Sono cresciuto in un paesetto in cui ogni anno si aspettava il Giorno dei Morti con una peculiare trepidazione. Si indossava il vestito migliore per la consueta visita al cimitero e si compravano dolci e preparavano pietanze preparati in questa occasione, seguendo un rito che nel suo spirito mi è sempre apparso più vicino al paganesimo che alla sacralità cristiana. Negli anni tuttavia ho capito che si tratta di una forma di profondo rispetto: a volte, solo nella mancanza capiamo fino in fondo l’importanza che ha avuto per noi una persona, e recarsi eleganti davanti al suo sepolcro è un modo per mostrare a chi ci è intorno il forte legame con chi è venuto a mancare. Condividere quei cibi invece ci aiuta ad affrontare insieme il sopraggiungere del ricordo della perdita. Il mio paese era molto simile a Casarsa della Delizia, nello spirito, per quanto geograficamente il Friuli sia piuttosto distante dalla periferia rurale campana: una piccola comunità agricola cresciuta a margine di ogni possibilità di progresso, che si riconosce nei riti più antichi trasmessi attraverso le parentele, in cui il culto dei morti è importante quanto la frequentazione dei vivi. Un contesto che Pier Paolo Pasolini avrebbe sicuramente adorato. Perciò, mi vestirò elegante anche io, quando tra qualche giorno sarò di fronte alla sua tomba a Casarsa, provando a deporre un fiore sulla lapide in modo discreto, in un momento in cui la folla che si riunisce per questo rito sarà distratta, sopraffatta dal sopraggiungere di ricordi ed emozioni.

Negli ultimi anni di intensa frequentazione di studiosi locali, ho cominciato a chiamare anche io Pasolini per nome, Pier Paolo, come se fosse per me più un amico che un oggetto di studio e venerazione, seppure incontrato solo in assenza. Spesso, nei momenti più impensabili delle mie giornate, sento tornarmi in mente qualche frase dalle sue opere, la sento pronunciata nella sua voce, come capita con le espressioni tipiche delle persone a noi più care. Ho deciso di recarmi a Casarsa e partecipare alla commemorazione della sua scomparsa, in questa occasione, interpretando con uno spirito affine a quello dei miei compaesani oggi lontani anche i preparativi per le grandi celebrazioni che si terranno in tutta Italia a partire questa domenica (basta controllare velocemente un motore di ricerca per trovarne ovunque): un anniversario che ci ricorda che sono passati esattamente cinquant’anni da quella notte tra l’1 e il 2 novembre del 1975 in cui si è consumato il brutale assassinio di questo incredibile personaggio ed eccezionale artista. Un evento reso ancora più atroce dalla scoperta del presunto responsabile del suo massacro – palesemente, in concorso con altri, nonostante quello che dicono le indagini ufficiali: un ragazzetto di quelli che aveva amato e raccontato, di quelli che aveva incontrato tra le campagne friulane e le borgate romane.
Martire in vita, più spesso denigrato che semplicemente criticato anche in morte, a lungo relegato ai margini del canone nazionale della nostra letteratura, vedere che a cinquant’anni di distanza Pasolini è finalmente celebrato con le attenzioni che merita è una notizia che si accoglie con sollievo, più che soddisfazione: una eco dei più gioiosi festeggiamenti che solo tre anni fa avevano accompagnato la centesima ricorrenza della sua nascita a Bologna, ma che ce ne sottopone in questo caso l’assenza. Se vogliamo, è questo il vestito buono indossato oggi dai milioni di italiani che cinquant’anni fa accendevano il televisore trovandosi davanti facce di giornalisti sorpresi o straziati dalla necessità di trasmettere questa notizia. Intorno a queste persone, ci sono oggi figli e nipoti che non hanno potuto percepire la presenza di Pasolini: alcuni ne scrivono ormai da decenni, come il sottoscritto, rievocandone la persona solo attraverso la molteplicità di immagini che ci ha lasciato; altri, più giovani, non ne hanno neppure mai incontrato l’immagine, ma come è successo molto probabilmente ai maturandi dell’ultima edizione dell’esame di stato, si sono trovati le sue parole, pure quelle all’improvviso, tra le tracce di un compito di italiano.

È difficile, tuttavia, a cinquant’anni dalla scomparsa di Pasolini, poter dire se il Paese ha davvero percepito la statura di questo straordinario personaggio: per questo motivo, di solito preferisco ricordarne la vita, piuttosto che associarmi a chi ne evoca la morte, ripercorrerne l’opera piuttosto che le indagini che hanno provato a ricostruirne l’omicidio. Ma quest’anno, passando da una tradizione religiosa a un’altra, dal paganesimo di cui è imbevuta la campagna in cui sono cresciuto a quello che ispira le comunità messicane nelle Americhe, vestendo i panni dell’antropologo che Pasolini amava indossare mentre era in giro con la macchina da presa, rivendico l’importanza di questo momento di soglia in cui il cimitero diventa un luogo magico in cui vivi e morti si reincontrano. Per ricordare il poeta, l’autore, l’artista, l’intellettuale, possiamo entrare in una libreria, in una biblioteca, o con un paio di click raggiungere risorse digitali o una piattaforma che riproduca i suoi film: oppure, come faccio ormai da vent’anni, scriverne (qualche anno fa ne ho parlato anche su questa webzine). Oggi invece il mio desiderio è dedicare un pensiero all’uomo dietro l’autore: quello che non possiamo più incontrare. Allora, proviamo a fare qualcosa di rivoluzionario: domenica concediamoci un momento per un pensiero a Pier Paolo. Da lunedì, però, cominciamo a leggere sul serio quello che scriveva Pasolini.