Letteratura

Alla ricerca della libertà: “Nomadland” di Jessica Bruder

Si definiscono vandweller, letteralmente “abitanti dei furgoni”, e sono nomadi moderni che trasferiscono la loro vita in veicoli mobili (furgoni, camper, roulotte) con cui vagano per gli Stati Uniti per trovare lavoro, a volte arrivando anche in Canada. Il loro nomadismo è una scelta di vita consapevole, fatta per sfuggire al circolo vizioso di affitti e pagamenti che non riescono più a sostenere. Quella dei vandweller è la subcultura che Jessica Bruder indaga nel suo “Nomadland, un racconto d’inchiesta”, in Italia pubblicato da Edizioni Clichy nella traduzione di Giada Diano. Hanno età varie questi nuovi nomadi statunitensi, e se si è pratici di TikTok e si naviga nei contenuti ci si può imbattere nella nuova generazione di vandweller, giovani millennial o, ancora più numerosi, membri della generazione z, che lavorano sul web e girano per il paese su veicoli che rimettono a nuovo loro stessi con pochi rudimenti di falegnameria. Per i più giovani, i nuovi hippie, il motore è la voglia di libertà, sempre più urgente in questo anno di pandemia, nonché una strizzata d’occhi alla vita da influencer, per loro sostenibile grazie alle sponsorizzazioni e qualche video naturalistico ad effetto che colpisce moltissimo follower e sponsor.

Alcuni esempi: Happyhomebodies | Divine on the road

L’indagine di Bruder, invece, compie un passo ulteriore e si sofferma su un fenomeno sociale più complesso: si tratta dei vandweller “originali”, ex media borghesia statunitense, coloro che hanno lavorato una vita senza riuscire a guadagnarsi una pensione e che dopo i 60 anni, molto spesso, si ritrovano schiacciati dai debiti. La soluzione che trovano è quella di liberarsi del fardello più pesante, la casa, inseguendo il nomadismo per sfuggire alla vita stantia che gli si prospetta. Hanno blog di consigli dettagliati per la vita nomade, forum su Reddit di confronto e sostegno reciproco, aspirano a creare «tribù girovaghe» che superano il costrutto della società americana e talvolta si organizzano in convention, che Bruder racconta minuziosamente nel suo reportage e nei video da lei prodotti e reperibili online, in cui grossi giganti del commercio vampirizzano i loro bisogni e necessità in cambio di forza lavoro e, di fatto, sfruttamento.

In foto: Jessica Bruder

L’identità dei vandweller

I vandweller non hanno un indirizzo stabile e per questo sono invisibili e non esistono per le assicurazioni sanitarie. Li si trova a campeggiare nei parcheggi dei centri commerciali, in viaggio sulle superstrade statunitensi, accampati in zone desertiche e poco raggiungibili, oppure nelle riserve naturalistiche come camping host, custodi tuttofare. Linda May, la vandweller che Bruder segue in tutta la sua investigazione, è la perfetta musa per comprendere fino in fondo il fenomeno. Linda ha 65 anni al momento dell’incontro con l’autrice, possiede una Jeep Grand Cherokee Laredo a cui ha agganciato la sua casa, lo Squeeze Inn, una mini roulotte che condivide con la sua cagnolina Coco. È stata una lavoratrice per tutta la sua vita, in molti frangenti complicata da relazioni sbagliate e licenziamenti ingiustificati, e, si diceva, è la rappresentante perfetta del popolo dei vandweller: baby boomer, e quindi tipicamente over 60, bianchi, sempre in movimento, spesso sfruttati, lavoratori che guadagnano lo stretto indispensabile per pagarsi viveri e benzina. Qualcuno sogna in grande, come Linda May stessa, e ambisce a costruirsi, sempre rigorosamente con le proprie mani, una casa ecologica e autosufficiente, quella che negli Stati Uniti chiamano Earthship. Altri si accontentano di viaggiare e lavorare per sempre, fino alla consunzione. Ma c’è già un punto interessante dell’indagine: perché i vandweller sono solo bianchi? C’è un problema i razzismo? La risposta dell’autrice conferma i sospetti e la presenza di un “white privilege” persino nella comunità nomade:

[…] in un’epoca in cui la polizia spara agli afroamericani disarmati durante i controlli stradali, vivere in un veicolo sembra una mossa particolarmente pericolosa per chiunque possa cadere vittima di una schedatura su base razziale.

“Nomadland” è più di un reportage classico: racconta una subcultura figlia delle profondissime disuguaglianze e ingiustizie sociali negli Stati Uniti.

