Presentato l’ultimo giorno di agosto alla 74a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, L’ordine delle cose è il terzo lungometraggio del regista veneziano Andrea Segre dopo i bellissimi Io sono Li del 2011 e La prima neve di quattro anni fa. Segre, quarant’anni, nasce artisticamente come regista di documentari che fin dall’esordio con Lo sterminio dei popoli zingari del 1998 si sono concentrati sulle diverse etnie, sui popoli e sulle culture fortemente legati al tema dell’immigrazione, interesse, questo, condiviso con l’esperienza all’Università di Bologna dove ha insegnato, fino al 2010, come esperto di analisi etnografiche.
Tra i numerosi titoli val la pena ricordare il bellissimo Il sangue verde sulle rivolte di Rosarno nel 2010 e Mare Chiuso del 2012 sulle ricadute degli accordi tra Berlusconi e Gheddafi ma anche Indebito del 2013, racconto del disco greco di Vinicio Capossela con cui era riuscito a intrecciare l’esperienza artistica alla terribile crisi economica che ha messo in ginocchio la penisola ellenica.
Il mondo degli ultimi, cui Segre è stato sempre così legato, è stato anche la porta di accesso dei suoi primi due film di fiction, soprattutto attraverso la messa in scena del tentativo di dialogo tra comunità molto chiuse e la presenza straniera: quella dei pescatori di Chioggia con una ragazza proveniente dalla Cina, nel primo film, come anche la piccola comunità presente nella trentina Valle dei Mocheni alle prese con alcuni immigrati togolesi fuggiti dalla Libia, nel commovente La prima neve.
È proprio in Libia che Segre ha ambientato L’ordine delle cose, un progetto nato tre anni fa, molto prima delle politiche attuate dal Ministro Minniti. Non si tratta certo di preveggenza, ma di un lavoro d’incontri e conoscenza sul campo (insieme al fidato sceneggiatore Marco Pettenello) che ha permesso di intuire in anticipo “che l’Italia si apprestava ad avviare respingimenti di migranti nei centri di detenzione libica. Nessuno lo diceva pubblicamente, ma ora che il film esce è tutto alla luce del sole“.
Lontano dall’Italia, in una terra dove Segre farà dire al personaggio interpretato da Giuseppe Battiston mancano i colori e ogni cosa è irrimediabilmente beige, quel senso di comunità così importante nei suoi primi lavori, unica àncora cui aggrapparsi per tentare almeno una comprensione reciproca nel sempre complesso e mai facile rapporto tra indigeno e straniero, si disfa completamente.
Alle spalle del protagonista, Corrado, funzionario del Ministero dell’Interno non c’è, infatti, alcuna comunità ma soltanto il vuoto assordante della politica con la sua richiesta di soluzioni che non sono mai a lungo termine ma immediate, di facciata, alla ricerca, come sarà ripetuto più volte nel corso del film, di qualcosa di notiziabile, mero specchietto per le allodole, unica merce di scambio in un’ossessiva, continua e perenne campagna elettorale che attanaglia ogni discorso sul paese, incapace di distogliere lo sguardo dai sondaggi dell’opinione pubblica. Una politica stretta tra i vincoli di Bruxelles e il mondo che si volta dall’altra parte e che annaspa nel governo di un paese attanagliato dalla solitudine cui è stato lasciato nell’affrontare una delle peggiori catastrofe umanitarie che il mondo moderno ricordi.
In Libia, lontano dai numeri, dai puntini che si muovono sui monitor di geolocalizzazione per il controllo degli spostamenti tra la sponda libica e quella italiana, dagli uffici dei ministeri, dalle piazze romane nella loro bellezza e nella loro decadenza, a emergere sono i volti dei migranti, le loro storie impossibili da raccontare, da comprendere a fondo: facce, corpi, mani, cadaveri a galleggiare sulla superficie delle onde oppure a restare per sempre sui fondali del mare nostrum, altrimenti relegati a fotogrammi sullo schermo di un computer o nel telegiornale delle venti a fare da macabro commento all’indifferenza di cene familiari.
Corrado è di Padova, sposato a un medico (la sempre brava Valentina Carnelutti), ha un figlio che studia negli Stati Uniti e una figlia immersa, senza eccessivi scossoni, nei primi contrasti adolescenziali. Quella di Corrado è l’immagine di una famiglia modello del nord est, dove ogni cosa, sentimenti compresi, sembra ingabbiata all’interno di un’opulenza borghese, economica e culturale, che protegge i suoi membri e li isola al contempo come nella bellissima scena finale in cui li osserviamo muoversi in una casa acquario che quasi sembra separarli fisicamente dai mali del mondo.
