Foto di Alise Blandini (Roma), parole di Gio Taverni
In queste giornate Nick Cave sta attraversando l’Italia per un tour in versione solista, pianoforte e voce, con Colin Greenwood che lo accompagna al basso. Mantova, Lucca, Pompei e Roma sono le quattro tappe dei cinque concerti in solo di Nick Cave. Meno selvaggio che con i Bad Seeds, sempre immerso nella voglia di fondersi con la gente, moderno chansonnier posseduto dal rock’n’roll che dei concerti non sa fare a meno, Nick Cave sta intonando le sue ballate scure che suonano come inni alla musica dal vivo. In tutte le tappe il pezzo di apertura è Girl in Amber, e si chiude con la classica Into My Arms. Le canzoni – piano, voce, basso – sono ridotte alla loro essenzialità, non c’è un gruppo intorno a far casino, non ci sono chitarre, non c’è Warren Ellis di fianco a modulare violino o voce a tempo: Nick Cave ha lasciato tutti andare a riposo mentre lui sembra impossibilitato a fermarsi. Di questo tour restano un paio di immagini.

Nel concerto di Pompei Cave è salito sul palco, sotto le stelle di un anfiteatro millenario (quello degli scavi), e si è donato alla notte: slacciata la cravatta, liberato dalla morsa dell’etichetta e della canicola, dal piano-jukebox-nero sono venute fuori venticinque canzoni. A tratti Cave fa il bluesman al piano, con quella voce poderosa e mai graffiata, si mette a cantare l’Higg Boson Blues, o Papa Won’t Leave You, Henry, come un cantastorie vecchio stile dentro un club fumoso. Solo che non siamo dentro un club, il palco è grande, l’acustica è fantastica sotto la grancassa del cielo, e il canto arriva fino al dorso del vulcano che dorme. Nick Cave ha voglia di parlare con il pubblico – se potesse scenderebbe dal palco a salutare tutti – se potesse salterebbe lui stesso sopra quel palco – ma questo è un concerto intimo, deve trovare un altro modo per comunicare: allora fa scatenare la gente in tribuna su Balcony Man, e sussurra storie sulla nascita delle canzoni.

Il repertorio di pezzi è lungo: c’è una O Children che dura da vent’anni, pianto carsico collettivo; ci sono canzoni dai dischi più recenti (Ghosteen, Wild God), ci sono cover di Leonard Cohen, T. Rex, Young Charlatans, per rievocare connessioni musicali. Anche Greenwood è connesso, e muove il basso come un pittore puntinista. Le canzoni sono riarrangiate all’osso – nella sua versione essenziale The Mercy Seat non è un sabba, Jubilee Street è quasi pacata. A tratti solo sul palco, con Greenwood che si defila, Nick Cave dà prova del grande musicista che è, di quanto si possa essere innamorati di un pianoforte a corde, di quanto sia bello scrivere e suonare una canzone per spingere via il cielo – soprattutto quando è infestato.

I racconti dal concerto di Roma (immortalato nelle fotografie di questo articolo) dicono che sul finale, poco prima dell’encore, le persone siano salite sul palco dell’Auditorium e Nick Cave le abbia invitate a circondarlo di amore, a cantare insieme e spingere via il cielo. Pare che il cantautore abbia detto alla security di non preoccuparsi, di lasciare andare la gente intorno a lui: Cave non vuole suonare in una stanza da solo, ha paura dell’assenza che può cogliere all’improvviso una stanza, e finché dura lui sarà in tour a buttare via il dolore da dentro l’anima e a cantare le sue ballate scure.