Il lavoro e il ruolo di Amazon USA

Il lavoro di indagine e ricerca giornalistica è durato tre anni, durante i quali Bruder ha vissuto nella sua casa mobile seguendo Linda May e i suoi colleghi nomadi tra lavori e peregrinazioni. Ha incontrato i vandweller, ne ha ascoltato le vicende personali, ha riscontrato i cliché nei loro ragionamenti e le sfumature delle loro storie. Non sono né «vittime impotenti né spensierati amanti dell’avventura», ma individui, e anche famiglie intere, che compiono scelte estreme per necessità. Un vandweller diventa tale per le difficoltà finanziarie che lo affliggono, ma anche, in una certa misura, per scelta personale di libertà, per quanto possa sembrare, a primo acchito, triste e soffocante. I lavori che vengono affidati ai vandweller e che gli garantiscono la sopravvivenza sono vari: dalla raccolta delle barbabietole, e quindi lavori contadini che un po’ rimandano ai Joad di Steinbeck nel suo Furore, al già citato mestiere di camping host, ovvero figure che aiutano e gestiscono il flusso dei camperisti, e la loro permanenza, in luoghi in giro per l’America. Ma se per i personaggi di Steinbeck la speranza è quella di riacquistare la condizione di benessere, per i vandweller l’obiettivo è rimanere sulla strada: liberi, slegati dal mondo, ognuno alla ricerca del senso della propria esistenza. Le loro sono vite che si incontrano nel precariato, che contestano la società dei consumi, ma che proprio grazie a questa trovano le forze per sostenersi economicamente.

È paradossale, ma l’azienda che più ha visto del potenziale in questo fenomeno è Amazon USA. I suoi CamperForce reclutano vandweller di ogni età, anche se prevalentemente over 65, per lavori stagionali di magazzino, spesso nel periodo natalizio quando aumentano i volumi delle spedizioni. Li reclutano nelle convention, sui blog, e offrono loro aree di camping e parcheggi in cui vivere durante il periodo di ingaggio. I turni sono fisicamente massacranti e i dipendenti percorrono migliaia di chilometri vagando nelle corsie degli enormi magazzini, mettendo a dura prova il fisico e reggendo solo con antidolorifici assunti in maniera preventiva più volte al giorno.

Il video, prodotto contemporaneamente all’uscita del reportage, mostra i dettagli dei CamperForce, i metodi di reclutamento nelle convention con gadget, slogan motivazionali, workshop che insegnano a sollevare correttamente i pesi per non danneggiare la schiena e stand di case farmaceutiche che promuovono antidolorifici per “lavorare meglio”. È questo il materiale di cui è fatto il moderno sogno americano: medicinali, forza lavoro conveniente perché di poche pretese, che non si organizza in sindacati e che, quando non c’è n’è più necessità, va via senza creare troppi problemi. Il compenso dei vandweller nei diversi lavori oscilla tra gli 8 e i 13 $ l’ora, sufficienti per superare la stagione. Per fare un confronto: in USA si sta portando avanti una battaglia per innalzare il minimum page a 15$ per alcune categoria lavorative.

Quella dei vandweller è una nuova declinazione della parola precariato, forse la più preoccupante, quella che investe coloro che hanno lavorato una vita intera per una pensione che non gli è mai arrivata.

Dal film Nomadland

«L’ultimo luogo libero d’America è un parcheggio»

Il viaggio di Linda May, degli altri nomadi, e di Bruder stessa, è una metafora della società contemporanea e delle disuguaglianze indotte dai consumi. Scrive Bruder:

[i vandweller] cercavano di sfuggire a un paradosso economico: la collisione tra affitti in aumento e salari stagnanti […] intrappolati in una morsa, mentre impiegavano tutto il proprio tempo in occupazioni estenuanti che risucchiavano l’anima e rendevano appena il necessario per coprire l’affitto o il mutuo […]

È così che dicono addio al «sogno di una vita borghese», ma senza tante macerie e con un senso di liberazione che Bruder sottolinea in Linda May e in tutti gli altri suoi interlocutori. C’è un pizzico di spirito d’avventura in ogni vandweller e una punta d’orgoglio che li protegge, in qualche modo,
da un senso di fallimento personale latente, per quanto si si impegni a rimarcare la sottile differenza con il concetto di senzatetto. Ma è inutile nasconderlo: in una società che criminalizza i senzatetto, che impedisce loro di trovare riparo e in cui la gentrificazione invade gli spazi delle città e «aumenta i costi abitativi», anche i vandweller sono vittime. La loro libertà finisce quando, anche loro come se fossero senzatetto, subiscono gli sgomberi della polizia quando occupano suolo pubblico (spesso i parcheggi dei centri commerciali), preannunciati dai temuti colpi all’ingresso del proprio veicolo.

«Ma questo è il bello, le persone si abituano a tutto» riporta Bruden dopo una delle sue interviste, impegnata in un ritratto sociale e culturale, ma anche umano di individui che non cedono alle avversità, che mantengono uno scopo nella vita pur cambiandone radicalmente le regole.

Tutta la mia vita è stata alti e bassi […] «E il momento più felice è quello in cui possiedo pochissimo».

È questa la verità di Linda May, non sempre applicabile o traducibile in contesti diversi da quello statunitense, eppure indicativa per comprendere un fenomeno umano e sociale altamente variegato e sotterraneo che offre l’occasione per un ragionamento sul sistema economico statunitense e sull’enorme disuguaglianza tra ceti sociali che si traduce, di fatto, un sistema di caste suddivise per abissi salariali tra ricchi e poveri. Sono queste differenze il destino comune dell’occidente?