Da una parte l’Occidente, dunque, con il suo ordine raggiunto e da mantenere, dall’altro il paesaggio libico e il disordine che non lo anima ma lo mortifica, perché non è un disordine creativo, irriverente e in definitiva liberatorio ma disordine che nasce dalla fitta e complessa rete del potere secolare tribale che fa della Libia, da sempre, un paese che l’Occidente è incapace di comprendere.
Lontano dal distacco documentaristico che è in fondo la parte complementare del suo lavoro di regista, Andrea Segre fa scivolare Corrado, interpretato da Paolo Pierobon, volto importante del nostro teatro e, da alcuni anni, noto anche al grande pubblico per l’esuberanza mefistofelica di uno dei cardini intorno al quale ruotava il successo della fiction Squadra Antimafia (e memorabile Silvio Berlusconi nella serie Sky 1993), dentro i pericolosi meandri del contatto umano, qualcosa che coglie impreparato il funzionario del Ministero degli Interni che si trova improvvisamente e inaspettatamente nelle acque internazionali della propria coscienza.
Cosa accade quando la fredda burocrazia che deve vivere di calcoli, di strategie e di pressioni vacilla anche negli uomini che pure ne fanno parte ma che sentono sulla loro stessa pelle il bisogno di atti di eroismo, di slanci che sappiano spezzare l’oscura cappa del risultato, del lavoro ben fatto, per spingersi su territori ormai estranei alla politica come la giustizia sociale e l’assunzione di responsabilità nei disastri geopolitici mondiali?
Cosa accade quando tutto questo si incrocia per un attimo in un hotspot nel deserto (il nome politicamente corretto di quelli che sono autentici centri di prigionia) gestito dalle solite milizie paramilitari (che tanto piace raccontare, invece, come interlocutori credibili di un governo che nemmeno esiste più dopo la scellerata operazione militare del 2011), dove Corrado incontra Swada, una donna somala che sta cercando di scappare dalla detenzione libica e di attraversare il mare per raggiungere il marito in Europa?
È questo che vuole raccontarci Segre con tutta la forza dell’indipendenza del suo cinema, delle lingue diverse che si parlano sul grande schermo (italiano certo ma anche molto inglese e arabo) senza che da alcuna parte si affacci il demone del giudizio, dell’osservazione didascalica. Nello spaesamento così intenso sul volto di Pierobon si legge lo spaesamento di tanti che si trovano ad affrontare quotidianamente l’abisso scavato tra un numero e una persona con la sua storia. Nella scelta che farà, in un’intensa sequenza prima di rientrare nella sua bellissima casa non c’è solo il dramma personale di un uomo su cui improvvise ricadono le scelte di chi ha deciso di non compierle.
Credo che quella di Corrado sia la condizione di molti di noi in quest’epoca che sembra aver metabolizzato l’ingiustizia. La tensione tra Europa e immigrazione sta mettendo in discussione l’identità stessa dell’Europa. Corrado e la sua storia raccontano questa crisi di identità. Ho cercato in lui, nel suo ordine e nella sua tensione emotiva, quelle della nostra civiltà e del nostro tempo. Sappiamo bene quanto stiamo abdicando ai nostri principi negando diritti e libertà a essere umani fuori dal nostro spazio, ma proviamo a non dircelo o addirittura a esserne fieri. È questa crisi che mi ha guidato eticamente ed esteticamente nel raccontare il mondo di Corrado, un mondo tanto rassicurante quanto inquietante.
Con L’ordine delle cose, prodotto da Jole Film e da Rai Cinema, Andrea Segre dimostra ancora una volta di essere tra i migliori registi italiani, capace com’è di non scendere a compromessi per consegnare al pubblico opere, che, davvero, con un termine che sembra desueto e non dovrebbe invece esserlo, sanno essere forti testimonianze d’impegno civile, di un cinema che spesso e volentieri, purtroppo gode di vetrine festivaliere (che nonostante le ultime tendenze continuano a investire sul cinema d’autore) ma che troppo spesso invece vede latitare l’impegno della grande distribuzione.
Alcune cose sono certamente perfettibili in questo film che si colloca qualche passo indietro rispetto ai due lungometraggi precedenti, vuoi per ragioni strettamente filmiche (qualche momento di stanchezza lungo le quasi due ore si avverte) vuoi anche per l’assenza della poesia che permeava i due lavori precedenti (ma c’è forse spazio per la poesia davanti alle porte dell’inferno?) ma L’ordine delle cose è un film importante che cerca di raccontare il mondo per quello che è, senza il bianco e nero, e senza alcun bisogno di alzare la voce. È un tassello importante, quasi necessario, per la comprensione del mondo, testimonianza di ciò che accade dall’altra parte del mare e ancora di più dentro le nostre coscienze che sempre più sembrano anestetizzate al dolore dell’altro e alla responsabilità cui dimentichiamo di essere chiamati, semplicemente come esseri umani.