come è narrato minuto per minuto.
Mi pare bella da ricordare una frase di Pier Paolo Pasolini, appassionato di calcio e tifoso del Bologna, a proposito di questo gioco e dei suoi sentimenti: ”Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. Il calcio a volte diventa un rituale liberatorio del senso delle appartenenze a una comunità, che è uno di quei sentimenti umani che non possiamo eliminare anche se non è fondamentale, è come il bisogno umano di inventare storie. Ovviamente ci sono tanti modi di approcciarsi a questi sentimenti di appartenenza, e c’è anche chi è rimasto fermo ai tempi delle guerriglie tra territori. Chiaramente, in generale chi vive il calcio con questo spirito guerriero è più probabilmente, nella vita di tutti i giorni, vicino a certi gruppi più estremisti. Tutto questo non è una giustificazione e non vuol dire che non bisogna trovare modi di risolvere il problema (se non scrivo questa riga e la do per scontata diventa un bel guaio proseguire): ma trovare i modi vuol dire inquadrarli.
Quello che voglio dire è che si stanno un po’ confondendo le idee, e che tutto si riduce ad altra letteratura d’inchiesta sulla camorra, anche se bisognerebbe parlare di infiltrazioni nelle curve di ultras a tutto spiano.
Vedi Napoli e pensi solo a Gomorra. Che poi Gomorra esista è una grande verità, altrimenti non troveresti la città tappezzata da manifestini che inneggiano alla vergogna per il lancio della neo serie tv tratta dal libro di Roberto Saviano, che tra parentesi, ha avuto il merito di portare l’attenzione su un problema che a Napoli esiste. Vedi Napoli e pensi di morire a Gomorra, anche questo è uno stereotipo difficile da estirpare a chi non ci vive dentro. Vedi Napoli, e inviti tutti a scappare da Napoli, come un grande piano di evacuazione per il Vesuvio. A forza di non crederci mai, in questa maledetta città, poi diventa tutto così amaro. Amare sono le parole che si rincorrono, amara l’accettazione della realtà, amara la fede nei santi che non possono fare niente.
Le parole su Napoli si rincorreranno sempre come il vento insegue i silenzi, forse non credendo che i silenzi profondi possano essere meno contraddittori delle parole. Mi piacerebbe conservassimo sempre come umanità la capacità di non fraintenderci, e di non fraintendere Napoli, piegata al racconto infinito del suo stereotipo.